La Ricerca

Ricerca Empirica in Psicoterapia. Intervista a Emilio Fava, a cura di G. Mattana

7/09/17
Ricerca Empirica in Psicoterapia. Intervista a Emilio Fava, a cura di G. Mattana

Settembre 2017

Intervista al prof. Emilio Fava sulla ricerca empirica in psicoterapia

(a cura di Giorgio Mattana)

 

Emilio Domenico Fava, psichiatra e psicoterapeuta, è professore a contratto di Psicopatologia e programmazione dei trattamenti presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Precedentemente ha insegnato Psichiatria e Psicoterapia presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano. Ha diretto la Clinica Psichiatrica Universitaria-S.C. Psichiatria 4 dell’A.O. Niguarda. Tra i fondatori della sezione italiana dell’SPR (Society for Psychoterapy Research), è stato direttore scientifico della rivista Ricerca in Psicoterapia e coeditor di Research in Psychotherapy. Ha costituito l’associazione-gruppo Zoe per lo studio e la formazione sulla qualità delle cure psichiche. Ha curato e validato la traduzione italiana di Arbeitskreis OPD Operationalisierte Psychodynamische Diagnostik OPD-2. Das Manual für Diagnostik und Therapieplanung von Arbeitskreis OPD, von Huber, Bern 2006.

Tra i suoi libri in questo campo: Efficacia delle Psicoterapie nel Servizio Pubblico (2002), Alleanza di lavoro tra utenti e operatori (2012) con Paola Dallanegra, La competenza a curare (2016) con Gruppo Zoe. Tra gli autori di: La Ricerca in Psicoterapia (2006) a cura di N. Dazzi, V. Lingiardi e Colli, Metodologia della riabilitazione psico-sociale (1994) e Strumenti e metodi della riabilitazione psico-sociale (2004) a cura di G. Ba.

 

M – A patto di averla intesa correttamente, mi sento molto in sintonia con la tua idea di «perturbante cognitivo» riferita alla ricerca empirica in psicoterapia e in particolare psicoanalisi, che mi sembra la premessa ideale di questa intervista: uno stimolo alla riflessione, all’approfondimento e all’autocritica, proveniente da un vertice diverso da quello clinico, rispetto a esso complementare, non positivisticamente assolutizzato, ma a sua volta rivedibile e relativizzabile. Nel quadro di questa impostazione epistemologica di fondo, che implica l’obiettivo di avviare una «dialettica virtuosa» fra ricerca e clinica, con reciproco vantaggio di entrambe, quali sono a tuo avviso i risultati più fecondamente «perturbanti» della ricerca empirica sull’esito, l’efficacia, il processo e i fattori terapeutici, nella speranza che essi siano anche i più sicuri, meglio controllati e affidabili?

 

F – La possibilità di fare ricerca in questo campo è stata oggetto di forti controversie tra coloro (molti) che pensano che queste procedure non siano adatte al particolare oggetto di cui si occupa la psicoanalisi (e le psicoterapie derivate dalla psicoanalisi) e altri che invece pensano, come Kernberg (2002) che: «o la psicoanalisi saprà cimentarsi positivamente con le richieste di scientificità che le sono rivolte assicurandosi un futuro come teoria scientifica e metodo di cura oppure, in alternativa, sarà ricordata come un contributo culturale e filosofico del XX secolo». Oppure che «in assenza di un sostegno alle proprie asserzioni basato su osservazioni controllate e ipotesi verificabili la psicoanalisi si depriva dal poter costituire quel gioco reciproco di dati e teorie che ha contribuito in modo così determinante allo sviluppo della scienza» (Kächele et al., 2000), «i dati non sono il plurale di aneddoti» (ibidem). Tra i sostenitori della necessità di procedere in modo empirico troviamo anche Bowlby, le cui posizioni furono commentate da Winnicott (1953) in questo modo: «Secondo lui (Bowlby) ci si deve sforzare di presentare gli argomenti psicologici in forma statistica perché chi è abituato alle pubblicazioni scientifiche possa apprezzare le affermazioni di chi di noi ha una mentalità clinica, tuttavia le statistiche … non hanno alcun valore se non sono basate su dati indiscutibili e in effetti questi dati sono i più difficili da raccogliere nella nostra professione». In questo contesto è interessante riprendere l’intervento di Nagel del 1958 che, nel contesto di un famoso convegno su «Psicoanalisi e metodo scientifico», sostenne che il fatto che i fenomeni di cui si occupa la psicoanalisi non siano direttamente osservabili non fosse di pregiudizio all’applicazione del modello scientifico – chi ha mai visto un elettrone? – a condizione che fosse possibile individuare indicatori corrispondenti a ciò che non è direttamente osservabile e a patto che si stabilissero norme di correlazione costanti e condivise tra indicatori e i concetti teorici a cui si riferiscono. Questo – l’individuazione di osservabili correlati ai concetti – sarà alla base dei processi di operazionalizzazione su cui si fonda la ricerca empirica.

Il discorso si potrebbe ampliare molto ma mi fermerei qui. Il mio punto di vista è che in realtà gli argomenti portati dai sostenitori dell’una e dell’altra posizione sono forti, sensati e condivisibili. Tuttavia portano a un bivio ineludibile: possiamo decidere di ignorare la ricerca con i suoi metodi e i suoi dati oppure confrontarci con essi. Se optiamo per la seconda possibilità si pone però un fondamentale problema epistemologico a posteriori e cioè: come interpretare e usare nella pratica clinica i dati che provengono dalla ricerca.

Infatti, i metodi della ricerca scientifica, se ben conosciuti e utilizzati, non portano a conclusioni definitive, intrinsecamente dogmatiche, ma a continue aperture e domande che lasciano spazio a nuove più «strutturate» e finalizzate intuizioni.

Mi riesce difficile, infatti, capire come un ricercatore esperto possa confondere il termine (o il concetto) «verità» con quello di «probabilità» e come possa pensare che un dato derivato da una media statistica, possa applicarsi automaticamente ad un singolo caso. O che una singola variabile, estrapolata da un contesto complesso, possa essere considerata, al momento della messa in pratica, a prescindere dal contesto delle altre variabili con cui è connessa e interagisce. Le ricerche inoltre sono piene di trabocchetti metodologici che possono indurre in errore al momento di trarne delle conclusioni e di applicarle nella pratica. Queste evenienze sono fonte di possibili conclusioni troppo parziali e quindi fallaci se vengono considerate in senso più generale. Ogni buon medico deve conoscere la letteratura scientifica, ma saperla applicare caso per caso.

In definitiva penso che la ricerca sia «forte», se viene considerata in modo relativamente «debole» e viceversa. In fondo il riduzionismo scientista, che considera i dati della ricerca come «verità», in qualche modo definitive, che portano a pratiche standardizzate, non è solo il frutto di una incompetenza epistemologica ma anche di una incompetenza metodologica.

Da queste considerazioni nasce quindi l’idea di considerare i dati della ricerca empirica, debitamente valutati, come «elemento perturbante» delle nostre convinzioni e credenze teoriche nella prospettiva, per dirla con Piaget, di un processo di equilibrazione maggiorante. Non ricordo più chi ha detto: «il peggior nemico della verità non è la menzogna, ma la convinzione».

 

M – Prendendo spunto da quanto hai detto, anche a costo di allargare il campo, vorrei soffermarmi brevemente su un argomento che a mio avviso fa da sfondo a tutti gli altri, pur senza necessariamente identificarsi con quello della ricerca empirica: la vexata quaestio della scientificità. Ti propongo in merito una semplice riflessione. L’atteggiamento degli psicoanalisti su tale problema è ambiguo: da un lato, ricorrono rivendicazioni orgogliose di scientificità, con significative ricadute negli assetti istituzionali, che implicano programmi scientifici, segretari scientifici e commissioni scientifiche. Dall’altro, vi è una diffusa insofferenza verso la proposta di criteri anche minimi di scientificità, etichettata come riduzionismo (metodologico), scientismo e positivismo. Tranne alcune eccezioni, come Edelson con la sua proposta di criteri compatibili con il metodo e l’oggetto della psicoanalisi e, sul versante opposto, coloro che vi si oppongono fieramente, sposando la tesi habermasiana dell’«autofraintendimento scientistico» della psicoanalisi, come gli «ermeneuti» e i «narratologi», è difficile trovare analisti che vengano allo «scoperto» su tale problema e/o mostrino di avere in merito le idee chiare. La mia impressione è che per la maggior parte dei nostri colleghi quella di scientificità sia una nozione piuttosto vaga, lontana da qualsiasi identificabile modello epistemologico e coincidente con alcune caratteristiche individuali e collettive come la serietà, l’appartenenza a una tradizione, a un’istituzione e così via.

 

F – E’ davvero difficile sottrarsi al fascino della discussione epistemologica a priori, e, con queste osservazioni, mi induci a fare una breve messa a punto su cosa si intenda per ricerca empirica nel nostro campo. Ricerca empirica in psicoterapia significa sottoporre delle ipotesi che nascono da intuizioni cliniche, organizzate in modelli teorici, a forme di verifica empirica secondo criteri assimilabili, ma non identici, a quelli delle scienze naturali. Ogni procedura scientifica si deve infatti necessariamente accomodare ai suoi oggetti e quindi dobbiamo partire dal presupposto che la maggior parte degli eventi psichici non siano appunto né osservabili direttamente, né direttamente accessibili alla coscienza, come per altro molti altri accadimenti in altri campi. Tuttavia anche i fenomeni psichici possono dar traccia di sé ad un livello osservabile. Ad esempio, possiamo osservare ciò che viene detto, o, in altre parole, possiamo partire dall’esame delle narrative, opportunamente registrate. Le narrative sono considerate, cito Laplanche (1998), come il punto di incontro tra presente e passato, tra esterno e interno della relazione analitica: ogni individuo «formule a lui-meme son existence sous la forme di un rècit». Possiamo ipotizzare che parole contenute nelle narrative relazionali, cioè che riguardano le descrizioni di episodi relazionali raccontati dal paziente, rappresentino aspetti del suo mondo interno e quindi delle rappresentazioni interiori degli oggetti e delle relazioni che ha con essi. Se così fosse ci dovremmo aspettare che col procedere del processo terapeutico le narrative si modifichino e in particolare si modifichino le caratteristiche e la pervasività degli oggetti narrati e della relazione che il soggetto ha con i suoi oggetti. Le narrative relazionali sono osservabili, classificabili in termini qualitativi e quantificabili, in termini di frequenza e pervasività e così anche le loro modificazioni nel tempo. Se queste modificazioni sono considerate come modificazioni delle rappresentazioni interiori, esse sono un indicatore del processo di cambiamento. Dice Racker (1957): «il terapeuta potrà così dimostrare che la realtà attuale non è identica alla percezione interna e il paziente allora potrebbe introiettare una realtà che è migliore o diversa da quella rappresentata nel suo mondo interno». La ricerca empirica, attraverso l’analisi qualitativa e quantitativa delle narrazioni, ha potuto dimostrare la correttezza di queste supposizioni e successivamente il ruolo della accuratezza delle interpretazioni relazionali dell’analista basate sulla corrispondenza tematica tra le narrazioni del paziente e quelle dell’analista. Ciò è rilevante rispetto ai percorsi formativi dei terapeuti ed è considerato uno dei fattori terapeutici di efficacia.

Questo è solo un esempio e direi che ora dovremmo dedicarci a quella che ho definito la questione epistemologica «a posteriori», cioè alla lettura e all’utilizzazione di ciò che la letteratura empirica ha prodotto.

 

M – Esatto e a questo proposito credo che le due questioni epistemologiche, a priori e a posteriori, vadano distinte, perché si tratta di due livelli diversi benché connessi. La ricerca empirica, penso ad esempio al metodo del CCRT di Luborsky, alcune cose le deve dare per scontate, nel caso specifico non sottopone a controllo empirico la teoria del transfert in quanto tale, ma la dà per presupposta: partendo dal presupposto del transfert vediamo se e come funzionano le interpretazioni di transfert. Non so se sei d’accordo che il problema della scientificità della psicoanalisi non si identifichi tout court con quello della ricerca su esito, processo, efficacia e fattori terapeutici, ma tornando a quest’ultima ti chiederei quali sono secondo te i filoni di ricerca più importanti e i risultati più significativi.

 

F – Una precisazione: l’esame della evoluzione delle narrative nel corso del trattamento permetterebbe di valutare l’evoluzione delle rappresentazioni interne come possibile effetto dell’intera esperienza terapeutica nel suo insieme e non solo delle interpretazioni di transfert. Una conferma della teoria del transfert è stata ottenuta invece dal confronto tra le narrative riguardanti altri oggetti, e in particolare i caregiver, e le narrative riguardanti direttamente il terapeuta.

Per quanto riguarda i filoni di ricerca più importanti mi soffermerei su tre punti, collegati tra di loro, che considero particolarmente significativi e stimolanti: la questione dell’efficacia delle terapie, quella del ruolo dell’alleanza di lavoro e quella del cambiamento terapeutico. Dimostrare l’efficacia dei trattamenti psicoanalitici e derivati è una questione molto rilevante da un punto di vista di politica sanitaria, un po’ meno dal punto di vista dei suggerimenti e dell’utilità clinica. Il fatto che ci siano state molte resistenze e quindi ritardi nel fare ricerca sull’efficacia della psicoanalisi ha creato problemi dal punto di vista del riconoscimento dell’utilità clinica della psicoanalisi a livello dei finanziamenti pubblici e assicurativi, nella costituzione delle linee guida per i principali disturbi psichici e nell’opinione pubblica. L’idea che la psicoanalisi e le psicoterapie psicoanalitiche fossero troppo lunghe, costose e poco efficaci rispetto ad altri metodi terapeutici è stata messa radicalmente in discussione sulla base dei risultati della ricerca sull’efficacia nell’ultimo ventennio. La ricerca sull’efficacia ha anche stimolato una domanda cruciale in questo campo: in cosa consiste l’efficacia di un trattamento psicologico? Di questo mi sono occupato nel primo libro (Efficacia delle psicoterapie nel Servizio Pubblico, 2002) e nelle mie prime ricerche sul campo concludendo che è possibile valutare l’efficacia dei trattamenti utilizzando sistemi multidimensionali di valutazione, cioè sistemi che considerano vari aspetti del possibile cambiamento indotto dalle terapie, dai cambiamenti sintomatici al benessere soggettivo, sino alla capacità di «amare e lavorare» che, se non sbaglio, erano i criteri proposti da Freud. Anche il «punto di vista del cliente» è considerato un buon criterio per valutare l’efficacia di un trattamento. Occorre comunque stare molto attenti alla qualità degli studi di esito, considerando la qualità e l’appropriatezza degli strumenti di valutazione dei risultati e i criteri di guarigione che implicano, i tempi di esposizione alla terapia che stiamo testando, la persistenza dei risultati in follow up. C’è un dogmatismo anche da parte dei ricercatori che valorizzano solamente i classici studi controllati randomizzati a scapito di quelli naturalistici, dei «single case», degli studi sul «punto di vista del paziente» e che spesso usano solo criteri sintomatici per definire i risultati. Questi studi portano a conclusioni parziali, se non errate. Anche il famoso «verdetto di Dodo» (l’equivalenza dell’efficacia dei metodi terapeutici) è almeno in parte determinato da carenze metodologiche. Per questo insisto sulla riflessione metodologica ed epistemologica a posteriori. Attualmente possiamo comunque affermare che l’efficacia dei trattamenti ad orientamento psicoanalitico è un dato difficilmente controvertibile anche se non per tutti i pazienti e comunque venga fatta la terapia: infatti, non sempre l’«etichetta» che applichiamo a un trattamento garantisce la sua qualità e, nel bene o nel male, la sua coerenza con il sistema teorico di riferimento. Alcuni criteri legati ai cosiddetti fattori aspecifici e di personalizzazione sembrano essere necessari per la buona riuscita delle terapie. Occorre infine ricordare che gli studi sull’efficacia possono mostrare, nel loro insieme, l’efficacia di una terapia ma di per sé non sono adatti a spiegare cosa ha prodotto il risultato, anche se danno l’impressione di convalidare le convinzioni di chi ha condotto il trattamento. Per capire che cosa correla al cambiamento occorre considerare gli studi che analizzano il processo terapeutico, cioè le variabili di processo o fattori terapeutici.

 

M – Mi interessano molto il «verdetto di Dodo», che a quanto ho capito sottolinea il ruolo dei fattori terapeutici aspecifici, comuni a tutte le terapie, e l’osservazione «complementare», che mi pare tu abbia fatto alcune volte, relativa a quelli che mi verrebbe da chiamare «modelli misti». Non solo tutti farebbero un po’ le stesse cose («verdetto di Dodo») ma tutti farebbero un po’ di tutto («modello misto»). E’ corretto metterla in questo modo? E quali conclusioni se ne possono trarre? La specificità è un’illusione? Crediamo di far qualcosa e in realtà facciamo qualcos’altro? Crediamo che agisca qualcosa e in realtà agisce qualcos’altro? O piuttosto così sembrava, poiché affermi che queste sconcertanti conclusioni poggiavano su dei difetti metodologici? Che errori erano e in che senso la loro correzione modifica il «verdetto di Dodo»? E modifica anche la conclusione – sempre che l’abbia correttamente intesa – secondo cui nella pratica ogni modello terapeutico contiene modalità di intervento caratteristiche degli altri modelli?

 

F – Le valutazioni empiriche che hanno portato al «verdetto di Dodo» hanno dato origine a diverse possibili interpretazioni, tra cui quella che ha valorizzato il ruolo dei cosiddetti fattori aspecifici, che sarebbero alla base di tutte le terapie riuscite nel senso che nelle diverse scuole e indirizzi «opererebbero gli stessi fattori che agiscono sulla sfera cognitiva e affettiva e comportamentale» (Fossi, 2003). Anche senza mettere radicalmente in discussione questa idea, che peraltro appare piuttosto documentata, va comunque segnalato che nel gruppo di casi che vengono considerati in uno studio di esito e che hanno una diagnosi categoriale identica, ci possono essere soggetti molto diversi tra di loro per molte caratteristiche e che quindi rispondono ai diversi trattamenti in modo differente. Per esempio, nella cura dei disturbi dell’umore alcuni soggetti (a parità di sintomi descrittivi) sembrano più adatti ad un trattamento introspettivo e relazionale, altri ad interventi cognitivo-comportamentali, altri a terapie farmacologiche. Se nei campioni presi in esame non si considerano alcune variabili che differenziano questi sottotipi clinici (campioni non omogenei), si può generare una falsa conclusione che tutti i trattamenti danno i medesimi risultati perché utilizzano gli stessi meccanismi.

In estrema sintesi, potremmo dire che sulla base dei dati di cui disponiamo è ragionevole pensare che in tutte le terapie riuscite agiscano dei fattori comuni, correlati soprattutto alla qualità della relazione terapeutica, ma che esistono alcune tipologie di pazienti e/o di problemi che reagiscono meglio ad interventi più specifici. In questo senso possiamo parlare di personalizzazione dei trattamenti e di fattori di personalizzazione.

Se i criteri individuati dalla ricerca come fattori terapeutici «comuni» di esito non sono soddisfatti, c’è una forte probabilità che quella terapia possa essere inutile o nociva. Alcuni modi del trattamento, tra cui modalità relazionali critiche e svalutanti del terapeuta nei confronti del paziente, l’eccessiva asimmetria dei ruoli, la scarsa fiducia nel paziente, una gestione reattiva del controtransfert e l’eccessiva rigidità del metodo, in particolare in concomitanza con le rotture dell’alleanza, sono stati denominati fattori «nocivi» a prescindere dal contesto terapeutico in cui compaiano.

Ma, in un’altra prospettiva, i risultati della ricerca suggeriscono il passaggio da «quale tipo di terapia per quale tipo di categoria diagnostica» a «quale tipo di intervento per quale problema». Cioè orientano verso interventi specifici. Questa frase, così apparentemente innocua, in realtà presuppone che tecniche provenienti da differenti impostazioni possano essere usate in determinati momenti in funzione della loro efficacia per quel problema o situazione. Ciò presupporrebbe quindi, in prospettiva, il superamento delle scuole di psicoterapia così come sono oggi concepite. Questo ovviamente ha un effetto spiazzante per chi è affezionato o per così dire rigidamente «ancorato» al proprio universo teorico e tecnico, che considera differente e migliore di ogni altro. In realtà questa osmosi di pratiche e di concetti, tra orientamenti differenti, è ormai un fatto reale come sembrano mostrare gli studi che analizzano i comportamenti terapeutici di terapeuti di differente orientamento (Ablon e Jones, 1998, 2006). In questi studi si osserva come terapeuti di differente orientamento tendono di fatto ad usare in modo flessibile tecniche prototipiche di altri orientamenti, che molti tipi di intervento propri della psicoanalisi sono utilizzati con successo da terapeuti di altra formazione confermando che in ogni caso la rigidità del metodo, ma non la sua coerenza, è correlata a esiti inferiori. Quindi è scorretto asserire che tutte le terapie sono uguali e che sono determinate unicamente dai fattori comuni. Esistono interventi specifici per problemi specifici. I diversi modelli di terapia, compresi quelli di tipo farmacologico e psico-sociale, possono invece dar luogo a forme di «ibridazione innovatrice» per usare le parole di P. Leonardi (1971) in una logica di integrazione funzionale.

 

M – Mi sembra implicito che i fattori terapeutici aspecifici o comuni potrebbero intuitivamente essere definiti come l’opposto di tutto ciò che fa invariabilmente fallire un trattamento, quale che ne sia l’orientamento. Quale definizione e articolazione esplicita se ne può dare?

 

F – Sono d’accordo sul fatto che il rispetto dei criteri derivati dalla conoscenza dei fattori terapeutici comuni possa essere considerato, sempre in senso probabilistico, la condizione di base per cui un trattamento possa funzionare.

Entrando nel merito vorrei riprendere il discorso sui fattori terapeutici di provata o probabile efficacia, emersi della ricerca: l’alleanza terapeutica, che comprende diversi aspetti tra cui quello che sembra più importante è il grado di collaborazione attiva tra paziente e terapeuta, la relazione terapeutica, che si riferisce in particolare alla qualità della relazione sperimentata nell’interazione terapeutica (che è stata definita anche relazione reale per distinguerla così dalla relazione transferale e da ogni altro tipo di intervento) e l’accuratezza che riguarda l’appropriatezza degli interventi rispetto ai problemi portati dal paziente, collegata alla qualità della valutazione diagnostica, in senso dimensionale, e indirettamente alle capacità empatiche del terapeuta.

Dobbiamo ricordare che questi aspetti sono stati studiati a partire dal confronto tra le terapie riuscite rispetto a quelle meno riuscite o interrotte, quindi a partire da quello che i clinici fanno. Non deve stupire inoltre che i ricercatori utilizzino concetti conosciuti (utilizzando procedure di operazionalizzazione) e che le ricerche possano confermare punti di vista condivisi dai clinici. La conferma dei concetti e delle conseguenti pratiche in uso e della loro coerenza è infatti uno dei compiti principali della ricerca empirica.

Tra i fattori di personalizzazione, cioè quei fattori che invece rendono necessarie modificazioni specifiche nelle tecniche di intervento, un ruolo importante riguarda le aspettative e le motivazioni alla terapia e al tipo di terapia, i diversi tipi di resistenza e alcune caratteristiche di personalità. Infine va segnalata l’importanza da attribuire, sempre sulla base dei risultati delle ricerche, alle fasi del cambiamento terapeutico e alla progressione finalizzata del tipo di intervento nelle differenti fasi della terapia. Ciascuno di questi argomenti meriterebbe uno spazio a sé.

 

M – Tornando all’alleanza di lavoro …

 

F – L’alleanza di lavoro è uno dei costrutti più valorizzati dalla ricerca empirica. Il termine non è affatto nuovo e sin dall’inizio della psicoanalisi è stato utilizzato per indicare la disponibilità del paziente a condividere il metodo e gli obiettivi del trattamento. Se molti autori, a partire dallo stesso Freud, hanno considerato cruciale questo aspetto di collaborazione consapevole del paziente al processo analitico, altri hanno sostenuto che l’alleanza si costruisce progressivamente con il procedere dell’analisi e che un costrutto come quello di alleanza possa essere deviante in particolare rispetto all’analisi di resistenze celate sotto aspetti collaborativi e razionali. Di fatto piuttosto raramente i terapeuti discutono con il paziente gli obiettivi e il metodo di lavoro, dando per scontato che questo sia implicitamente condiviso. In alcuni casi sembrerebbe che la terapia sia una questione privata tra analista e inconscio del paziente e che il paziente, come uno spettatore, debba semplicemente prendere atto di ciò che succede. La legittimazione del punto di vista del paziente sembra invece porsi all’origine della costruzione dell’alleanza di lavoro: non è possibile pensare alla costruzione di obiettivi comuni (convergenza) senza considerare questo come il prodotto di una tensione verso una dimensione di sintonizzazione e di incontro con l’altro, di «isotopia», ossia come il prodotto di una tensione verso uno spazio e un tempo comuni e condivisi.

Molte ricerche hanno mostrato che non solo l’alleanza di lavoro è un fondamentale fattore di esito ma anche che nel corso della terapia avvengono molte possibili rotture dell’alleanza di cui i terapeuti non si avvedono o a cui reagiscono in modo inadeguato. Negli ultimi anni ci si è posti domande su quale contributo il paziente può dare al processo di cambiamento e sulla valutazione del ruolo che il paziente ha nel lavoro terapeutico arrivando alla conclusione che «la qualità della partecipazione del paziente alla terapia rappresenta il più importante determinante dell’esito» (Orlinskj et al.1994). Questa stretta correlazione tra alleanza ed esito va considerata non solo nei suoi aspetti espliciti ma anche in quelle dimensioni implicite che collegano alleanza e cambiamento, cioè su «come» l’alleanza influenza il cambiamento. Credo che questa sia una delle aree più promettenti sia per la ricerca empirica che clinica: abbiamo una sufficiente conoscenza del rapporto tra resistenza al cambiamento e congruenza di obiettivi sia sul piano consapevole che inconscio nelle successive e differenti fasi del processo terapeutico?

 

M – Premesso che i «fattori di personalizzazione» sembrano suggerire una realtà clinica meno «monolitica» di quello che si potrebbe pensare, esiste pur sempre un’alta specificità teorico-clinica della psicoanalisi. Come viene categorizzata o «ridotta» dalla ricerca empirica? Metto lì a caso una serie di «variabili»: setting, «regola fondamentale», interpretazioni di transfert, attenzione alla dinamica transfert/controtransfert, teoria o modello psicoanalitico di riferimento …

 

F –  Molti risultati della ricerca empirica sembrano confermare gli assunti di base della psicoanalisi. Alcuni assunti tipicamente psicoanalitici sono ricollegabili con i fattori comuni, altri sembrano indicare interventi più specifici. Anche se viene ridotta o non confermata la rilevanza di alcune regole standardizzate, non c’è motivo di mettere in discussione la specificità dei modelli psicoanalitici, semmai di approfondirli e perfezionarli. Cito V. Giaconia (1997): «Potremmo dire che la perturbazione del mito psicoanalitico operata dai dati osservativi della psicologia sperimentale ha rimesso in movimento la teoria psicoanalitica».  Questo non va inteso come «la riduzione dell’accadimento psichico alla sola relazione, osservabile sperimentalmente con i suoi vari modelli o pattern relazionali», questo «eliminerebbe lo specifico della psicoanalisi: la radice conflittuale del farsi psichico del biologico».

Credo di essere abbastanza obiettivo nel dire la ricerca empirica può creare maggiori problemi in termini di coerenza teorica ad altri orientamenti, come quelli di tipo cognitivo-comportamentale o alla psichiatria cosiddetta «biologica» sia in termini di studi di efficacia che di processo.

 

M – Ti faccio una domanda bizzarra, che riflette un quesito che mi passa per la mente da tempo. Tornando ai fattori terapeutici aspecifici, che definirei condizione necessaria anche se non sufficiente di un cambiamento terapeutico, non ti sembra che alcune teorie psicoanalitiche, ho in mente in particolare la teoria bioniana della trasformazione degli elementi beta in alfa e della relazione contenitore/contenuto, siano inconsapevolmente delle teorie dei fattori aspecifici? Più in generale, non pensi che tutta la psicoanalisi «relazionale», centrata su elementi come il contenimento, l’empatia, lo scambio e la sintonizzazione affettiva, elementi che secondo alcuni verrebbero a definire la relazione analitica stessa, come distinta dalla dinamica transfert/controtransfert, sia una teoria o un insieme di teorie relative ai fattori terapeutici aspecifici?

 

F – Vanna Giaconia (ibidem) pone la relazione terapeutica in una linea di continuità con la relazione naturale madre –bambino, cioè con l’incontro tra la competenza ad accudire del caregiver e la competenza ad essere accudito del bambino. La competenza è definita sia come la capacità di «ricevere e produrre messaggi comunicativi» che «di sviluppo e trasformazione (cioè cambiamento) nell’incontro con l’ambiente» che è nel nostro caso «l’altro». Questa mi sembra possa essere la base comune, in quanto naturale, a molte forme di psicoterapia, anche se i compiti e le responsabilità del terapeuta e del paziente in terapia sono ovviamente più complessi e differenti. Nelle terapie riuscite possiamo osservare un incremento delle capacità di trasformare contenuti irrappresentabili in pensieri e della capacità di mentalizzazione in senso più generale, l’introiezione di nuove esperienze e rappresentazioni dell’altro e di sé e infine l’incremento della capacità di autoregolarsi. Questi elementi agiscono in combinazione e probabilmente in modo sequenziale nelle varie fasi del trattamento.

 

M – Sottolineato il ruolo dei fattori aspecifici, è possibile dimensionare il loro peso rispetto a quelli specifici, in particolare psicoanalitici? Mi rendo conto che mi potresti dire che la domanda è mal posta, poiché non si può rispondere in termini assoluti, ma dipende dal tipo di problema e dal tipo di paziente, a prescindere anche dalla categoria diagnostica. Detto questo, anche relativizzando e circoscrivendo in questo modo, è possibile, per quei pazienti che sono ad essi sensibili, stabilire il peso relativo dei fattori specifici rispetto a quelli aspecifici?

 

F – Credo che il contributo di ciò che, almeno teoricamente, potrebbe differenziare ciò che è specificamente psicoanalitico o no riguardi anche l’abilità nel gestire i cosiddetti fattori aspecifici e in particolare la costruzione delle premesse che consentono la loro gestione.

La capacità di intuire i pensieri inconsapevoli, di dare espressione e parola ai vissuti, a modalità di funzionamento psichico e a meccanismi di difesa che rimandano a contenuti inelaborati e inelaborabili che cercano nel processo psicoanalitico una via di esplicitazione e rappresentabilità è un punto di vantaggio delle terapie ad orientamento psicoanalitico. Su questa base (o forse compiutamente solo su questa base) si possono organizzare le esperienze relazionali e di autoregolazione che possono condurre al cambiamento terapeutico. Per «par condicio» potrei aggiungere che nelle terapie di tipo cognitivo e cognitivo-comportamentale vi è una maggiore attenzione alla co-costruzione e condivisione degli obiettivi terapeutici e all’attuazione del cambiamento, fase che invece nelle terapie psicoanalitiche può essere trascurata perché considerata un effetto automatico della esplicitazione e comprensione dei contenuti inconsci. L’area del cambiamento terapeutico sembra ancora troppo condizionata dal valore che la psicoanalisi attribuisce alla comprensione e alla spiegazione dei fenomeni inconsci e alla etiopatogenesi della sofferenza mentale nel contesto della terapia. La comprensione non coincide necessariamente con il cambiamento. E, sul versante tecnico, dal valore mutativo attribuito alle interpretazioni di transfert, considerate invece dalla ricerca interventi «ad alto rischio/alto guadagno» (Gabbard, 1994). Quest’area, che meriterebbe di essere affrontata in modo più innovativo, è un esempio di quella «perturbazione cognitiva» che la ricerca può produrre. Mi viene da associare a questa affermazione il ricordo di una frase di un mio paziente che, avendo ricevuto precedentemente un lungo trattamento psicoanalitico senza risultati significativi, in risposta a una mia domanda spontanea su un suo problema medico mi disse: «questa sua domanda mi fa capire che lei vuol più bene a me che alla sua psicoanalisi». C’è una citazione di Freud (1918) che parla esplicitamente del rischio di «portare fuori molte cose senza cambiare nulla» e un’altra che parla della necessità da parte del paziente di «agire violentemente contro la coazione a ripetere».

 

M  – Ti faccio un’ultima domanda soffermandomi su un punto che hai lasciato in sospeso, probabilmente perché lo senti vicino a quell’epistemologia a priori che ti suscita una certa diffidenza. Io tenderei, come ho detto sopra, a tenere separato il problema della scientificità da quello dell’efficacia terapeutica, anche se certamente si tratta di due questioni fra loro connesse. Individuare un virus non significa necessariamente e immediatamente riuscire a debellarlo, proporre una teoria astronomica non significa necessariamente riuscire a influire sui fenomeni celesti, formulare una teoria dell’evoluzione delle specie non significa essere in grado di orientarne la direzione. In altri termini, una teoria può essere «vera» nel senso di provvisoriamente e localmente convalidata o confermata, senza per ciò stesso essere, almeno nell’immediato, efficace. Grünbaum, piuttosto perfidamente, intuendone le difficoltà, sottolinea che Freud si sarebbe «impiccato» al problema della dimostrazione dell’efficacia o meglio della superiorità terapeutica della psicoanalisi, rendendo la «verità» della psicoanalisi (e l’attendibilità dei dati clinici) «parassitariamente» dipendente dalla sua efficacia: di qui, a suo avviso, la necessità di studi extraclinici, epidemiologici o sperimentali. Io penso che ci sia anche una «terza via», ossia derivare dai modelli psicoanalitici conseguenze clinicamente osservabili, in studi approfonditi dei casi clinici condotti con criteri di rigore compatibili con la complessità dell’oggetto psicoanalitico, in modo tale da valutarne la credibilità scientifica sulla base dei dati clinici, la loro base empirica «naturale». Tu cosa ne pensi? Mi sembra che la tua sottolineatura della conferma, attraverso l’analisi delle narrative, della teoria del transfert, che non necessariamente coincide con la dimostrazione dell’efficacia terapeutica della sua interpretazione, vada proprio in questa direzione.

 

F – E’ vero che l’efficacia di una pratica non costituisce in sé prova delle teorie che la sottendono dal punto di vista di chi opera. Il fatto che io pensi che una certa pozione funzioni per effetto delle sue proprietà chimico-fisiche o perché evoca l’intervento di un dio, non cambia in buona misura gli effetti materiali che la pozione, di fatto, produrrà. Peraltro è riconosciuto che, sebbene gli studi di efficacia possano essere fondamentali per orientare le scelte terapeutiche, anche i migliori studi di efficacia non sono idonei in sé a dimostrare che cosa ne determina l’efficacia. Penso che la questione della scientificità della psicoanalisi sia una questione mal posta. La conoscenza umana procede su diversi binari paralleli: la ricerca scientifica (nel senso paradigmatico del termine), i derivati dell’esperienza personale che si condensano in teorie «private», le intuizioni del momento, le conoscenze tramandate dalla tradizione e da coloro che riconosciamo come maestri. Tutte queste forme di conoscenza concorrono a costruire la nostra visione del mondo e determinano il nostro agire nella pratica, cioè in definitiva la nostra competenza a curare. Ogni oggetto di conoscenza può essere letto in ciascuno di questi modi: anche la psicoanalisi, sia che la consideriamo una teoria generale del funzionamento umano oppure, da un altro punto di vista, l’insieme di ciò che gli psicoanalisti fanno con i loro pazienti. Un’elegante impostazione di questo problema è quella proposta da Lakatos (1978). Lakatos sostiene che ogni teoria è costituita da un nucleo in sé inverificabile circondato da un anello di ipotesi verificabili che chiama «cintura protettiva». Quando molte delle ipotesi derivabili dal nucleo in questione sono provate la teoria ne esce rafforzata, mentre se le ipotesi derivate hanno poche conferme la teoria tende ad essere abbandonata o modificata. In definitiva la ricerca in psicoterapia sembra confermare molte ipotesi basate sui costrutti espressi dalla psicoanalisi nel tempo e quindi svolgere quel ruolo di conferma di ipotesi parziali derivate da una teoria più generale di per sé inverificabile. Al tempo stesso sembra segnalare aspetti problematici nella pratica clinica e aree non ancora non sufficientemente esplorate.

Penso inoltre, e in questo sono d’accordo con te, che fare ricerca con strumenti empirici anche su piccoli campioni o «single case» sia un modo di osservare accuratamente ciò che avviene, e dove lo strumento di valutazione si costituisce come una guida indipendente, un «terzo» che limita la soggettività proiettiva dell’osservatore.

 

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