La Ricerca

Bullismo: la relazione con la vittima e con gli adulti

4/06/15

A cura di Jones De Luca

Il termine bullismo rimanda a situazioni nelle quali singoli individui o gruppi di individui aggrediscono coscientemente dei compagni con l’intenzione di far male (e ripetutamente). Il bullo imposta una relazione di potere caratterizzata da violenza fisica o da pressione psicologica tale da creare delle vittime predestinate. Il bullismo nasce in particolare in adolescenza, in situazioni in cui gli adulti significativi di riferimento hanno perso qualsiasi autorevolezza e di conseguenza si verifica una pervasiva sfiducia rispetto alla loro capacità di far fronte a tali situazioni. Il fenomeno si manifesta in ambiti di extraterritorialità dall’ autorità scolastica e familiare. In queste nicchie i comportamenti di aggressione possono trovare spazio e possibilità di ripetersi. Si tratta di una forma di sottrazione e misconoscimento dell’autorità che comporta l’instaurarsi di una “sub-cultura” della violenza. Parolacce, prese in giro, spintoni o botte, prevaricazioni e altri comportamenti riprovevoli, possono essere inquadrati nel loro insieme come bullismo, cioè azioni compiute intenzionalmente, ripetute e talora cronicizzate, con la presenza di ruoli definiti di vittime e di carnefici (il bullo il più delle volte si avvale di altri adolescenti quali gregari).

Il potere che sottende alla relazione di dominio-sottomissione determina una violenta asimmetria tra vittima e bullo, con impossibilità di negoziazione e di rispetto reciproco.
Viene meno il legame di fiducia tra adolescente e adolescente e soprattutto tra adolescente ed adulti, siano essi genitori, insegnanti, amministratori o personale ausiliario.
In situazioni di pericolo la fiducia negli adulti e la possibilità di chiedere loro aiuto, è determinante; infatti, di norma, la presenza di un adulto autorevole risolve immediatamente qualsiasi intenzione di bullismo ed è quindi la principale forma di prevenzione.
Va tuttavia sottolineato che il comportamento aggressivo tra adolescenti non sempre può essere definito come bullismo.
Il bullismo, infatti, va distinto dai comportamenti trasgressivi ed antisociali in adolescenza che possono essere inquadrati separatamente e come episodi singoli. In quest’ultimo caso si tratta di angherie, litigi e discussioni tra pari che non creano necessariamente un’ asimmetria nella relazione ed un vuoto di autorevolezza degli adulti; si può trattare di comportamenti legati alla difficoltà di apprendere e/o trovare un ruolo sociale, oppure di un tentativo d’individuare le modalità per prendere le misure tra sé e gli altri in un momento, qual è l’adolescenza, di grandi cambiamenti personali e sociali. In questa prospettiva l’aggressione verbale o anche fisica può essere inquadrata nell’ambito di episodi di conflitto tra coetanei, e quindi solo tra pari.
Quando il comportamento aggressivo è legato all’impulsività tipica della fase adolescenziale non si può dunque parlare di bullismo .
La specificità del bullismo, come abbiamo detto in precedenza, consiste invece in una relazione particolare tra una vittima ed un carnefice. Ciò che in primo luogo unisce la vittima al carnefice è una comune sfiducia nella possibilità degli adulti di capire i loro problemi e comporta di conseguenza un distanziamento da loro.
Il bullo non si fida del genitore perché teme di diventare a sua volta oggetto di derisione o di aggressività verbale o fisica. Rivolgersi al genitore è infatti impossibile in quanto il bullo si aspetta che questi reagisca contro di lui non permettendogli di entrare in contatto con i propri aspetti di vulnerabilità (dei quali non riesce a farsi carico). Egli teme che le sue emozioni creino irritabilità nel genitore più che una vera preoccupazione finalizzata al bisogno di comprendere il senso di azioni che esprimono un grave disagio.
Il bullo manca di “mentalizzazione” cioè di capacità di capire se stessi e gli altri in termini di emozioni, sentimenti e intenzioni.
Durante il trattamento del bullo si può osservare quanto egli sia carente dal punto di vista della capacità di provare empatia. Gabriella Giustino nella recensione al libro di Baron Cohen intitolato “La scienza del male” scrive che un punteggio zero negativo dell’empatia rende alcuni soggetti incapaci di capire la propria mente in termini di emozioni e sentimenti e di sintonizzarsi su quella dell’altro, che è trattato freddamente e cinicamente come un oggetto concreto e perciò può subire violenze per banali motivi. (vedi anche in Libri:La “Scienza del male”. L’empatia e le origini della crudeltà).

Anche la vittima non si rivolge al genitore in quanto è animata dall’aspettativa che questi venga ferito dalla sua vulnerabilità (in questo modo oltre ad essere ferito egli stesso finirebbe con il ferire l’oggetto di cui ha bisogno). La ferita narcisistica del genitore potrebbe poi dar luogo ad ulteriori situazioni di umiliazione: se il genitore della vittima si rivolge direttamente al bullo (o ai suoi genitori o alle autorità scolastiche) finisce con lo svilirlo ulteriormente. Ciò confermerebbe nell’adolescente- vittima la sensazione di essere “sbagliato”, che non se la sa cavare da solo e che crea problemi ai genitori in quanto li fa sentire umiliati, feriti e delusi.
Nel colloquio clinico la vittima di prevaricazioni imputa agli adulti in generale disattenzione, incoerenza, incapacità di assumere posizioni chiare e una certa insensibilità ai suoi problemi; mostra una scarsa fiducia in se stesso e un basso livello di assertività.
Il bullo, invece, nel colloquio minimizza i fatti accaduti, ne nega la gravità, ne presenta una percezione distorta (“non è successo niente”). Qualora vengano ammessi e verbalizzati i fatti, il bullo tende a non manifestare le esperienze affettive collegate ad essi. Non mostra sensi di colpa o dispiacere o vergogna. Si accorge del dolore e della sofferenza provocati, e della gravità del proprio comportamento, solo in quanto vede i propri genitori star male. A livello più profondo per il bullo la vittima, attaccata con tanta determinazione, rappresenta la parte debole di sé, intollerabile, da umiliare ed eliminare dal mondo per lasciare il posto all’eroe nato dalle sue ceneri.
Nel rapporto tra bullo e vittima si crea, da parte di quest’ ultima, una situazione d’identificazione con l’aggressore. Cristiano Rocchi sostiene che la vittima, sovrastata da un potere schiacciante e fuori controllo, non attiva una reazione di rifiuto o difesa, ma, soggiogata da una paura impotente, si sottomette alla volontà dell’aggressore. Come unica possibilità di sopravvivenza, la vittima abdica, rinuncia alla propria persona, consegnandosi all’aggressore ed identificandosi esattamente con ciò che egli si aspetta. Tende a sentire da un lato ciò che l’aggressore stesso sente, dall’altro ciò che l’aggressore vuole che la vittima senta. Può arrivare così ad anticiparne le mosse, per minimizzare il danno ed avere maggiori possibilità di sopravvivenza. Si viene a creare nell’adolescente-vittima una personalità “come se”. Questo è ben spiegato da Senise che afferma che “ il “come se” ha sempre una connotazione patologica.
WhatsApp e di You tube sono spesso i contesti dove il bullo può pensare di esaltare il suo operato: il “bullo” ad esempio pubblica su questi “social media” un video registrato con il telefonino, dove vengono esibite le sue gesta, o quelle eseguite dal suo gregario, nei confronti della vittima, cercando una sua ulteriore umiliazione. A volte è proprio il media stesso che viene utilizzato per esercitare il bullismo : serve per escludere, umiliare, ferire ripetutamente una vittima.
I partecipanti al gruppo di WhatsApp (spesso i compagni di classe) o i visitatori di “you tube”, a volte denunciano l’opera agli adulti di riferimento facendo emergere il fenomeno. Gli adulti significativi di riferimento a loro volta fanno entrare in gioco la giustizia minorile: quello che era iniziato come uno “scherzo” per diventare poi un atto di bullismo, ora diventa un “reato” (o più reati allo stesso tempo) quale stalking, lesioni, violazione della privacy, dando luogo all’affermarsi di un iter giudiziario.
E’ in questi casi che si può innescare una ricerca di aiuto, diretta o sollecitata dagli operatori sociali coinvolti. Questa richiesta, se ben accolta e analizzata, può evitare un destino. Una terapia può evitare che ci si avvii ad una carriera psicopatologica. Una terapia efficace richiede anche il coinvolgimento dei genitori, e può far ripartire una genitorialità consapevole in entrambi i soggetti in gioco.
Il coinvolgimento dei mezzi di comunicazione di massa da parte degli adulti interessati (giornali locali o simili) a scopo “educativo” è invece molto pericoloso poiché espone i ragazzi coinvolti ad una situazione di vergogna pubblica intollerabile e senza via d’uscita.

Bibliografia

Fonagy P. e AA. VV. Regolazione affettiva, mentalizzazione e sviluppo del sé. Cortina editore, 2010 Milano.
Nicolò A. M. (a cura di) Adolescenza e violenza Il Pensiero Scientifico editore, 2009 Roma.
Pra Baldi A. Pizzol G. (a cura di) “Indagine sui comportamenti e gli atteggiamenti verso i pari e gli adulti degli studenti di scuola media” Spazio Adolescenti 2006 Ulss 1 Belluno .

giugno 2015

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