Rileggere Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza

Rileggere Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza

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27/05/13

Centro Veneto di Psicoanalisi
Padova, 18 maggio 2013

INTRODUZIONE. Al Centro Veneto di Psicoanalisi, nell’ambito dei Seminari Teorico Clinici, Giovanna Giaconia e Cristina Saottini hanno proposto due interessanti riletture di Pinocchio che hanno suscitato una vivace discussione nel pubblico.

Giovanna Giaconia. Rilettura di Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza. 

Cristina Saottini. Pinocchio, un mito italiano. 

Rilettura di Pinocchio alla luce dello sviluppo dall’infanzia all’adolescenza 

Giovanna Giaconia

“Le avventure di Pinocchio” nasce come racconto a puntate pubblicato sul giornale dei bambini a partire dall’anno 1881 e termina nel 1882 al 15esimo capitolo con l’impiccagione di Pinocchio da parte della losca coppia il Gatto e la Volpe. Pare che i bambini non si rassegnassero a questa fine e chiedessero che Pinocchio tornasse in vita. Fatto è che la pubblicazione riprende per concludersi nella forma nota nel gennaio 1883 al 35esimo capitolo.
Un libro per bambini, edificante, educativo, letto anche dagli adulti.
Nasce in Toscana, una regione povera dell’Italia post unitaria, scritto nella lingua parlata distante dal linguaggio aulico dei poeti, per una società che l’autore guarda con critica partecipazione e spirito libertario.
Libro per bambini, dicevo, letto dagli adulti, una commedia umana che ha evocato, per me, la fantasia autobiografica di un adolescente: nascita, vita infantile, passaggio all’adolescenza e all’età adulta.
Pinocchio è un burattino o un ragazzo burattino, irrequieto, perennemente affamato (in Toscana la fame era, a quell’epoca, di casa).
Come ogni personaggio è per l’autore vagamente autobiografico “Madame Bovary c’est moi” scrive Flaubert.
L’autore nasce infatti in una famiglia povera primo di una numerosa fratria, il padre cuoco, la madre lavora come sarta per far fronte alle necessità familiari. Forse la nostalgia per una mamma tanto contesa ha ispirato la scelta del cognome Collodi, dal villaggio di provenienza materna, al posto del paterno Lorenzini.
A Collodi ha forse goduto momenti di intensa vicinanza alla madre in un libero ambiente agreste, ha forse sperimentato o fantasticato quella relazione contiguo-autistica di cui parla Ogden.
Pinocchio nasce da un pezzo di legno da catasta, anima arborea, parla ancor prima di essere nato. Voce evocativa nella fantasia infantile: ogni bambino chiede “dov’ero prima di nascere? Prima di essere nella pancia della mamma?”
La voce spaventa mastro Ciliegia ma è accolta da Geppetto “il maieuta che rivela le proprietà nascoste del pezzo di legno” (Manganelli).
Mastro Ciliegia e mastro Geppetto, detto Polendina per la parrucca gialla, sono due personaggi contrapposti, concreto preda di allucinazioni alcoliche mastro Ciliegia, poetico sognatore surreale mastro Geppetto, un eterno adolescente non giunto all’età adulta. Nella sua misera casa solitaria, una stanza che prende luce da un sottoscala, crepita dipinto sul muro un fuoco sui cui bolle fumante una pentola.
Vuole farsi un burattino che sappia saltare, ballare, tirar di scherma, e con lui girare il mondo per guadagnarsi un pezzo di pane e un  bicchiere di vino.
Al di là della consapevolezza dà vita a un figlio che lo trasforma da sognatore in padre reale e amorevole.
Pinocchio, insolente e derisorio anche prima di essere del tutto nato, oppositivo verso colui che lo mette al mondo, ribelle, con quel naso che non si lascia accorciare, più Geppetto lo taglia più diventa lungo, muove i primi passi condotto per mano dal padre e scappa, salta come una lepre, fa un chiasso che farebbero gli zoccoli di venti contadini, ignaro epigono della filosofia della natura, corre, corre verso la libertà naturale, verso la fusione con l’onnipotente Madre Natura, sfugge alla natura umana cui Geppetto lo destina.
La gente ride, non ascolta le richieste d’aiuto di Geppetto, lo guarda con sospetto, è un personaggio surreale, un diverso, quindi lo accusa “certo sarà un cattivo padre, picchierà il povero burattino” e così il Gendarme, che aveva acchiappato Pinocchio, lo lascia libero e porta in carcere Geppetto.

Penso a un comportamento sociale che non ha tempo, un comportamento gruppale che Freud definirebbe “identificazione a massa” e Bion “un gruppo che funziona per assunti di base”.

Pinocchio è ormai nato e come ogni bambino è deluso dal sogno onnipotente.
Il ritorno a casa dopo la fuga è desolante. Geppetto è in carcere, la casa è vuota e silenziosa, solo la voce del Grillo Parlante rimprovera Pinocchio, gli fa una predica severa, come severo è il Super-Io primitivo che risveglia la “scheggia assassina” (Manganelli); Pinocchio gli lancia il martello e lo uccide, ma sappiamo che il Grillo-Coscienza parlerà ancora; intanto il freddo e la fame sono una terribile punizione, nessuno lo soccorre, sfinito si addormenta, posando i piedi su un caldano pieno di braci accese e i piedi si bruciano.
Affranto, con i piedi bruciati, lo ritrova Geppetto tornato dalla prigione. Lo rimbrotta un po’ ma poi lo nutre con la sua povera colazione, gli fa con perizia i piedi nuovi “come fossero modellati da un artista di genio”.
Pinocchio conosce la frustrazione e la gratitudine, promette che andrà a scuola e ancor più grato sarà al padre che si vende la vecchia giubba per comprargli l’abecedario.
Inizia il conflitto fra il desiderio di diventare un bravo bambino, come il padre vorrebbe, e il piacere di far ciò che gli aggrada: conflitto tra narcisismo e rapporto d’oggetto.
ll sogno del bravo ragazzo è grandioso, irreale: imparare un giorno a leggere, uno a scrivere, uno a far di conto e poi diventare ricco, un ricco da favola; comprerà a Geppetto una giubba nuova, d’oro e d’argento con i bottoni di diamanti. Da questo pensiero lo distoglie un suono di pifferi e di grancassa: proviene dal Gran Teatro dei Burattini. Preso dalla febbre della curiosità, vende l’abbecedario ed entra nel teatro, riconosciuto e festeggiato dai fratelli di legno.
Sarà il suo slancio di amore fraterno verso Arlecchino che intenerirà il terribile Mangiafuoco, che gli dona 5 monete d’oro per il suo babbo.
Pinocchio è nato deprivato, non ha conosciuto la prima infanzia “la mamma non l’ho mai avuta” dirà a Mangiafuoco.

Non ha fatto l’esperienza di un oggetto del bisogno che, tra luci e ombre pulsionali, si trasforma in oggetto d’amore. L’oggetto del suo desiderio è onnipotente e perennemente disponibile, un oggetto reale e narcisistico. Pinocchio è perennemente in conflitto tra l’adesione a quest’oggetto tutt’uno con se stesso, in relazione adesiva con un se stesso ideale, e la relazione consapevole con un oggetto buono che sa di impoverire e danneggiare pur  con disperati sensi di colpa, una colpa irreparabile, che solo il pensiero magico può affrontare.

Così Pinocchio cede alla magica promessa del Gatto e la Volpe che furbescamente gli dirà di aver visto il suo babbo “tremante di freddo sull’uscio di casa”. Pinocchio dichiara i suoi buoni propositi ma i due denigrano la scuola, fonte delle loro infermità.
Un Merlo Bianco, come già il Grillo Parlante, avverte Pinocchio ma il Gatto con un rapido scatto se lo mangia.

Pinocchio ha appreso un’altra difesa psichica: la proiezione. Non lui è l’assassino, come per il Grillo, ma il Gatto: lui si limita a criticare, con fare saccente, “tutti gli impiccioni che gli danno consigli come fossero tutti babbi”.

Per contro non si avvede dello sfruttamento dei falsi amici, neppure all’osteria dove i due banchettano a sue spese pur dicendosi inappetenti e malati di stomaco. Nel buio della notte e della ragione, parte Pinocchio per l’appuntamento con la losca coppia, è inseguito dagli assassini che vogliono derubarlo, scappa, corre a perdifiato, spera di trovare scampo bussando alla casina bianca; la pallida bambina dai capelli turchini che compare e scompare alla finestra dirà “è la casa dei morti, lei stessa è morta”. Gli assassini lo raggiungono e lo impiccano alla quercia grande, un grande albero di legno duro come l’albero da cui è nato. Così finisce la prima stesura della storia, storia pessimista ove la colpa persecutoria trionfa ineluttabile.

Abbiamo fin qui incontrato persone umane e animali, in realtà due specie di animali, gli uni chiaramente simbolici, il Grillo Parlante, il Merlo Bianco, rappresentanti della coscienza, sia in senso cognitivo che etico,  gli altri direi allegorici, biechi esseri spietati, egoisti avidi e crudeli come il Gatto e la Volpe. Mangiafuoco, pur nell’aspetto di orco avido, ha sentimenti umani, si commuove al pensiero di Geppetto, povero padre sommerso dalle difficoltà della vita.
Traspare un’appassionata critica dello sfruttamento da parte di chi più sa nei confronti di chi è sprovveduto di conoscenza, di chi non riconosce il diritto dell’altro.
Pinocchio evoca la storia dei tanti ragazzi disadattati che hanno gravi difficoltà a seguire un percorso scolastico, a formulare un progetto di vita, a sentirsi parte della società, saccenti e ingenui, sfruttatori ignari di essere sfruttati. Nella loro storia, traumi affettivi precoci, traumi da carenze e in particolare da carenze di contenimento materno.
Come Pinocchio sono posseduti da consce e inconsce fantasie onnipotenti, da insoddisfatto bisogno d’amore che danno origine a fantasie di morte, di cupio dissolvi, ove bruciano amore e odio e fantasie di trionfo oscuro, mortifero alimentato dal narcisismo.
Nel mito, versione di Pausania, Narciso vede nello stagno l’immagine della gemella perduta e per raggiungerla, in un anelito fusionale, si lascia cadere e muore (la gemella adombra la figura materna).
La Fata dai capelli turchini, creatura ambigua, compare nella scena dell’impiccagione come bambina foriera di morte, poi si dirà sorellina. Sembra avere in comune con Pinocchio una natura silvestre, le obbediscono gli uccelli e le creature del bosco e, come Pinocchio, non fa parte del normale consesso umano.

Nella cameretta con le pareti di madreperla, il burattino è accolto e curato: un atto d’amore dà inizio alla sua trasformazione umana e al proseguire della storia.
Liberato dal cappio dal potente becco dei picchi, è trasportato su una carrozzina color dell’aria, rivestita di piume di canarino, foderata di panna montata e crema di savoiardi, un meraviglioso nido: la seconda nascita!
Un po’ sornione Pinocchio subisce, in una scena da commedia dell’arte, una visita di tre dottori: il Corvo, la Civetta e il Grillo Parlante; sproloquiano i primi, il Grillo resta silenzioso, la Fata chiede la sua opinione “quel burattino lì lo conosco da un pezzo, è un figliolo disobbediente che farà morire di crepa cuore il suo povero babbo”.
Pinocchio si nasconde sotto le lenzuola e singhiozza disperatamente. Si ammala, anche il corpo umanamente risponde con la febbre al dolore morale, al senso di colpa. Come un vero bambino rifiuta la medicina amara, ma alla vista dei conigli neri con la bara ha paura della morte e beve la medicina d’un fiato.
La Fata gli promette una vera famiglia, riunita nella casina nel bosco: babbo Geppetto, la Fata come sorellina. Pinocchio ne è conquistato e vuole correre incontro al babbo per annunciargli la bella notizia.
Entra nel bosco, corre come un capriolo, si rianima la natura silvestre o forse il magico sogno di natura silvestre, incontra il Gatto e la Volpe, ancora si lascia sedurre dalle promesse ingannevoli: seppellire le monete e farne crescere in breve un albero. L’esperienza passata non gli insegna nulla, con indifferenza attraversa, per giungere al Campo dei Miracoli, la città di Acchiappacitrulli, popolata da animali mal ridotti, poveri, vergognosi, dove poche carrozze passano con volpi e uccelli da rapina.

Pinocchio è totalmente dominato dal pensiero magico, ma la sua magia, a differenza della magia della Fata, è crudelmente fallimentare.

Quando si rende conto dell’inganno, corre al tribunale per chiedere giustizia, si guadagna quattro mesi di prigione. Verrà liberato per un editto del Re, un re da favola estraneo all’ambiente da novella rusticana. Un atto di clemenza: aprire le prigioni e lasciare liberi i malandrini. Neppure nelle favole si riparano le ingiustizie.
Libero, Pinocchio corre come un levriero verso la casa della fatina per ritrovarla e incontrare il babbo. Fa come al solito buoni propositi ma, per la prima volta, ricorda le esperienze e si rende conto che l’esperienza rende esperti gli adulti. Corre, corre, ma la strada gli è sbarrata da un grande serpente: ha gli occhi di fuoco, la coda appuntita che fumava come un camino.
Con vocina gentile Pinocchio chiede “scusi signor Serpente, non si farebbe un pochino da parte per lasciarmi passare?” ma il Serpente sembra non sentire, neppure la spiegazione: la fretta di rivedere il babbo. Forse dorme, ma quando il burattino cerca di scavalcarlo si rizza come una molla. Fa un balzo indietro Pinocchio, così improvviso, che cade conficcando la testa nel fango, le gambe all’aria sgambettano e il Serpente ride, ride talmente che gli scoppia una vena e muore.

Che senso ha la comparsa di questo animale mitico? A differenza degli animali fin qui incontrati, non parla con Pinocchio, solo lo deride fino a morire. Sembra la volgarizzazione grottesca di una creatura onirica, evoca immagini fellliniane  di sogni adolescenziali.

Pinocchio riprende a correre verso la casina della Fata. La casina è scomparsa, al suo posto una lapide: “qui giace la bambina dai capelli turchini, morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo fratellino Pinocchio”.
Non è andato a scuola Pinocchio ma sa leggere i messaggi affettivi. Piange disperato, quando un provvido colombo, gli propone di portarlo in volo sulla riva del mare. Geppetto lo ha cercato invano per 4 mesi e ora sta costruendo una barchetta per cercarlo nei paesi lontani del nuovo mondo.
La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava guardando il mare. “Che cosa è accaduto?” chiede Pinocchio a una vecchina. “E’ accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliolo, gli è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo aldilà del mare, e il mare oggi è molto cattivo, e la barchetta sta per andare sott’acqua”.
Appunta lo sguardo “Gli è il mi babbo! Gli è il mi babbo!”
Tutto a un tratto una terribile ondata e la barchetta sparisce.
La gente mormorò una rapida preghiera e silenziosamente tornò alle proprie case, avvezza alle disgrazie e alla propria inermità.
Con un grido Pinocchio si tuffa dall’alto di uno scoglio e nuota velocemente in uno strenuo tentativo di salvataggio. Nuotò tutta la notte: diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente con certi lampi che parevano di giorno. Sul far del giorno, un’onda lo scaraventa sul lido.

Pinocchio si comporta come Geppetto, entrambi uniti in uno stesso legame, entrambi lottano per salvare l’oggetto d’amore: un rapporto umano ben diverso dalle fantasie riparative grandiose.
Il rapporto con la figura femminile resta ambiguo, la Fata appare come bambina morta, foriera di morte, sorellina materna e salvifica, fata onnipotente, muta accusatrice: bambina morta per essere stata abbandonata dal fratellino Pinocchio. Mutevoli parvenze, speculari degli stati d’animo e delle azioni di Pinocchio. Un legame primitivo che precede nel bambino l’integrazione dei tanti aspetti di una figura materna.
Pinocchio sulla rena dice, rivolgendosi a un gentile delfino “in questo posto è possibile mangiare senza essere mangiati?”: eco di fantasmi cannibalici che vanno trasformandosi in metafora. Il burattino si trasforma progressivamente in un essere umano che ha memoria delle esperienze e incomincia a integrarle in progetto.
Chiede del babbo “a quest’ora l’avrà inghiottito il terribile Pescecane che è venuto a spargere sterminio nelle nostre acque…più grosso di un casamento di 5 piani, ha una boccaccia così larga e profonda che ci passerebbe tutto il treno della strada ferrata con la macchina accesa”.
Dopo il Serpente compare un altro essere mitico, un Leviatano descritto in termini domestici, è chiamato Pescecane forse a evocarne la ferocia.
Nella letteratura Giudaica apocrifa, l’antico mostro nella parte marina, rappresenta l’aspetto femminile del male.

Pinocchio impaurito fugge verso i Paesi delle Api Industriose. Umanizzarsi lo espone all’incontro coi fantasmi dell’inconscio. Si rifugia nell’atteggiamento denegante del burattino fannullone, rifiuta il lavoro in cambio di cibo, ma cederà alla fine quando una donna gli offre acqua dalla sua brocca e, in cambio dell’aiuto, gli darà non solo il pane che chiede ma anche un bel piatto di cavolfiore condito e un confetto.
La Fata ha assunto l’aspetto di una figura materna che nutre con un sano cibo campagnolo ma concede anche il confetto ammiccando al bambino riluttante a crescere.
È così riluttante che nonostante sia ormai un bravo scolaro, cederà alle lusinghe del compagno Lucignolo e salirà con lui sul carro che lo trasporta al Paese dei Balocchi. Vero è che la società di cui vorrebbe far parte è ben diversa dall’aspetto idilliaco promesso dalla Fata: quando affamato ha chiesto pane ha ricevuto una catinella d’acqua in testa, è stato imbrogliato, derubato, e come conseguenza condannato, per aver portato soccorso a un compagno da altri ferito in una rissa tra ragazzi è arrestato dal carabiniere.

Tuttavia l’aspetto più spaventoso della pur desiderata trasformazione in essere umano, in ragazzino che cresce, proviene dai fantasmi dell’inconscio che, pure con mentite spoglie, rappresentano l’incontro tra  i sessi, l’interno del corpo materno e lo stesso desiderio di conoscerlo e abitarlo.
La fusione con Madre Natura ne rappresenta l’idealizzata visione salvifica. L’incontro con Lucignolo, la seduttività ingannevole dell’Omino di Burro, la promessa di un tempo che non passa, di un’eterna età della gioia, è una fuga dal ciclo della nascita e della morte, della fatica, del lavoro, della responsabilità.

Ancora un crudele inganno: il Paese dei Balocchi nasconde il disegno perverso di trasformare le creature umane in animali da soma o creature da circo.

Lo spirito del Leviatano ha forse contagiato la società? Scrive Manganelli : “costui (l’Omino di Burro) per le notturne leggi del male, ha licenza di percorrere una strada infantile e rovinosa, anzi di esercitarvi un potere corruttore e di perverso educatore. Forse alle sue spalle sta un oscuro occhiuto committente”.

Cinque mesi di felice spensieratezza trascorre Pinocchio nel Paese dei Balocchi prima di trasformarsi in ciuchino, venduto al padrone di un circo  che lo presenta con un grottesco ma non casuale linguaggio maccheronico come “la stella della danza” evocativo dell’iniziale intento di Geppetto “farsi un  burattino che sappia ballare etc…”
E Pinocchio-ciuchino obbediente, balla e si esibisce ogni sera fino a che vede tra il pubblico la signora dai capelli turchini che porta al collo, appesa a una catena d’oro, il ritratto di Pinocchio. Lancia un grido, un drammatico raglio, sbaglia un salto e si azzoppa.
Inutile al circo e al lavoro, è venduto a un povero contadino che vuol fare della sua pelle un tamburo. “Gli lega un masso al collo e lo getta in mare”.
Ma la Fata non lo abbandona: manda miriadi di pesci a mangiare il rivestimento asinino fino a liberare il suo corpo di legno che il contadino sbigottito trova legato alla corda al posto del ciuchino.
Le spiegazioni di Pinocchio non placano la rabbia di sentirsi beffato, lo venderà come legna da catasta, per indennizzarsi e vendicarsi. Il legno da catasta evoca l’inizio della storia.
Pinocchio è rinato e beffardo si tuffa in mare e fugge. Nuota allegramente quando su uno scoglio bianco appare una caprettina dal manto azzurro che gli fa segno di avvicinarsi, lo incalza. Emerso dalle onde il terribile pescecane lo insegue, la caprettina gli porge la zampetta ma “il mostro tirando il fiato si beve il povero burattino come avrebbe bevuto un uovo di gallina”.

La Fata non ha poteri magici sul pescecane è soltanto una mamma che cerca di salvare il bambino che sta per perdere, una mamma sola, priva dell’aiuto del padre.
Inizia l’ultima parte della storia.
Per trasformarsi da burattino di legno in essere umano deve fare l’esperienza fetale, toccare le calde umide pareti di uno sconosciuto corpo materno che lo contenga.

Nel ventre del mostro incontra un Tonno, contrappone alla sua filosofica rassegnazione (meglio morire in mare che in scatola) il desiderio di vivere; balugina lontano una piccola luce, per raggiungerla si muove tra pozze d’acqua grassa e scivolosa, scorge su una piccola tavola una candela infilata in una bottiglia di cristallo verde, al debole chiarore appare un vecchietto canuto e debole, è Geppetto, che questa volta non è in grado di aiutare il suo figliolo.
Pinocchio non invoca la magia, scientificamente cerca, percorrendo a ritroso il cammino, la bocca dalla quale è entrato e, dopo un primo tentativo fallito, padre e figlio sgusciano nel mare aperto: un parto dove, come normalmente accade, il feto è attivo.

Forse una fantasia di nascita ove antiche inconsce tracce mnestiche inaugurano una pre rappresentazione del rapporto d’oggetto, la fioca luce della candela ha illuminato il bisogno di una figura paterna che separi dalla madre, che crei lo spazio geometrico della triangolazione e della posizione etica; fantasia evocativa di una preconcezione del padre in analogia alla Bioniana preconcezione del seno.
Il Leviatano che inghiotte Pinocchio, e ancor prima Geppetto, evoca l’aspetto persecutorio della madre fusionale e confusiva, onnipotente fantasma che contiene il padre.
La preconcezione del padre, nella funzione separante, potrebbe essere d’appoggio alla preconcezione del seno, un’iscrizione inconscia che nel corso dello sviluppo conduce al riconoscimento dell’altro e alla terzietà.
Pinocchio esce dal grande ventre, uno spazio circoscritto, e nuota nel mondo liquido e periglioso ma porta sulle spalle il padre.
Anche Geppetto esce trasformato dal ventre del Pescecane. È divenuto un artigiano di straordinaria abilità. Crea artistiche cornici, oggetto non casuale: il burattino Pinocchio, nel divenire umano, accetta il limite, anch’esso una cornice.
Il limite apre la strada alle trasformazioni: tra queste l’identificazione al padre che nell’adolescenza lascia il posto a identificazioni successive nel corso della vita.

Centro Veneto di Psicoanalisi

Padova, 18 maggio 2013

Pinocchio, un mito italiano

Commento al lavoro di Giovanna Giaconia 

Cristina Saottini 

Prima di tutto vorrei ringraziare Giovanna Giaconia: nel suo lavoro bello ed evocativo ci ha offerto l’emozione di partecipare alla costruzione di un ponte fra la nostra infanzia e la nostra attualità in un ascolto attento alle radici personali e culturali che insieme ci interroga sul presente. 

Un mito italiano

Pinocchio è un mito italiano famoso nel mondo: per questo non può morire né nella storia pubblicata da Collodi né nella storia italiana e, infatti, periodicamente ritorna.
Una studiosa di italianistica della Brown University, Suzanne Stewart Steinberg, ha scritto un libro dal titolo “Effetto Pinocchio” sul puntuale ritorno del burattino, o meglio della marionetta, in ogni occasione di crisi e cambiamento del Paese.
L’interesse per la metafora Pinocchio sembra rinascere durante i periodi di travaglio culturale e sociale del nostro Paese, travaglio che si manifesta anche nella crisi della costruzione della soggettività individuale: per usare le parole di René Kaes, si tratta di una crisi generale dei garanti metafisici, metaculturali e metapsichici che certo non riguarda solo noi e che si esprime a livello individuale e sociale.

Raffaele La Capria sosteneva, forse un po’ provocatoriamente, che Pinocchio è il personaggio più memorabile della letteratura italiana, come lo sono Madame Bovary per i francesi e Amleto per gli inglesi.
Come ogni testo mitico assunto da una cultura, Pinocchio esprime infatti qualcosa degli elementi strutturali della civiltà italiana, o meglio del “disagio della civiltà” italiana, e ci invita ogni volta a rispecchiarci nelle sue vicende.
In un’epoca di frammentazione e di perdita di garanti come quella attuale, epoca che sembra caratterizzata da processi senza soggetto, possiamo forse cercare nelle nostre radici mitico-letterarie per ritrovare un senso alla storia che ci ha costruito e che viviamo come soggetti individuali e  sociali. 

I miti collettivi costituiscono il quadro in cui si collocano e prendono senso le storie individuali. Il nostro interesse  non si limita alla sola realtà psichica del singolo atemporale, ma ci spinge a confrontarci con la sua costruzione entro appartenenze familiari, gruppali e istituzionali. Una delle sfide del pensiero psicoanalitico consiste infatti nell’esplorazione dei rapporti che intercorrono tra lo spazio psichico del soggetto e quello dei suoi legami intersoggettivi, nella famiglia e nelle istituzioni, in un crocevia di dimensioni differenziabili ma fortemente interconnesse.
La psicoanalisi, anche al di fuori del setting di trattamento, è una pratica che consente l’interpretazione di testi, come ci ha brillantemente mostrato Giaconia, che possono essere letti sia come descrizione dei conflitti dell’autore sia come espressione culturale di elementi universali della vita psichica in cui i lettori si possono riconoscere.
Proprio i riferimenti storici citati invitano a una lettura del testo come espressione sia di un immaginario universale e di una cultura storicamente determinata sia di una storia individuale – quella del suo autore – sia di un mondo interno in cui ognuno  può riconoscersi. Possiamo dire, infatti, come Flaubert per Madame Bovary, che “Pinocchio c’est nous”!
In questo senso Pinocchio è un libro che parla direttamente all’inconscio e che consente di porre l’attenzione su una concezione di inconscio non solo come deposito di esperienze infantili rimosse ma anche, in una estensione della concezione di trans generazionale, come prodotto culturale, in una tensione volta al connettersi di piani diversi.

Nato in Toscana e in un’Italia da poco unita, in un’epoca di tormento per la costruzione dell’identità nazionale, mentre le culture locali dovevano fare i conti con cambiamenti sconvolgenti nei rapporti con l’autorità e con il potere, Pinocchio è un libro sulla crisi: anche sulla crisi dei miti nella costruzione dei legami famigliari  e sociali sui quali si fonda la costruzione di sé.
Cosa di più efficace nel descrivere la crisi che parlare delle trasformazioni di un ragazzino e dell’evolversi dei suoi legami?
Fortunatamente Pinocchio è un libro con una conclusione ottimistica: dopo una grave crisi depressiva – quantomeno dell’autore – che si conclude con la morte, il protagonista risorge ed evolve.
Pinocchio ci parla della nascita di un soggetto figlio, ma anche della nascita di un padre o forse della trasformazione a ritroso di un nonno o di un “mammo” in padre. Parla della nascita di un legame possibile tra le generazioni, del rinnovamento di identità genitoriali e di un senso della responsabilità reciproca più armonioso e integrato.   

Cuore

Può essere interessante ricordare che poco lontano, più o meno negli stessi anni, veniva scritto un altro testo fondamentale per la cultura italiana, Cuore di Edmondo De Amicis: un altro libro che parla di adolescenti.
Anche se molti elementi differenziano i due testi, si tratta comunque di racconti morali che con intenti educativi descrivono il processo di formazione in età evolutiva.
Le vicende di Cuore si svolgono in Piemonte, una Regione la cui cultura è egemone nell’epoca post unitaria, con un re-padre che ambisce a diventare il padre di tutta la nazione. E’ un romanzo sulla nobiltà d’animo e sulla sintonizzazione nel legame tra padre e figlio e tra generazioni che hanno ideali comuni e condivisi in una sostanziale continuità apparentemente senza conflitto.
C’è una chiara distinzione tra i buoni, i nobili d’animo che convergono su questo progetto unitario, e gli oppositori che assumono il carattere di devianti, cattivi e ignobili. E’ esplicito lo spostamento dall’immutabile contrapposizione tra nobili e plebei verso una contrapposizione tra nobili d’animo e ignobili d’animo, contrapposizione che segnala anche la mobilità sociale richiesta dalla nascita della borghesia.
I personaggi di Cuore sono sostenuti da padri normativi e comprensivi, affiancati da madri ben impiantate nel loro ruolo. Il tormento non è intimo, il diverso è in un altrove definito, fuori dalla costruzione psichica e culturale di un soggetto che appare quasi senza ambivalenze. La proiezione è un sistema socialmente strutturato e funzionale allo sviluppo economico.
L’obiettivo dello sviluppo dell’adolescente in questa struttura è diventare come il padre e assumerne i valori, secondo un processo che riguarda le relazioni intrapsichiche e intra-famigliari entro un chiaro orizzonte culturale dove un padre forte si propone come garante per l’identità della nazione e l’incitamento all’amor di patria. Dal punto di vista delle relazioni affettive questa prospettiva non è distinguibile dall’incitamento all’amore per il padre, o meglio per l’ideale, anche a costo del sacrificio.
Altra storia è quella di Pinocchio, nato da un padre che ha il progetto di ricevere da lui compagnia e sostegno per i suoi sogni/bisogni,  che incontrerà sul suo cammino solo adulti impulsivi, voraci o privi di autocontrollo oltre che ad autorità imparruccate.
La Patria di Pinocchio, Collodi, luogo d’origine della madre dell’autore Lorenzini, ha perso i propri confini: in fondo egli è uno straniero che vede la propria cultura perdere senso e consenso dentro il mutato contesto sociale. Anche la Toscana, come gran parte dell’Italia centro-meridionale post unitaria, è terra di briganti, di gatti e di volpi dove ci si può forse sentire senza Padre e senza Patria. Anche Geppetto è più un nonno, tanto lontano dal punto di vista generazionale, bonario come i buoni tempi andati ma incapace di fornire un modello, fuori contesto rispetto a una cultura sociale disorientata e per questo avida.

Il rapporto con il padre

Che cosa ne è di un figlio che nasce senza madre, dal capriccio di due vecchi bambini, avvinghiati in una contesa ambigua?
Il desiderio da cui nasce Pinocchio non lo nomina come figlio ma lo colloca nell’area del prolungamento narcisistico del sé infantile di chi lo ha generato: un vecchietto che come un preadolescente è legato a relazioni monosessuali per cui il femminile è ancora escluso o inesplorato. Manca all’origine non solo una madre, ma anche una rappresentazione del femminile nella mente del padre. Più che figure paterne, Geppetto e Mastro Ciliegia ne sono la caricatura: padri miseri che finiscono a terra in una lotta corpo a corpo. Forse sono sotto la tutela di madre natura che offre al loro gioco un legno vivente, ma sono figli non evoluti di una natura che parrebbe più matrigna che madre perché non sostiene la crescita e produce dei vecchi bambini.

Tornano alla mente certe storie di emigrazione e certe problematiche evolutive degli adolescenti migranti. Non solo storie di ragazzi che lasciano la madre nel paese d’origine e che si trovano in una terra incomprensibile, affamati e in preda agli equivalenti del gatto e della volpe che promettono facili guadagni, ma anche storie di adulti che lasciando la madrepatria si ritrovano appesi tra culture diverse, incapaci di entrare in contatto con un femminile che sembra rappresentare il ricettacolo dell’estraneità e insieme il luogo di ogni nostalgia.
E torna alla mente la strutturazione dei legami tra genitori e figli caratterizzata da una difficoltà nel prendersi cura del figlio come altro da sé, cura soffocata dall’aspettativa di farlo uguale a sé per ritrovare un sé stesso bambino e crescerlo più evoluto ma non differenziato. Questo può dare vita a figli che poi si ritrovano a costruire il percorso di nascita soggettiva spesso in modo oppositivo.
In queste condizioni è inevitabilmente favorito il ripetersi di generazione in generazione di un trauma di estraniamento originario che non si compone in modo integrato ma che si perpetua producendo a sua volta altri traumi.
E sono queste, anche, le condizioni in cui in adolescenza il trauma è in qualche modo ricercato nella sua funzione trans-gressiva, di rottura dell’adeguamento forzato al desiderio e al progetto dei genitori. Un “bisogno” di traumatismo che si esprime nella ricerca attiva di rotture di quel guscio di aspettative che tiene imprigionati.
Mi sembra che in questo Pinocchio sia maestro.
A me pare, infatti, che Pinocchio sia avido di esperienze traumatofiliche perché è figlio di un padre che Giaconia ben definisce diverso, troppo debole, troppo bisognoso del figlio come mezzo per definire sé stesso e per questo troppo invischiante. Ci troviamo di fronte ad un confronto tra impotenti onnipotenze: quella del padre che costruisce il figlio senza accoppiamento e quella del figlio che nega il bisogno e la dipendenza. Parrebbe che si meritino l’un l’altro. 

Come nelle storie di sofferenza nell’identità migrante – e con identità migrante intendo quella che oramai ci caratterizza tutti quanti – le aspettative paterne sono tanto più invischianti quanto più sono segno di una rappresentazione di sé rigida e scissa.  Pinocchio ha in fondo tanti padri scissi: Geppetto è il padre mammo/nonno, il Grillo Parlante è il padre superegoico, Mangiafuoco il padre iperpulsionale. Mi sembrano tutti aspetti dissociate di un’identità paterna sconvolta e frammentata. Sono padri che nella loro frammentarietà hanno perso una funzione significante, nessuno di loro può promuovere una costruzione simbolica. Possiamo solo vedere una proliferazione di significanti paterni che nel corso della storia produce tante soluzioni mancate.
Se è vero che Geppetto era disposto a sacrificarsi e a morire di fame per dar da studiare al figlio, mentre Mangiafuoco voleva piuttosto sacrificarlo e mangiarselo, è pure vero che il desiderio di essere nutrito dal burattino, anche se in modo meno esplicitamente cannibalico, era stato formulato proprio da Geppetto alla sua nascita: egli vorrebbe un figlio-burattino o meglio “burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali”, con il quale girare il mondo per buscarsi “un tozzo di pane e un bicchier di vino”.
Il povero Pinocchio, frutto delle proiezioni del genitore, non considerato soggetto a sé fin dal nome – che come Geppetto è una variante di Giuseppe – nato all’insegna di un progetto di sfruttamento, un figlio che deve rendere e deve far piacere al padre, si rivelerà, come spesso succede, ben poco condiscendente ai desideri espliciti del genitore, ma potrà emanciparsene solo dopo un lungo percorso di entrambi. In partenza, infatti, pur sfuggendo in apparenza alla presa paterna, Pinocchio può solo incarnare il progetto del padre. Inevitabilmente l’ avidità del padre trova nel figlio la propria verità realizzata: entrambi in modo diverso ricercano oggetti per mettere a tacere una fame insaziabile. 

Per tornare al 1878: la fame atavica della Toscana è la rappresentazione sociale della deprivazione così come Pinocchio evoca quei bambini, di cui parla Jhon Bowlby, che hanno fame d’amore per carenza di contenimento materno. 

La madre

Il cambiamento positivo di Pinocchio da burattino a ragazzo è garantito dal rientro sulla scena di una figura materna. Il modo in cui progressivamente ricompare questa figura, come sottolinea Giaconia, è particolarmente interessante. La comparsa tardiva della madre è il rovesciamento di uno schema narrativo più consueto. Ci si aspetterebbe, infatti, una storia in cui un bambino nasce dalla madre e solo successivamente incontra un personaggio paterno. In Pinocchio la madre non è all’origine, ma viene ritrovata, risorta, a metà della storia.
La madre morta, che si manifestava narrativamente nell’assenza di cibo, di calore e di accoglimento, progressivamente riprende vita e si trasforma con un espediente narrativo piuttosto inconsueto.
È evidente, nel testo, il parallelo fra la trasformazione della madre da bambina a donna e la trasformazione di Pinocchio da burattino a uomo: “Sarebbe ora che diventassi anche io un uomo” dice subito Pinocchio a se stesso.
Sappiamo che la prima trasformazione in realtà è un’altra. Nel Paese dei balocchi, svegliandosi una mattina e grattandosi la testa, sente che gli sono spuntate due orecchie d’asino: “Gli orecchi crescevano, crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima”. 

La storia delle avventure di questo adolescente, come di ogni adolescente, è imperniata sulla trasformazione. Egli è attratto da due opposte metamorfosi, in somaro e in ragazzo. Ma cos’è una marionetta se non un oggetto di cui altri tirano i fili, privo di un desiderio proprio? E come può la marionetta divenire bambino, cioè soggetto della propria esperienza, senza prima essere passata per la scoperta del proprio corpo investito pulsionalmente?
Il ciuco rappresenta la necessaria scoperta della pulsionalità.
All’inizio non c’è un padre e non c’è un figlio, se non in apparenza. Sarà compito della storia trasformare entrambi: Pinocchio in bambino, Geppetto in padre. 

Sono due le strade possibili per trovare una risposta alla deprivazione: ricercare un oggetto che magicamente possa soddisfare il desiderio, come si vede nei tentativi avidi di Pinocchio, oppure sviluppare la capacità di entrare in relazione che comporta, tuttavia, la necessità di elaborare la colpa per la propria avidità.
Il problema quindi è se sia possibile uscire dalla dinamica dell’avidità, dalla inevitabile oscillazione fra mangiare o essere mangiati che esprimono bene tutti i mostri incontrati da Pinocchio.
L’umanizzazione del burattino avviene attraverso l’atto d’amore materno che promuove una seconda nascita.
La prova qualificante che Pinocchio, come ogni eroe, deve superare è tuttavia precedente e particolare: deve sconfiggere l’avidità. In che modo?
I mostri sono tanti: il serpente mitico è uno tra gli altri ed è interessante leggere la dinamica dell’incontro con Pinocchio che non lo uccide in combattimento perché il serpente muore dalle risate. E’ forse il riso toscano che viene messo in campo, l’umorismo italiano, come nella commedia all’italiana?
Mentre gli eroi americani, identificati con i valori della nazione, spaccano tutto e riaffermano i valori del Padre e della Patria, gli eroi italiani anche nei film di guerra sono il più delle volte comici che sopravvivono ridendo. Del resto, non dovremmo dimenticare le origini di un altro Grillo, non quello del testo di Collodi.
Pinocchio tenta anche un’altra soluzione, quella nel Paese dei balocchi, dove è possibile il godimento, ma a prezzo della libertà, della perdita di ogni dignità umana. E’ una soluzione perversa in cui si pensa di poter sopravvivere mettendosi al servizio del godimento dell’altro. Non vorrei pensare a equivalenti attuali. 

La vera soluzione sarà vincere la paura del mostro, arrivare a farsene inghiottire per poter rinascere: una rinascita dalla madre, rinascita fetale come dice Giaconia, attraverso l’entrare nella pancia del mostro senza paura.
Nuovo parto nel quale insieme al figlio è partorito il padre.
La presenza della madre attenua i pericoli della voracità e aiuta Pinocchio a sconfiggere la fame e i suoi rappresentanti avidi ma la soluzione del problema della costruzione dell’identità non sarà legata al ritrovamento di una figura materna e al senso di pienezza e abbondanza che ne può derivare.
Sarà la scoperta di una ricchezza interiore e di una fonte di valore propria non proveniente dall’esterno, la scoperta della possibilità di dare invece che di ricevere che aiuterà a crescere e a superare il passaggio adolescenziale.
Pinocchio, infatti, per salvare se stesso deve salvare il padre che trema di freddo e di paura. Lo nutre di latte, grazie alla conquistata competenza a identificarsi con una funzione materna, andando a lavorare come un ciuco e mostrando che la pulsionalità può essere messa al servizio dell’Io e nobilitata dal lavoro. Studierà la sera e i soldi che gli dovevano servire per comperare un vestito nuovo li regalerà alla Chiocciola perché  sfami la Fatina mentre è a letto malata.

Conquistare la capacità di mettersi nei panni dei genitori significa essere in grado di passare da una posizione infantile a una posizione adulta, cambiare ruolo affettivo prima ancora che sociale.
Certo qui c’è qualcosa di più che un apparente rovesciamento di ruoli in cui il figlio si fa padre e madre dei propri genitori. C’è l’aspetto attuale e sconcertante di Pinocchio che risolve a modo suo uno degli interrogativi su come si costruisca l’identità adulta nell’epoca contemporanea dove, come qualcuno dice, la funzione paterna è evaporata. Pinocchio rimette il padre al posto del padre, ristabilisce una funzione paterna non autoritaria, né risibile né perversa, una funzione legittima in accordo con la Legge.

E’ così che una mattina Pinocchio si sveglia ragazzo. Corpo pulsionale e corpo simbolizzato si riuniscono. Pinocchio ritrova contemporaneamente un padre in salute e un borsellino pieno di zecchini d’oro, regalo della Fata che, moltiplicando le monete che Pinocchio le aveva donato, è riuscita nel miracolo dell’abbondanza: a essere moltiplicati sono i talenti donati, non il denaro affidato alla voracità del gatto e della volpe.
Non è passando da bambino deprivato a bambino soddisfatto che si cresce e si risolve la questione dell’assunzione di un ruolo adulto. Il problema è identificatorio e passa per la capacità di fare i conti con la figura del padre, con il suo modo di affrontare la vita e con i suoi ideali.
Lo sviluppo della storia è una sorta di processo psicoterapeutico nel succedersi delle diverse prove che il burattino deve affrontare per restaurare le immagini dei genitori resuscitando una madre morta e facendo rinascere un padre malato.

Per tutti gli adolescenti sono le immagini dei genitori, più ancora che i genitori reali, a richiedere questa azione riparativa grazie alla quale nel momento in cui ci si separa si è pronti a ritrovare dentro di sé una funzione genitoriale positiva. Se ciò non avviene, la separazione produce bambini sperduti e disorientati che l’appartenenza al gruppo dei compagni non è sufficiente a far crescere.

L’eredità ideale dei genitori è il patrimonio che consente a Pinocchio di sentirsi ricco a sufficienza per poter affrontare la vita non come un burattino ma come un uomo e per conciliare la curiosità con il sapere. 

La bugia

Vorrei concludere con un accenno alla questione della bugia. Nei  lettori di Pinocchio l’immagine che più resta nella mente è quella del naso che si allunga in proporzione alle bugie.  Ho trovato un appunto di Collodi, in Note gaie, che afferma come «per nascondere la verità di una faccia speculum animae…si aggiunge al naso vero un altro naso di cartapesta».
Vorrei lasciar parlare una giovane paziente marocchina che ho seguito perché aveva commesso dei reati e che molto mi ha ricordato Pinocchio:
“Non mi piacciono certe cose: raccontare bugie. Si raccontano bugie sempre. Bugie per poter fare quello che è formalmente impedito, per uscire con gli amici per esempio. Le bugie sono un modo di essere femminile. Io lo sento così forte che anche quando potrei non dirle le dico, come in automatico. Però lo sento anche così estraneo che costruisco castelli di bugie, che mi ingombrano lo stomaco e che crollano sotto la mia rabbia di un momento. Tutte queste bugie sono un peso difficile da tenere, confondono e poi resta sempre quel senso di estraneità in famiglia… Mia sorella piccola, lei tace ma non mente, ma in questo modo non domanda e non fa esperienza, resta lì come assopita. Ma accidenti che storie, in Marocco mi sentivo da meno delle altre ragazze, con loro ero a disagio perché per loro mentire era come una cosa naturale, pulita. Loro mentono senza senso di colpa mentre io mentivo e stavo male. Il rapporto con mia sorella per me è fondamentale, non lo sento come solo un rapporto fraterno. Lei è in un certo senso un modello per me, il suo silenzio mi turba, ma lo rispetto, anche se poi nelle cose pratiche sono poi io a doverla proteggere.”
Nel corso della psicoterapia questa ragazza è divenuta consapevole della sua tortuosa e faticosa marcia per trovare se stessa emancipandosi dalla servitù delle aspettative narcisistiche e dolorosamente nostalgiche che i genitori hanno su di lei, per vivere da adulta in questo mondo strano, pieno di personaggi difficili da comprendere e tanto diversi dai depositi che le generazioni hanno lasciato dentro di lei. 

E torniamo così da dove la relazione di Giaconia ci ha permesso di partire,  torniamo al bisogno di ricercare connessioni, ponti fra l’infanzia e la nostra realtà attuale. Torniamo al bisogno di un ascolto attento alle radici personali e culturali che ci aiuti a interrogarci sul presente.

Centro Veneto di Psicoanalisi

Padova, 18 maggio 2013

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