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“Simbiosi/Fusionalità e costruzione delle soggettività” di B. Bonfiglio. Recensione di D. Cinelli

6/06/18

“Simbiosi/Fusionalità e costruzione delle soggettività. Parlando di clinica”, di Basilio Bonfiglio

Franco Angeli, 2018

 

Recensione di Daniela Cinelli

 

C’è sempre e solo stata una strada

un giardino sul retro, una camera da letto:

ogni volta che ti svegliavi ti svegliavi con sopra

il soffitto sotto cui eri nato,

per il più breve, inconscio secondo

a un battito di ciglia da casa.[1]

(Dermot Bolger, Whenever You Woke)

 

Se la lettura di un libro di psicoanalisi conduce misteriosamente, ma con decisione, a un’area della mente in cui risuonano versi poetici è perché garantisce un’ariosità di pensiero in cui riverberano aree personali che garantiscono un accesso conoscitivo-emotivo che è al tempo stesso una dimensione esperienziale. Tra le pieghe della mia personale lettura dei versi posti in esergo, infatti, si annidano alcuni dei temi cardine di questo volume: la presenza di una dimensione intrinsecamente transferale che colora la nostra intera esistenza e il bisogno fusionale di contatto come esigenza specificamente umana e potenzialmente evolutiva, garantita dal potere dell’illusione che promuove e sostanzia la relazione con la realtà e con la propria esistenza.

Questo è il territorio nel quale l’operare clinico ampiamente illustrato nel testo e il contesto teorico a esso sotteso si innestano.

Bonfiglio ci conduce all’interno di un viaggio professionale e al tempo stesso esistenziale che ha come cartografia, compagna di viaggio e meta, la psicoanalisi nel suo declinarsi clinico. Assieme a lui rivisitiamo i luoghi originari di questo itinerario formativo, i sentieri precedentemente battuti e ora abbandonati per procedere lungo le loro diramazioni più ampie, garanti di una crescita e di un divenire congiunto di paziente e analista. È proprio in tale crescita congiunta che risiede il fil rouge del testo, crescita che emerge da un incontro promosso da «processi spontanei di fusionalità» (82), da una regressione al cui interno dimora una forza propulsiva in grado di mettere in moto processi di crescita arrestati o mai avviati. Tale «ripresa di un processo naturale di sviluppo» (11), di ferencziana e winnicottiana memoria, è permeata da fiducia, speranza e profondo rispetto dell’analista per le potenzialità innate dei pazienti all’interno di un ambiente che possa favorire il dispiegarsi della mente evitando coartazioni e colonizzazioni che prenderebbero il posto di una relazione umana. Vorrei segnalare quanto l’uso dell’aggettivo “naturale” sia un elemento chiave per comprendere la proposta clinica dell’autore: nell’essere umano il somatico e lo psichico vengono a coincidere lungo direttrici spontanee e fisiologiche culminando in un’unica realtà psicosomatica. Come preannunciato nel titolo, grande risalto lungo tutto il testo viene dato alla fenomenologia clinica, nell’intento di porre in luce «gli sforzi consapevoli, ma soprattutto inconsapevoli degli analizzandi impegnati a proseguire o riprendere processi di sviluppo e crescita impossibilitati» (9). La grande messe di materiale clinico offerto delinea di per sé un vertice teorico: la dimensione esperienziale, il giungere a esistere in analisi, devono precedere la comprensione e in certi casi divengono vera e propria meta dell’impresa analitica. Bonfiglio incontra i pazienti da lui ritratti con quello che definirei uno sguardo immaginativo che si colloca oltre il percettivamente visibile, permettendo di cogliere un invisibile che è costitutivo, che rivela le disarmonie tra soma e psiche, il reale grado di sviluppo della mente, e le dimensioni embrionali dell’esistenza psichica del soggetto. Qui è la visione a predominare sulla percezione; visione che diviene così il veicolo per accedere a un ineffabile, a quell’inconscio non rimosso che può esprimersi attraverso immagini da cui l’analista è visitato, che svelano così il più intimo idioma del soggetto. Bion (1977) ha affermato che se l’analista non si permette di esercitare la sua immaginazione speculativa non può essere in grado di produrre le condizioni nelle quali possa fiorire un’ idea scientifica. Questa congiunzione tra scienza e immaginazione si irradia nell’incontro analitico e lo permea di possibilità trasformative. I processi di natura simbiotico-fusionale si collocano proprio in seno a tale congiunzione e costituiscono il vero e proprio focus dell’intero volume. Collocandosi lungo il doppio versante della tradizione della scuola romana (Neri, Pallier, Soavi, Tagliacozzo, et. al.) e degli Indipendenti Inglesi (Winnicott, Milner, Little), Bonfiglio esplora e amplia tale area concettuale interrogandosi e illustrando come sia possibile allestire condizioni interne ed esterne affinché il paziente possa esperire una nascita e un consolidamento del proprio Sé, secondo una «particolare modalità di maturare ed evolvere» (33) che gli permetta quella «esigenza primaria dell’essere umano» che coincide con l’esperienza illusoria e profondamente evolutiva dell’aver fatto tutto da solo. A tale scopo l’analista abita in una dimensione di ascolto immaginativo, di silenzio popolato da una precisa consapevolezza dei movimenti transferali e controtransferali in atto. La sua posizione di sfondo, apparentemente decentrata, è assolutamente centrale per il processo di soggettivazione del paziente. Siamo all’interno dell’annosa, apparente dicotomia stare (garantire esperienze fusionali, esperire, far emergere un processo naturale di sviluppo), versus fare (insight, interpretazione) in psicoanalisi. Dicotomia apparente poiché la qualità dello stare dell’analista è al contempo vera e propria attivazione di un processo, al punto che tale opposizione viene ad annullarsi se osservata da questo vertice, che concepisce l’atto del vedere come dotato di un’autentica forza ricostruttiva (Symington, 2012) e i così detti fattori terapeutici aspecifici come colonne portanti dell’avventura psicoanalitica.

Si assiste così a una necessaria ridefinizione di cosa sia condurre un lavoro a tutti gli effetti psicoanalitico, considerando che oggigiorno, con certi pazienti, i passati criteri di analizzabilità, come pure il processo del libero associare, divengono vere e proprie mete dell’analisi stessa. L’analista si colloca essenzialmente alle origini dell’essere e di avvenute catastrofi, come ben illustrato nel capitolo “Memorie somatiche e sviluppo della soggettività”, al fine di colmare uno scarto avvenuto ai tempi primigeni dello sviluppo e decifrare un linguaggio del corpo che di per sé è narrazione in nuce, com’è stato intuito da Carla De Toffoli.

Particolare attenzione viene data dall’autore alla «presenza silenziosa ma pervasiva» (81) dell’analista dentro e fuori lo studio analitico e allo studio stesso: a un setting che ricordo Ogden definì con il termine di «posto umano» (Ogden, 2004). Una felice definizione, a carattere fisico, sensoriale e psichico, che rende conto del modo in cui Bonfiglio concepisce il setting come luogo che incarna di per sé una funzione integrante, permeato com’è dalla presenza dell’analista; come elemento chiave che concorre al complesso processo di instaurazione di una relazione umana in un luogo in cui il paziente possa anch’egli divenire più intensamente e pienamente sé stesso. L’importanza primaria accordata a tale dispositivo suscita nell’autore un interessante viaggio a ritroso per individuare la fonte della nostra attuale concezione di setting nel caso freudiano di Emmy Von N., di cui ci è offerta un’interessante rilettura.

La struttura del percorso che anima il volume diviene chiara, nei capitoli finali, quando ci si sente accompagnati verso la delicatissima emersione dagli iniziali stati fusionali all’albeggiare di un processo in cui un “Io” e un “Tu” possono cominciare ad acquisire dei contorni più delineati. È un momento cruciale, foriero di rischi in cui il senso unitario e fino ad allora armonico del paziente viene messo a repentaglio. La gradazione dell’intensità della luce con cui illuminare questi fenomeni è di capitale importanza: occorre creare come sfondo a questa emersione di terre sommerse un crepuscolo in cui i contorni delle presenze di paziente e analista possano essere intraviste in un tramonto che abbia tutte le qualità dell’alba.

 

 

Bibliografia

 

Bion, W.R. (1977). Taming Wild Thoughts. London, Karnac, 1997.

Ogden, T.H. (2004). On Holding and Containing, Being and Dreaming. Int. J. Psychoanal., 85: 1349-64.

Symington N. (2012). The Psychology of the Person. London, Karnac.

 

[1] Traduzione mia. Bolger, D. (1993). Whenever you Woke. In: C. Tóibín (Ed.) Soho Square Six. London, Bloomsbury Publishing.

 

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