La Ricerca

Yovell, Y., Solms, M., Fotopoulou, A. (2015). The case for neuropsychoanalysis: Why a dialogue with neuroscience is necessary but not sufficient for psychoanalysis. Int.J.Psychoanal. Sintesi a cura di R.Spagnolo.

13/10/15

Questo articolo è stato pubblicato sul sito web dell’ all’International Journal of Psychoanalysis  nel Luglio 2015. La pubblicazione precede quella in cartaceo, ed è accessibile solo agli abbonati all’Int.J.Psychoanal.

Sintesi dell’articolo a cura di Rosa Spagnolo <r.spagnolo@libero.it>

Gli autori sono : Yoram Yovell, Institute for the Study of Affective Neuroscience, University of Haifa, Israel, Mark Solms, Department of Psychology, University of Cape Town, South Africa, Aikaterini Fotopoulou Psychoanalysis Unit,Clinical, Educational and Healthy Psychology, Division of Psychology and Language Sciences, University College London, UK.

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L’articolo consta di una accurata disamina dei motivi che sostengono l’utilità del dialogo neuroscienze-psicoanalisi.

Questi i paragrafi attraverso cui i tre autori articolano un serrato confronto fra sostenitori e detrattori della neuropsicoanalisi.

1. Introduction

1.1. Brief outline of the development of neuropsychoanalysis

 1.2 The reception of neuropsychoanalysis in psychoanalysis

1.2.1 Recent scientific developments and  their impact on the reception of neuropsychoanalysis in the neurosciences

2. Points of agreement

3. Objections to neuropsychoanalysis

3.1.1. Claim:theneurosciencesare essentiallyirrelevant to psychoanalysis

3.2. The  relevance of the  neurosciences to psychoanalytic practice

3.3. Claim:neuropsychoanalysisisnotpsychoanalytical

3.3.1. Response and  discussion: the psychoanalytic basis  of neuropsychoanalysis

3.4. Claim: neuropsychoanalysis is dangerous to psychoanalysis

3.5. Response and  discussion: hope  and  dread  in neuropsychoanalysis

3.6. Response and  discussion: hope  and  dread  in neuropsychoanalysis

4. Advantages of a dialogue with the neurosciences

5.. Conclusion

Yovell, Solms e Fotopoulou hanno assunto come principale riferimento per le loro riflessioni, il testo di Blass  & Carmeli: “The case against neuropsychoanalysis. On fallacies underlying psychoanalysis’ latest scientific trend and its negative impact on psychoanalytic discourse”

(IJP, 2007, vol 88:19-40), poichè in questo sono presenti una serie di argomentazioni che raccolgono l’opinione di quanti, in ambito psicoanalitico, ritengono che l’avvicinamento delle due discipline sia irrilevante, inopportuno, o anche pericoloso.

I tre autori aprono l’articolo avvisandoci di un dialogo che stenta a decollare poichè  psicoanalisi e neuroscienze si sono  ignorate,  o si sono ritrovate in uno stato di ostilità reciproca, lungo la maggior parte del ventesimo secolo. Successivamente ai lavori di Kandel (Kandel,  1998, 1999) si è accresciuta la consapevolezza di poter avviare un dialogo interdisciplinare che porta linfa fresca ad entrambi i campi. In questo dialogo si è inserita la neuropsicoanalisi, la cui nascita è ampiamente descritta nella prima parte dell’articolo.

Da questa prima parte traiamo alcuni punti di riflessione  partendo da questa affermazone:

Forse più importanti del cambiamento che ha avuto luogo nel “cosa” studiano i neuroscienziati, sono gli sviluppi drammatici di “come” studiano il cervello, e quindi a quale tipo di conoscenza sulle relazioni cervello / mente possono arrivare (p.6).

Ad esempio il passaggio da modelli quali quello della segregazione funzionale (la descrizione dei neuroni specializzati, raggruppati nello spazio a formare moduli neurali) a quello relativo all’ integrazione funzionale (o di convergenza), il quale postula che le funzioni mentali complesse si basano su interazioni tra le varie regioni del cervello interconnesse che si traducono in sistemi gerarchici e distribuiti (Friston, 2009;. Raichle et al, 2001), ha fornito un modo di guardare a queste reti funzionali a varie discipline, anche se ancora non sono disponibili dati quantitativi attendibili. Gli attuali approcci neuroscientifici non seguono la classica visione della mente modulare o computazionale, come avvenuto in passato e, al momento, la metapsicologia freudiana, costruita su un maggior dinamismo mentale, meglio si presta allo scambio con modelli contemporanei dinamici neuroscientifici. Esempi di tali sintesi sono già state avanzate (ad es Carhart- Harris e Friston, 2010; Fotopoulou, 2012C, Hopkins, 2012;. Rizzolatti et al, 2014) e la neuropsicoanalisi se ne occupa per costruire un ponte fra le neuroscienze e la psicoanalisi.

Partendo quindi dall’articolo di Blass e Carmeli (2007), che presenta una vasta e  dettagliata discussione contro la neuropsicoanalisi, gli autori risponderanno puntualmente a tutti i quesiti da questi posti procedendo, prima di esaminare i punti di disaccordo, ad evidenziare quelli su cui concordano:

In primo luogo, siamo d’accordo che “alla base del dibattito sulla rilevanza delle neuroscienze per la psicoanalisi, si trova una lotta per la natura essenziale della teoria e della pratica psicoanalitica” (Blass e Carmeli, 2007, p. 19). Mentre noi preferiamo usare il termine “discussione” piuttosto che “lotta”, crediamo che il loro punto di vista è infatti parte di un importante dibattito circa la natura stessa della psicoanalisi, sul suo campo di applicazione, sul suo futuro e sul suo rapporto con altre discipline.

In secondo luogo, siamo d’accordo che il nome “neuropsicoanalisi” non implica che le due discipline, neuroscienze e psicoanalisi,  sono diventate una, o lo stanno per diventare in futuro, o che siano in via di principio in grado di diventare una… La psicoanalisi e le neuroscienze sono e continueranno ad essere due discipline intrinsecamente differenti (più esattamente, gruppi di discipline).

In terzo luogo, notiamo che Blass e Carmeli sono ampiamente d’accordo con noi quando “non discutono in alcun modo che tutti i fenomeni mentali richiedono necessariamente un substrato biologico” (p. 8).

In nota gli autori precisano

Quando è stato formalmente introdotto (Nersessian e Solms, 1999), il termine che denota questo interdisciplinareità era “neuro-psicoanalisi”. Il trattino doveva sottolineare il fatto che psicoanalisi e neuroscienze sono separati e non possono essere unite. Negli ultimi anni, tuttavia, via via che l’espressione è diventata  più popolare e ampiamente utilizzata, il trattino è stato abbandonato. Tuttavia, le ragioni del suo originario utilizzo restano pertinenti (nota 1, p 8).

Più lunga ed articolata naturalmente la risposta ai punti di disaccordo, di cui in sintesi rileviamo i primi tre:

Blass e Carmeli (2007) fanno tre dichiarazioni inequivocabili circa la neuopsicoanalisi e, quindi, sul dialogo emergente tra psicoanalisi e neuroscienze. In primo luogo, essi sostengono che le neuroscienze sono sostanzialmente irrilevanti per la psicoanalisi. In secondo luogo, essi sostengono che la neuropsicoanalisi non è analitica. In terzo luogo, essi sostengono che la neuropsicoanalisi è pericolosa  per la psicoanalisi (p.9).

Riguardo al primo punto Blass & Carmeli argomentano a favore dell’irrilevanza poiché il dominio della psicoanalisi riguarda i significati ed a questo dominio le neuroscienze non posso apportare alcun contributo significativo.

I tre autori rispondono con una prima  riflessione riguardante alcuni modelli psicoanalitici e neuroscientifici in cui il cervello viene riconosciuto come l’hardware della mente. L’equazione potrebbe apparire tipo:  siccome la psicoanalisi si interessa della mente, può completamente disinteressarsi del funzionamento dell’ hardware. Ciò vorrebbe dire che nonostante venga ammessa da tutti una forte correlazione fra mente e cervello, gli psicoanalisti possono continuare a comportarsi come se il cervello non esistesse! Da questo punto di vista  è chiaro che le neuroscienze sono irrilevanti per la psicoanalisi.

Inoltre, se si accetta questo punto di vista, allora si può vedere come alcune persone potrebbero giungere alla conclusione che le neuroscienze sono irrilevanti per la psicoanalisi: gli psicoanalisti si occupano del software, mentre i neuroscienziati dell’ hardware. Per poter lavorare con un particolare programma software, non c’è bisogno di sapere nulla di come un computer viene fisicamente costruito o come è cablato. E sufficiente che lo specialista software (lo psicoanalista) sia in grado di dire quando c’è un malfunzionamento hardware, e quindi chiamare un tecnico del computer – qualcuno di una disciplina diversa (p.11).

In altre parole se lo psicoanalista rileva un cattivo funzionamento del cervello (come?) chiama il neurologo, lo psichiatra o altri specialisti dell’hardware.

Gli autori ci ricordano che tale modalità di guardare al problema mente/corpo è ormai superato sia in campo filosofico che neuroscientifico, dove l’analogia del computer è un povera metafora del rapporto reale tra cervello e mente. Ormai è quasi universalmente accettato che quando si tratta di funzioni del cervello, è impossibile separare l’hardware dal software (Eccles,  1994;  Edelman   and  Tononi,   2000;  Freeman,2003; Yovell, 2004; see also section 3.2.1.4 below).

A questo punto gli autori introducono le ipotesi sostenute dall’ “affective neuroscience”  sul “dual aspect monism” in cui viene proposta una visione della mente e del cervello come un’ unica entità (ontological  monism); siccome non è possibile avere un accesso diretto a questa unità, bisogna studiarla attraverso la costruzione di modelli basati su due fonti diverse e irriducibili:  lo studio dell’esperienza soggettiva in singoli o gruppi (come in psicologia e psicoanalisi) e lo studio degli stati e funzioni cerebrali in individui o gruppi (come nel campo delle neuroscienze). Quindi la conoscenza  della mente secondo le due prospettive (first person  subjectivity e third-person objectivity) sono pratiche scientificamente indipendenti (dualismo epistemologico) che forniscono differenti

inferenze sui  processi mentali (ad esempio modelli psicoanalitici di processi mentali e modelli neuroscientifici di processi mentali). Dal momento che, tuttavia, entrambi i metodi di osservazione studiano la stessa entità (il cosiddetto “cervello-mente”), e dal momento che, di per sé, né l’uno né l’altro sono sufficienti  per esplorare a fondo e descriverla, la collaborazione e il dialogo tra di essi possono arricchire la conoscenza di  entrambi, senza eliminare l’uno la prospettiva dell’altro (p.12).

La dicotomia, posta da Blass & Carmeli, fra  “Malattia del cervello” e “significato” o cervello hardware/mente software, porta a conclusioni assurde e semplicemente non esiste, concludono Yovell, Solms e Fotopoulou. Numerose evidenze cliniche e ricerche mettono in evidenza che questa distinzione è del tutto sconclusionata.

Le persone che hanno difficoltà psicologiche, presumibilmente a  cervello “intatto”, persone con cui gli psicoanalisti lavorano ogni giorno, in realtà hanno anomalie neuronali misurabili che sono intimamente  correlate con il modo in cui la loro mente funziona . Questo è vero per le persone che soffrono di attacchi di panico (Alexander et al., 2005), trauma psichico (Bremner, 2005), sindromi depressive (Liotti e Mayberg, 2001),  timidezza (Mathew e Ho, 2006), ossessioni (Micallef e Blin, 2001), compulsione autodistruttiva (Potenza, 2001) (p.14).

Essi proseguono mostrando come qualsiasi tentativo di forzare la dicotomia biologia / psicoanalisi  sulla mente sia destinata a tradursi in una grave diminuzione della rilevanza clinica e della portata teorica della psicoanalisi. E pongono una serie di domande riguardanti sia il versante psicologico che  quello  biologico (terapie psicologiche di pazienti con danni cerebrali che al pari di altri pazienti a cervello intatto continuano a produrre significati):

Sono esseri umani complessi, le loro menti hanno profondità e dinamica e  cercano e generano significati. I significati che creano sono personali, comprensibili, vitali per loro come i significati creati da individui con cervelli “intatti” (p.15).

Il modellamento cervello/significati è reciproco; ad esempio il successo di una psicoterapia  normalizza il funzionamento di vari siti cerebrali in alcune specifiche patologie: cioè  le variazioni del “software” inducono variazioni dell’ “hardware” o, detto in altri termini, il “significato” può effettivamente influenzare direttamente e sistematicamente i  processi cerebrali.

Quindi il punto di vista di Blass & Carmeli, secondo cui il cervello è irrilevante per il significato, non può essere sostenuto, come non può essere sostenuto che non vi siano significati psicoanalitici dove c’è un danno cerebrale, tutto ciò produce una spirale di assurdità e fallaci conclusioni.

La rilevanza che le neuroscienze hanno per la pratica clinica è evidenziata attraverso l’esposizione di un caso clinico in  cui viene riproposto il dilemma di come trattare le memorie di pazienti traumatizzati. La distinzione fra memorie dichiarative  esplicite e non dichiarative implicite; la possibilità di riconoscere l’esistenza di poter rievocare solo alcune memorie mentre altre non saranno mai ricollocabili nel passato; nonché l’assenza totale di codifica di alcune memorie nel cervello; tutto questo è un patrimonio della tecnica psicoanalitica mutuato dalle ricerche nel campo delle neuroscienze. In particolare, come mostrato nel caso clinico presentato, studi prospettici su pazienti traumatizzati (Yovell  et al.,  2003) condotti da neuroscienziati con competenze di tecnica psicoanalitica, mostrano l’esistenza di due tipi di amnesia uno legato al meccanismo della rimozione (la cui rievocazione è possibile seguendo i vari modelli psicoanalitici) ed un altro basato sul fatto che il paziente potrebbe non ricordare, perché i suoi ricordi non sono mai stati registrati come memorie dichiarative coerenti, cioè semplicemente non esistono, sono assenti perché mai codificati nel cervello.

Nel caso presentato:

I ricordi che la paziente cerca (e teme) possono non essere mai esistiti in forma esplicita. Invece, ella potrebbe ricordare l’abuso principalmente attraverso la paura condizionata e altri tipi impliciti di memoria. Pertanto, la sua incapacità di ricordare i dettagli dell’ abuso non significa che non è mai successo, o che stia  reprimendo dinamicamente la memoria. A causa della molteplicità dei sistemi di memoria  umana, potrebbe essere profondamente, dolorosamente e definitivamente  colpita dalle conseguenze di un trauma che  potrebbe non essere mai  in grado di ricordare in modo esplicito (p.21).

Gli autori esaminano le varie possibilità legate all’uso del transfert, della ricerca di significati e altre tecniche psicoanalitiche per affrontare la richiesta di ricordare (o di discernere il reale, accaduto, dal non reale o non accaduto) di pazienti traumatizzati (ad esempio un abuso sessuale). Sapendo quanto sia importante per questi pazienti non percepire il disconoscimento dell’abuso (percependolo e trattandolo come non avvenuto) da parte del terapeuta, che perpetuerebbe il non riconoscimento originario, sapere cioè  che  ciò che non è in alcun modo nella memoria esplicita e quindi non può essere ricordato, può però indurre altre alterazioni percepibili e disponibili al working through aiuta a lavorare psicoanaliticamente utilizzando scoperte neuroscientifiche attuali.

Attraverso la descrizione di questo caso clinico gli autori esplorano le basi psicoanalitiche della neuropsicoanalisi. Queste sono rintracciabili in molte ipotesi presenti ampiamente (e da loro citate) nell’opera di Freud. Inoltre affrontano anche gli intrecci fra alcune ipotesi più squisitamente psicoanalitiche come la libido, con altre affini come la nozione di attaccamento.

Infine gli autori non disdegnano di rimettere in discussione le basi teorico-cliniche della neuropsicoanalisi rispondendo a due quesiti fondamentali:

1) La neuropsicoanalisi è un male per la psicoanalisi, perché si basa (forse  segretamente) sul presupposto che solo ciò che è biologico è reale.

2) La neuropsicoanalisi è un male per la psicoanalisi, perché ritiene che le spiegazioni psicologiche sono sempre subordinate a quelle biologiche (p.28).

Gli autori affermano di essere convinti che bisogna contrastare la tendenza al riduzionismo e al materialismo presenti in alcuni ambiti delle neuroscienze e la  psicoanalisi può contribuire a ciò. Rispondono, quindi, ampiamente e chiaramente ai due quesiti  attraverso queste affermazioni:

Pensieri, sentimenti e fantasie sono reali come il cervello.

Secondo alcuni dei suoi critici, la neuropsicoanalisi sostiene che “solo il livello biologico di una spiegazione può descrivere ciò che è reale nella mente” (Blass e Carmeli, 2007, p. 34). Noi respingiamo questa ipotesi. Si tratta di una sfortunata e profonda incomprensione di ciò che la neuropsicoanalisi è e di ciò che dice: Noi abbiamo sempre sostenuto il contrario (si veda in particolare Solms, 1995, 1997, 2003)…

Pertanto… come abbiamo detto più volte, (a) la mente è altrettanto reale come il cervello, e  (b) l’ esperienza soggettiva è altrettanto vera, come qualsiasi fenomeno oggettivo. E’ nostra opinione, […] che l’esperienza soggettiva di  essere una persona – la realtà vissuta di singole persone, che è il dominio tradizionale della psicoanalisi – non può essere eliminato da nessun modello biologico o teoria. In poche parole, significati e intenzionalità, non sono riducibili a neuroni. Allo stesso modo, riteniamo che lo studio sistematico di esperienze soggettive attraverso il discorso introspettivo e attraverso la ricerca di significati personali produce dati essenziali e irrinunciabili sulla struttura e sulle funzioni della mente umana che è impossibile ottenere in qualsiasi altro modo. Questo, infatti, è il principale contributo che la psicoanalisi offre alle neuroscienze (Solms, 2006b) (p.29).

Gli autori assumono anche  la preoccupazione che il dialogo  con le neuroscienze potrebbe condurre ad abbandonare, rinunciare o modificare alcune teorie della psicoanalisi e aggiungono al dibattitto la possibilità che tale dialogo possa aiutare a ridefinire i confini sia della psicoanalisi che delle neuroscienze, nonché a ridefinire, attenuandoli, anche molti contrasti interni al modello psicoanalitico. Inoltre, ribadiscono, che la neuropsicoanalisi in alcun modo ritiene che le teorie neuroscientifiche sostituiranno  le teorie psicoanalitiche, poichè hanno a che fare con due irriducibili differenti fenomeni (ma ugualmente reali) dell’apparato mentale: il cervello oggettivo e la  mente soggettiva.

E riprendo, per portarla all’attenzione dei lettori una postilla in nota (nota n 6, p.31) che credo sia rilevante ai fini del discorso se sostenere o meno un dialogo con le neuroscienze e se la psicoanalisi può o meno aiutare a costruire legami con l’attualità scientifica.

Quelli che credono che le neuroscienze sono irrilevanti per la psicoanalisi spesso non vedono  alcuna difficoltà in un futuro in cui la psicoanalisi è irrilevante per le neuroscienze, come è stato per gran parte del 20 ° secolo. La marginalizzazione della psicoanalisi nel mondo accademico, la perdita della sua influenza e rappresentanza nei corsi di laurea ed in quello di psicologia, così come nelle scuole di medicina e psichiatria, nei programmi residenziali, la mancanza di volontà dei fornitori di assistenza sanitaria per coprire i costi del trattamento psicoanalitico, sono a nostro parere, le conseguenze indesiderate di tali atteggiamenti isolazionisti. Allo stesso modo, il fatto che i finanziamenti pubblici e privati ​​per la ricerca sulla salute mentale favoriscono pesantemente l’approccio neuroscientifcico alla ricerca, escludendo l’approccio  clinico puro, è in parte un’altra conseguenza della mancanza di voci psicoanalitiche nel discorso neuroscientifico (p.31).

In conclusione i tre autori si soffermano sull’importanza  della rivoluzione in atto nelle neuroscienze cognitive, sociali e affettive che si pongono interrogativi su aspetti della mente da sempre studiati dalla psicoanalisi. La psicoanalisi è quindi giunta ad un bivio in cui incrocia molte domande: è possibile impegnarsi in un dialogo con le neuroscienze reciprocamente rispettoso?   Tale dialogo è rilevante e consigliabile? Può essere condotto senza compromettere la prospettiva psicoanalitica? Gli autori rispondono si a tutte e tre le domande e che anzi un tale impegno è necessario sia nei confronti di altre discipline che con le neuroscienze.

Inoltre, un dialogo con le neuroscienze non è sufficiente per garantire il progresso in psicoanalisi. Gli sviluppi dall’interno della psicoanalisi sono e restano essenziali per il progresso della psicoanalisi. Tuttavia, nonostante le sfide che ci attendono, noi crediamo che la neuropsicoanalisi che si fonda su una visione psicoanalitica del mondo sia un bene per il futuro della psicoanalisi. Basiamo questo punto di vista non solo sulle nostre argomentazioni, di cui sopra, ma anche sulle dichiarazioni di (tra gli altri)  Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisiche ha sempre anticipato questo sviluppo ed era desideroso di vederlo attuato (vedi paragrafo 3.4.1) (p.32).

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