La Ricerca

Bezoari M. (2014). Intervista sulla ricerca concettuale in psicoanalisi

17/02/15

Michele Bezoari, psichiatra e psicoanalista, vive e lavora a Pavia.

E’ autore di vari studi sulla metodologia clinicae sull’epistemologia della psicoanalisi.

Ha curato, insieme a F.Palombi, un volume del Centro Milanese di Psicoanalisi (Epistemologia e psicoanalisi: attualità di un confronto, 2003), dove è presente un suo testo “Freud e l’ornitorinco. Pensieri sulla specificità della psicoanalisi come scienza e terapia“. Pp. 29-46).

Su temi analoghi è anche autore di un articolo pubblicato in un volume monografico della Rivista di Psicoanalisi (2006) “Contributo alla riflessione su dialogo scientifico e ricerca in psicoanalisi” e dell’articolo “Che cosa si prova a essere un cervello? La questione della specificità nel rapporto tra psicoanalisi e neuroscienze” (Riv.Psicoanalisi 2007, 53:707-715).

     

Intervista a cura di M.Ponsi

 

1 – Prima di inoltrarci nel tema specifico di questa intervista, la ricerca concettuale, vorrei invitarti a illustrare il tuo punto di vista riguardo allo statuto epistemologico della psicoanalisi, anche alla luce di ciò che ti è parso significativo nel dibattito su questo tema nei dieci anni trascorsi dal tuo testo del 2003 (“Freud e l’ornitorinco. Pensieri sulla specificità della psicoanalisi come scienza e terapia”).

 

In questa decina d’anni il mio punto di vista non è sostanzialmente mutato.

In estrema sintesi, considero tuttora epistemologicamente valido e meritevole di essere praticamente sviluppato il progetto freudiano di fondazione della “psicoanalisi come scienza empirica” (Freud, 1922).

“Empirica” non significa necessariamente anche “sperimentale”. Sembra superfluo rimarcare la differenza tra i due termini, ma essa viene un po’ lasciata in ombra nelle argomentazioni con cui talvolta, anche all’interno della comunità analitica, si attribuisce a Freud un palese disinteresse per la “verifica empirica” delle sue teorie.

Da una attenta lettura dei testi freudiani emerge invece chiaramente che le conferme a cui egli non dà grande valore, pur non disprezzandole, sono quelle derivate da studi “sperimentali”. Non l’esperimento, bensì l’osservazione dell’esperienza clinica è infatti per lui la base su cui poggia la validità delle teorie psicoanalitiche.

Una certa tendenza ad assimilare i due termini mi sembra sintomatica di una visione della scientificità secondo un modello unitario, di stampo neopositivistico, che idealizza la forma standardizzata e impersonale dell’esperimento come unica fonte attendibile di dati “oggettivi”,  a cui ogni scienza che voglia essere tale dovrebbe cercare di adeguarsi.

I presupposti filosofici di questa posizione sono stati ampiamente confutati, almeno dalla seconda metà del secolo scorso in poi, e l’odierno pensiero epistemologico è piuttosto orientato a riconoscere la specificità dei metodi e degli oggetti di ogni disciplina scientifica, in un’ottica pluralistica che supera anche la dicotomia tra scienze naturali e scienze umane.

Mi sembra, però, che nel dibattito sulla scientificità della psicoanalisi l’idea unitaria di scienza abbia ancor oggi molti fautori, sia tra i critici esterni  sia tra gli stessi analisti. Spesso questa idea è semplicemente data per scontata, senza neppure bisogno di argomentarla. Una tale concezione monolitica del campo scientifico viene usata sia da chi sostiene la necessità per la psicoanalisi di farne parte accettandone le regole sia da chi pensa che l’identità della psicoanalisi vada preservata restandone fuori.

Si tratta di una questione di fondo che, se non affrontata, riemerge tra le righe dei discorsi in materia che circolano tra gli addetti ai lavori, arrivando talvolta anche a un pubblico più vasto.

Prenderei come esempio recente e italiano il noto “manifesto in difesa della psicoanalisi” comparso su Repubblica un paio di anni fa (firmato dal nostro Stefano Bolognini insieme a S. Argentieri, A. Di Ciaccia, L. Zoia). Contestando la presunta esclusività della psichiatria biologica e della neuropsicologia come fonte di conoscenza scientifica della mente umana e rimarcando l’odierna polifonia epistemologica, gli autori scrivevano che “la psicoanalisi è una scienza a statuto speciale”. Pur nella brevità richiesta da un articolo di giornale, il contesto chiariva abbastanza bene il senso di questa espressione, riferita alla specificità che caratterizza la psicoanalisi  in quanto si occupa di peculiari aspetti della vita psichica, a cominciare dalla dimensione inconscia quale si riscontra nel setting della cura analitica.

Ma qualche lettore meno attento e, soprattutto, alcuni critici un po’ prevenuti hanno frainteso l’espressione, facendo leva su un’impropria analogia con l’ordinamento legislativo delle nostre regioni, come se la psicoanalisi rivendicasse per sé un’eccezione, un privilegio che le consentirebbe di sottrarsi agli obblighi delle altre, comuni scienze “a statuto ordinario”: primo fra i quali dimostrare la validità delle sue teorie e l’efficacia della sua pratica clinica con i metodi empirici universalmente accreditati.

Poco importa suggerire, col senno di poi, che parlare più chiaramente della “specificità” come attributo costitutivo di ogni scienza – e quindi anche della psicoanalisi – avrebbe forse evitato qualche fraintendimento. Se ci interessa  sviluppare il dialogo e capirci meglio è, anzi, proprio dai fraintendimenti che si può ripartire per un più chiaro confronto delle proprie e delle altrui posizioni.

Il caso appena citato può offrire, mi sembra, l’occasione di distinguere meglio qualcosa che spesso nel dibattito viene un po’ confuso. Ad esempio: i metodi idonei a convalidare o falsificare una teoria non sono necessariamente gli stessi con cui si valuta l’efficacia delle cure che a quella teoria si ispirano.

Con l’argomento della specificità si giustifica la prerogativa della psicoanalisi – come di ogni scienza – di cimentare le proprie ipotesi teoriche con i fatti osservabili nel proprio campo di esperienza, e non con altri. Ciò non esclude che la psicoanalisi, in quanto disciplina clinica oltre che scientifica, possa accettare – come del resto già avviene – che la propria efficacia terapeutica sia verificata nel confronto con altri tipi di cura, utilizzando metodi e criteri non specifici (purché rispettosi di un minimo denominatore etico e culturale condivisibile con altre forme di psicoterapia). Ma sarebbe un grossolano errore epistemologico attribuire a tali prove di efficacia comparata il valore di convalida o smentita delle specifiche teorie sottese a ogni tipo di cura. La storia della medicina ci insegna che anche ipotesi teoriche rivelatesi poi erronee (come quella sui miasmi come responsabili delle malattie infettive) possono ispirare provvedimenti terapeutici e preventivi di una certa utilità. Altrettanto infondato sarebbe omologare sul piano teorico trattamenti che, valutati secondo alcuni parametri, mostrano esiti sovrapponibili.

Di qui nascono le mie perplessità sul valore di formulazioni generali che aspirano a una metateoria dei fattori terapeutici operanti nelle varie discipline cliniche della mente, prescindendo dalla loro specificità metodologica. Ogni osservazione – come sappiamo – è inevitabilmente già carica di teoria, e i fatti clinici non fanno certo eccezione… Tornerò più avanti su questo punto, perché mi sembra che la ricerca concettuale lo faccia emergere con molta evidenza.

  

2 – Sebbene il pensiero psicoanalitico abbia sempre prestato molta attenzione alle implicazioni nella teoria e nella tecnica dei concetti di cui faceva uso, è solo da pochi decenni che alla riflessione su questi temi si è aggiunta la cosiddetta ‘ricerca concettuale’. Attraverso quali percorsi si è arrivati a tuo parere a individuare e a definire questa nuova, specifica, area di ricerca?

 

La riflessione sull’origine, sugli usi e sulle variazioni di significato dei concetti ha sempre avuto un posto centrale nell’elaborazione del pensiero psicoanalitico. In genere si trattava di contributi di singoli autori, talvolta riuniti in forma di panel tematici.

Di vera e propria ricerca si è cominciato a parlare quando gruppi di analisti si sono organizzati per condurre studi sistematici su alcuni concetti, attuando metodologie ad hoc.

Il prototipo di questi studi fu il progetto noto come “Indice Psicoanalitico Hampstead”, avviato a metà degli anni ’50 del secolo scorso presso la Hampstead Clinic di Londra (oggi Anna Freud Centre), che ebbe in Joseph Sandler il principale coordinatore. Lo scopo era quello di “indicizzare” il materiale clinico raccolto dai diversi analisti, utilizzando a tal fine le “voci” concettuali più adatte per raggruppare e rendere confrontabili le esperienze cliniche personali, così da poter elaborare ipotesi di portata più generale, al di là del caso singolo.

E’ interessante notare come questo compito, pur riguardando un gruppo di analisti abbastanza ristretto e omogeneo per impostazione teorica e tecnica (il trattamento dei bambini secondo le linee indicate da Anna Freud), si rivelò subito molto più complesso del previsto. L’accordo tra i diversi terapeuti sui concetti a cui ricondurre determinati fenomeni clinici era tutt’altro che scontato e si resero necessarie impegnative discussioni di gruppo e successive redazioni di “manuali d’uso”, in continuo aggiornamento, per cercare di rendere uniformi i criteri di indicizzazione. Strada facendo emerse anche, a più riprese, l’esigenza di ridefinire il significato di alcuni concetti rispetto a quanto stabilito in partenza.

Dagli anni ’60 in poi J.Sandler e altri autori diedero conto in diversi scritti delle notevoli ricadute teoriche di questo lavoro, in forma di profonde revisioni di alcuni concetti classici della psicoanalisi nel sistematico confronto con nuove e dettagliate esperienze cliniche.

Un importante articolo dello stesso Sandler pubblicato sull’International Journal (Reflections on Some Relations Between Psychoanalytic Concepts and Psychoanalytic Practice, 1983) introduce alcune considerazioni generali che avranno una notevole influenza nei successivi sviluppi della ricerca concettuale. Vi sono enunciati, ad esempio, i principi di “elasticità” e di “spazio semantico” dei concetti, dove coesistono varie “dimensioni di significato”. E’ inoltre valorizzata l’esistenza di teorie “private e implicite” che, nell’analista al lavoro, si differenziano da quelle ufficiali generando una dialettica che, una volta riconosciuta e discussa, può portare a cambiamenti significativi nelle teorie pubblicamente condivise.

Negli anni precedenti la fondamentale messa a punto di A.U. Dreher, che di Sandler fu a lungo collaboratrice, è degno di nota un numero speciale dell’International Journal dedicato alla “concettualizzazione e comunicazione dei fatti clinici in psicoanalisi” (1994).

Pur non trattando esplicitamente di ricerca concettuale, i contributi di quel volume ebbero l’effetto di richiamare l’attenzione della comunità analitica sui problemi metodologici sottesi alla formulazione dell’esperienza clinica in termini confrontabili e collegabili alle ipotesi teoriche. Un impegno in questa direzione è necessario e implica una revisione autocritica dei modi con cui abitualmente gli analisti riferiscono i fatti clinici a sostegno delle loro idee.

 

3 – Nel suo volume uscito nel 2000 (Foundations for Conceptual Research in Psychoanalysis, Karnac, 2000), e poi in una serie di articoli usciti successivamente, A.U.Dreher ha fatto un esame molto accurato e a vasto raggio dei presupposti, delle caratteristiche e delle finalità della ricerca concettuale. Quali sono a tuo parere i pregi, e eventualmente quali i limiti, della sua trattazione?

         N.B. Di A.U.Dreher cfr., su questo sito, bìbibliografia e testo della relazione What is conceptual research?

 

Un comitato per la ricerca concettuale è sorto nell’IPA in tempi recenti (2001) accanto a quello per la ricerca empirica, anche come reazione al predominio politico-culturale di quest’ultima, che dai suoi più ferventi sostenitori era considerata l’unica forma di ricerca scientifica su cui la psicoanalisi doveva investire (anche finanziariamente).

Merito della Dreher, a cominciare dal suo libro pubblicato nel 2000, è di non essersi lasciata molto influenzare dal clima polemico delle diatribe istituzionali e di avere evitato sul nascere  il rischio di una contrapposizione tra ricerca concettuale e ricerca empirica.

Un certo antagonismo filosofico si pone, piuttosto, nei confronti dell’empirismo neopositivista, così come del razionalismo popperiano. I riferimenti epistemologici da cui la ricerca concettuale, secondo la Dreher, trae la propria ispirazione sono individuati in autori come Kuhn, Feyerabend e il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, in una prospettiva neokantiana che valorizza la funzione costruttiva del linguaggio nel dare forma all’esperienza della realtà.

L’impostazione generale del suo discorso è, invece, orientata a mostrare la necessaria interdipendenza tra ricerca concettuale e ricerca empirica, nel senso più ampio del termine. I concetti psicoanalitici sarebbero vuote astrazioni se non fossero radicati nella peculiare esperienza della situazione analitica, con le sue invarianti tecniche che, a loro volta, presuppongono una teoria della cura e del funzionamento psichico.

Il ruolo di “mediatore” tra teoria ed esperienza è proprio quello che caratterizza, secondo la Dreher, l’uso del concetto, la cui finalità è rendere confrontabili le osservazioni compiute da soggetti diversi, nell’ipotesi che a concetti simili corrispondano fenomeni simili.

Fermo restando quel grado di elasticità accettabile e potenzialmente fecondo, di cui già parlava Sandler, un’eccessiva variabilità nell’uso dei concetti rischia di vanificare la reciproca comprensione e il confronto scientifico, quale che sia il tipo di fatti empirici a cui ci si riferisce.

Nell’attuale pluralismo psicoanalitico, con proliferazione di linguaggi idiosincratici tra autori e indirizzi diversi, la ricerca concettuale si proponeva inizialmente di andare oltre la ricognizione degli usi molteplici di un concetto per indicare la strada verso un’auspicabile, maggiore uniformità. Ma successivamente questa aspirazione a tenere insieme le diverse culture analitiche in una prospettiva unitaria si è rivelata, per la stessa Dreher (vedi la conferenza del 2005 su SpiWeb), un “tentativo disperato”, un “wishful thinking”.

Quello che poteva essere un limite, cioè l’intento pedagogico e il tono un po’ prescrittivo insiti nell’impostazione unitaria, ha quindi lasciato il posto a un più realistico progetto di facilitazione del dialogo tra culture diverse, con reciproco chiarimento delle idee e dei linguaggi usati per esprimerle.

 

4 – Si possono individuare sommariamente tre aree in cui la ricerca concettuale può produrre effetti pregevoli:  1) l’area dell’elaborazione dell’apparato  teorico e tecnico della psicoanalisi: la chiarificazione e la messa a punto del significati dei concetti può ridurre la pluralità e variabilità dei significati ad essi attribuiti e conferire alla nostra disciplina una maggiore unitarietà e coerenza;  2) l’area della ricerca empirica sugli esiti e i processi dei trattamenti psicoanalitici: la ricerca concettuale può collaborare alla progettazione e alla realizzazione degli studi empirici al fine di aumentare il grado di consenso sul significato dei concetti utilizzati;  3) l’area della vita istituzionale della comunità psicoanalitica: la pratica del confronto sui concetti, richiedendo a ognuno di decentrarsi rispetto ai propri presupposti, può favorire un clima di rispetto, convivenza e eventualmente di integrazione fra i vari filoni teorico-tecnici presenti nella comunità psicoanalitica.

A quale di queste aree ritieni che la ricerca concettuale abbia portato, o possa portare, un contributo significativo?

 

Hai ben delineato quelli che, anche secondo me, sono gli ambiti nei quali la pratica della ricerca concettuale può avere maggiore utilità, a prescindere dagli specifici risultati di ogni singolo progetto.

Ricollegandomi a quanto detto appena sopra credo che una maggior cura nell’uso dei concetti possa dar luogo, se non ad una maggiore unitarietà, ad una maggior chiarezza, coerenza e confrontabilità delle posizioni teorico-clinche presenti nell’attuale panorama psicoanalitico.

Quanto alla ricerca empirica, da una adeguata elaborazione concettuale dei progetti e delle variabili indagate dipende la rilevanza dei suoi esiti per la teoria e la tecnica psicoanalitica. Senza un discreto consenso sui concetti impiegati, la stessa pertinenza psicoanalitica dei dati empirici rischia di venire messa in dubbio, quali che siano l’accuratezza e il rigore procedurale con cui sono ottenuti.

L’ultimo effetto che hai menzionato nella tua domanda mi sembra particolarmente significativo, anche  perché può creare il terreno propizio al conseguimento degli altri scopi. Assumere una posizione decentrata rispetto all’uso quotidiano dei concetti quali elementi di un lessico familiare, acquisito negli anni della formazione e consolidato nei gruppi di appartenenza, costituisce un salutare esercizio, allorché ci si trova a osservare i diversi significati attribuiti ad un medesimo concetto nelle diverse tradizioni locali. Può così essere favorito nella comunità analitica lo sviluppo di una mentalità scientifica nel senso più laico del termine, quale attitudine al confronto critico tra pari, che cerca di andare oltre il carisma degli autori di riferimento e oltre i legami transgenerazionali spesso veicolo di presupposti mai esplicitati.

Si potrebbe aggiungere, come quarto punto, l’utilità della ricerca concettuale per favorire scambi non confusivi tra la psicoanalisi e le altre discipline, nel rispetto delle reciproche specificità metodologiche e, quindi, anche degli oggetti indagati, al di là di più o meno suggestive omonimie. Un esempio per tutti: l’inconscio di cui si occupano le neuroscienze non è certo equiparabile all’inconscio psicoanalitico.

 

 

5 – Ci sono stati in questi anni degli studi rubricabili come ‘ricerca concettuale’ i cui risultati o i cui strumenti metodologici ritieni significativi rispetto alle finalità sopra esposte?

 

Lo studio pilota, che costituisce il primo esempio sistematico di ricerca concettuale secondo i criteri sopra enunciati, è il “Progetto Trauma”, realizzato negli anni ’80 all’Istituto Sigmund Freud di Francoforte, i cui risultati si trovano sintetizzati in un articolo comparso sulla International Review of Psycho-Analysis nel 1991 (J. Sandler, A.U. Dreher e S. Drews, An approach to conceptual research in psychoanalysis illustrated by a consideration of psychic trauma).

In quello studio fu messa in luce la notevole varietà di significati espliciti e impliciti del concetto di trauma, spesso usato in modo tale da non distinguere ciò che si riferisce a un evento, a un’esperienza o alle conseguenze a lungo termine di un’esperienza. Vennero anche formulati alcuni auspici per un uso più chiaro e specifico del concetto: auspici le cui conseguenze pratiche nella successiva letteratura sul tema non appaiono facilmente evidenziabili.

Tralasciando i contributi di singoli autori interessati a studiare questo o quel concetto, per trovare un più recente esempio di ricerca concettuale portata a termine da un gruppo di analisti con una metodologia ad hoc e pubblicata su una rivista internazionale bisogna arrivare al 2013, allorché sull’International Journal of Psychoanalysis (vol. 94, n. 3, 501-530) esce un articolo intitolato Toward a better use of psychoanalytic concepts: a model illustrated using the concept of enactment. Ne sono autori W. Bohleber e altri cinque colleghi di varie nazionalità e orientamenti teorici (P. Fonagy, J.P. Jiménez, D. Scarfone, S. Varvin e S. Zysman), membri della nuova commissione dell’IPA per la “Integrazione Concettuale”.

Il metodo utilizzato si ispira alle fondamentali impostazioni di Sandler già riprese e sviluppate dalla Dreher.

Pur occupandosi di un concetto relativamente “giovane” come quello di enactment e limitando l’esame della letteratura a un numero ristretto di lavori, scelti per focalizzare soprattutto l’area anglo-americana, gli autori si imbattono in una varietà di significati e di usi del concetto tali da rendere impossibile ogni integrazione unitaria e da scoraggiare ogni velleità prescrittiva.

 

     Potrei dunque osservare, sulla base delle tue ultime considerazioni, che nel caso del concetto di enactment il lavoro di ricerca ha prodotto un risultato che non va molto al di là di un’accurata documentazione dei molti significati di un concetto.

     E’ anche interessante notare come sulla nozione di enactment si siano verificati quegli “scambi confusivi” di cui parlavi poco sopra tra la psicoanalisi e le neuroscienze che la ricerca concettuale dovrebbe contribuire a limitare (cfr., su questo sito, la relazione di A.Schore e il mio commento).

6 – In generale, come valuti l’accoglienza che la ricerca concettuale ha ricevuto nella comunità psicoanalitica, in particolare in quella italiana?

 

Se sono stati rari, come abbiamo appena visto, i progetti di ricerca organizzati, credo che la ricerca concettuale abbia trovato nella comunità analitica un’accoglienza migliore di quanto lascerebbero pensare questi numeri esigui.

Ciò che è stato più diffusamente recepito come stimolo culturale è l’esigenza di una maggior cura dei nostri concetti quali strumenti di lavoro essenziali per la comunicazione, sia dei fatti clinici sia delle ipotesi teoriche. Tale cura diventa ancor più necessaria allorché si prende atto dell’irriducibile pluralismo odierno, nel quale, se vogliamo evitare la deriva dell’incommensurabilità tra le varie posizioni, siamo chiamati a mantenere vivo un dialogo scientifico adeguato agli sviluppi della nostra disciplina.

In un lavoro pubblicato sull’International Journal del 2006 (vol. 87, n. 5, pp. 1355-1386) M. Leuzinger-Bohleber e T. Fischmann, in collaborazione con la già citata commissione dell’IPA, rilanciano l’utilità della ricerca concettuale nelle sue varie declinazioni possibili, secondo una prospettiva molto ampia che include anche contributi individuali di autori interessati ad approfondire questo filone. Come esempi di queste attività di studio anche non formalizzate ma comunque riconducibili al movimento di ricerca concettuale vengono citati alcuni articoli rintracciabili in due annate consecutive dell’ International Journal (2002-3).

Per ciò che riguarda in particolare la comunità analitica italiana, la testimonianza più tangibile dell’interesse suscitato dalla ricerca concettuale è l’esperienza – che tu conosci bene quanto me avendovi preso parte – del Comitato nazionale per la ricerca istituito nella SPI durante l’Esecutivo Chianese, che lavorò dal 2002 al 2004 con il coordinamento di Adamo Vergine. Essendo quell’esperienza documentata in una monografia della Rivista di Psicoanalisi (Il dialogo scientifico sull’osservazione e sull’esperienza psicoanalitica, 2006), da cui è tratto il mio contributo accessibile in questa sezione di SpiWeb, ne farò qui solo un breve cenno.

La riflessione e la ricerca sull’uso dei nostri concetti, com’era promossa in quegli anni da U. Dreher (che tenne anche in Italia alcuni seminari), si rivelò molto funzionale per favorire il confronto scientifico in un gruppo di lavoro composto da una dozzina di colleghi di diverso orientamento psicoanalitico, scelti proprio affinché il gruppo fosse, per così dire, un campione rappresentativo del pluralismo presente nella comunità più allargata, almeno quella italiana.

Poiché la ricerca concettuale non corrisponde a una procedura unica e standardizzata ma si propone come campo aperto a vari strumenti di indagine, in quell’occasione si verificò una spontanea e feconda convergenza tra metodi di ricerca psicoanalitica che spesso vengono artificiosamente contrapposti: metodi narrativi, storico-ricostruttivi e metodi empirici, clinici ed extra-clinici, qualitativi e quantitativi.

 

 

7 – Puoi entrare nel merito di qualche tema – clinico o teorico – su cui varrebbe la pena elaborare un progetto di ricerca concettuale?

 

Risponderò accennando ad un progetto che, insieme ad altri cinque colleghi (Vanna Berlincioni, Maurizio Collovà, Fulvio Mazzacane, Fabrizio Pavone e Luca Trabucco) , stiamo cercando di realizzare presso il Centro Psicoanalitico di Pavia.

Il gruppo ha cominciato a riunirsi un paio d’anni fa, condividendo l’interesse per la ricerca concettuale di cui si sono studiati e discussi gli sviluppi, dalle origini ai giorni nostri.

Si è quindi deciso di passare dalla teoria alla pratica scegliendo di lavorare sul controtransfert, che tra i concetti fondamentali della psicoanalisi è anche uno di quelli usati in modo più variabile, col maggior rischio di fraintendimenti.

Ciascuno di noi ha sintetizzato per iscritto le proprie idee sulla definizione teorica e sull’uso clinico del CT, potendo così subito constatare che anche in un piccolo gruppo con discrete affinità culturali e formative si delineavano posizioni piuttosto variegate, sia per ciò che veniva sottolineato che per ciò che era omesso, magari perché implicito.

Abbiamo quindi proseguito con una ricognizione dei contributi classici sul CT (fino agli anni 70) e delle voci CT sui principali dizionari psicoanalitici.

Dalla sistematica discussione in gruppo sono via via emersi alcuni punti cardinali rispetto ai quali i vari autori maggiormente convergono o divergono. Abbiamo così abbozzato uno strumento di lavoro utile per il prosieguo della ricerca, cioè una sorta di griglia dove sono schematicamente rappresentate le principali dimensioni dello spazio semantico (Sandler) del concetto di CT.

Stiamo ora applicando la griglia  di lettura su alcuni articoli rappresentativi di aree geo-culturali della psicoanalisi contemporanea. Di ogni testo vengono rilevate sia le affermazioni esplicite sia quelle implicate nell’uso discorsivo del concetto.
Strada facendo matura nel gruppo un progressivo affiatamento sia nel metodo di lettura dei testi sia nella discussione sui primi risultati del lavoro comune, in un clima di confronto critico permanente tra i nostri stessi punti di vista.

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Note bibliografiche

Freud  S. (1922) Due voci di enciclopedia: “Psicoanalisi” e “Teoria della libido”, OSF, 9.

Sandler J. (1983) Reflections on some relations between psychoanalytic concepts and psychoanalytic practice. Int. J. Psychoanal. 64: 35-45.

Sandler J., Dreher A.U., Drews S. (1991) An approach to conceptual research in psychoanalysis illustrated by a consideration of psychic trauma. Int. Rev. Psychoanal. 18: 133-141.

Bohleber W., Fonagy P., Jiménez J.P., Scarfone D., Varvin S., Zysman S. (2013) Toward a better use of psychoanalytic concepts: A model illustrated using the concept of enactment. Int. J. Psychoanal. 94: 501-530.

Leuzing-Bohleber M., Fischmann T. (2006) What is conceptual research in psychoanalysis? Int. J. Psychoanal. 87: 1355-1386.

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