La Ricerca

Sacerdoti Giorgio

9/09/14

Maestri della psicoanalisi

A cura di Antonio Alberto Semi e Giuseppe Moressa

Sacerdoti Giorgio (Padova, 1925 – Venezia, 2000)

Giorgio Sacerdoti è stato psicoanalista con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e direttore dei Servizi Psichiatrici della Provincia di Venezia, ove ha fondato l’Ospedale di giorno di ‘Palazzo Boldù’ per i giovani psicotici.

La vita

Giorgio Sacerdoti nacque a Padova il 3 gennaio 1925 da una famiglia di tradizione ebraica e si trasferì a Venezia negli anni ’50. Ebbe un’infanzia agiata, da adolescente fu grande appassionato di equitazione, che praticava nel parco di famiglia a Padova, e di voga all’inglese, che svolgeva presso la Società Canottiera patavina co-fondata dal nonno. Negli anni bui del regime fascista gli fu negato l’accesso alle istituzioni pubbliche, scolastiche e sportive. Riuscito a sfuggire alla persecuzione fascista e a quella tedesca, dopo la liberazione riprese gli studi universitari, laureandosi nel 1949 in Medicina e Chirurgia all’Università di Padova con il massimo dei voti. Nel 1952 si specializzò in Neurologia presso lo stesso ateneo, dove nel 1953 conseguì anche una seconda specializzazione in Medicina Legale e delle Assicurazioni.
Dal 1950 Giorgio Sacerdoti fu in servizio presso l’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Venezia, dapprima quale medico di sezione incaricato, quindi, dal 1952 -a seguito di pubblico concorso- quale medico di sezione effettivo e, dal 1960, in qualità Primario. Dal 1964 fu incaricato della vice-direzione e dal 1969 divenne Direttore dei Servizi Psichiatrici del Centro Storico di Venezia e sostituto del Direttore dei Servizi Psichiatrici della Terraferma veneziana. Alla fine degli anni sessanta fondò l’Ospedale di Giorno di ‘Palazzo Boldù’ per giovani psicotici. A partire dalla fine degli anni cinquanta dedicò parte dei suoi interessi alla trasmissione del sapere in ambito psichiatrico, psicoterapeutico e medico legale. Tra i molti corsi tenuti presso l’Università di Padova, si ricordano le lezioni di Psichiatria (libera docenza ottenuta nel ’59), Psichiatria Infantile (a. a. ’60-’61), Psichiatria Forense (a. a. ’62-’63), Antropologia Criminale (libera docenza ottenuta nel ’64) e Delinquenza Minorile (a. a. ’63-’69).
Nei primi anni ’60 iniziò la sua analisi personale con Cesare Musatti, diventando ordinario e poi didatta della Società Psicoanalitica Italiana. Fu profondo conoscitore di Freud e di molti altri Autori che soleva leggere in tedesco ed in inglese prima ancora che in italiano. Consapevole che l’opera di traduzione contiene sempre anche un certo grado di tradimento, nei suoi scritti citava spesso i testi in lingua originale. Per diversi anni fu l’unico analista didatta del Veneto e attorno alla sua persona iniziarono le prime attività del Centro Veneto di Psicoanalisi. Il 13 dicembre 1980 Giorgio Sacerdoti, assieme ad Anteo Saraval, Antonio Alberto Semi, Savo Spacal e Carla Rufina Zennaro, fondò il Centro Veneto di Psicoanalisi.
Di quei primi incontri, svolti nel salotto della casa di Sacerdoti e poi degli altri colleghi del neonato centro, si ricordano la grande ospitalità e la cura affinché tra i partecipanti si potesse instaurare un clima autenticamente accogliente, una sorta di alone affettivo che rendeva quegli incontri non solo occasioni di proficuo scambio di idee ma anche momenti estremamente piacevoli.

Il contributo alla psicoanalisi

Giorgio Sacerdoti è stato uno psicoanalista della “generazione di mezzo” degli analisti italiani. Fu nel contempo rappresentativo quanto appartato. Il suo pensiero psicoanalitico, profondamente radicato nella teoria classica freudiana, sapeva cogliere quanto di utile fosse contenuto nelle differenti teorizzazioni. Dalla lettura dei numerosi scritti, l’impressione generale che se ne ricava è quella del piacere per una ricerca precisa e originale. Il rigore terminologico che sempre lo contraddistingue appare uno dei pilastri sui quali poggiano i rapidi quanto illuminanti cambiamenti di prospettiva. È interessante seguire i fili che Sacerdoti tesse, perché questi conducono il lettore all’osservazione della complessità e mutevolezza dei fenomeni psichici, istituzionali e sociali, partendo da una base fornita da chiare definizioni teoriche, attraverso momenti di necessaria rottura.
Sacerdoti fu un esperto scopritore e costruttore di ponti. Un ponte potrebbe essere definito come una struttura pensata(1) e/o realizzata per superare un ostacolo che impedisce la continuità di una via di comunicazione. Si potrebbe aggiungere che un ponte esiste quando sono presenti alcuni elementi fondamentali come una via di comunicazione, cioè un desiderio di proseguire una certa strada perché effettivamente necessaria o utile, e un ostacolo che si frappone ad essa segnalando nel contempo la presenza di aree separate che possono essere collegate. Quindi una via, un desiderio, un ostacolo e delle differenze che per quanto uno lo voglia saranno sempre presenti, almeno finché il ponte sarà lì a testimoniarlo. Ed il pensiero di Sacerdoti è sempre volto a collegare e distinguere, proprio come fa un costruttore di ponti. Questa polarità è rintracciabile in tutta la sua opera, come una necessaria oscillazione tra poli – ad esempio realtà psichica/realtà materiale, conscio/inconscio, pulsione/relazione, pensiero clinico/pensiero teorico – a garanzia della complessità della realtà umana.
Il modo di procedere di Sacerdoti mette continuamente in evidenza come la scienza, e quindi anche la psicoanalisi, sia una impresa umana e come tale non potrà mai spiegare la totalità dell’esperienza’. Tuttavia, questo dato di fatto coesiste con l’esigenza di considerare la totalità, a patto che si tenga a mente che è un’impresa impossibile e che esistono dei limiti del pensiero, che molto preoccupavano il professore. Dogmatismo, scorciatoie mentali, irrigidimenti teorici ma anche specifici meccanismi difensivi quali la negazione e il diniego, finalizzati a impedire di considerare il tutto o a salvaguardare il senso di unità dell’Io. Per Sacerdoti la realtà umana è sempre più complicata di quel che riusciamo a pensare.
La sua originalità di pensiero gli permise di collegare, senza mai confondere, psicoanalisi classica e psichiatria. Nel lavoro di tutti i giorni, riuscì ad introdurre elementi umani e scientifici in modo tale da non negare né le dinamiche istituzionali, né quelle intrapsichiche. Un articolo del ’71, dal titolo “Fantasmi, miti e difese nell’assistenza psichiatrica”, illustra molto bene il collegamento tra la sponda psicoanalitica e quella psichiatrica. In questo lavoro, l’autore dimostra come lo strutturarsi dell’assistenza psichiatrica sia determinato dai tipi e dalle vicissitudini dei meccanismi di difesa nei confronti della malattia psichiatrica: “(…) un’importanza preminente possano avere le difese nel senso psicoanalitico del termine (…) in particolare, prendendo in considerazione il meccanismo difensivo di negazione, si può intravedere la possibilità di un’applicazione concreta del metodo psicoanalitico all’istituzione psichiatrica; evitando da un lato la tendenza a generalizzare quanto emerge dall’esperienza clinica individuale ai fenomeni collettivi (‘etnocentrismo professionale degli psicoanalisti’) e dall’altro la tendenza a negare la specificità del fatto psicopatologico (‘negazione istituzionalizzata’ degli ‘antipsichiatri’)” (Sacerdoti, 2008, 54).

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L’ospedale Psichiatrico provinciale San Clemente di Venezia

“Primo giorno. Ha dormito poco. Stamane, condotta nell’ufficio medico, risponde con un filo di voce e piange sommessamente. Pare sia possibile condurla alla realtà parlandole con tono energico! Allora l’espressione si ravviva e risponde. Quando però è il momento di riaccompagnarla a letto si oppone con tutte le forze, sempre piangendo.
Secondo giorno. Allettata. Ha conservato per tutto il giorno lo stesso atteggiamento di passività dolorosa. Rifiuta ostinatamente di alimentarsi. Completamente assorbita nel suo dolore, non parla, non ha cura di sé, ogni tanto singhiozza. 1° Accesso convulsivo completo.
Terzo giorno. Si guarda attorno con occhi smarriti, l’espressione tesa. Se le si rivolge una domanda sbuffa di continuo. È stato praticato enteroclisma evacuativo.
Quarto giorno. Ancora chiusa in se stessa. 2° Accesso convulsivo completo. Alla sera prende un caffè.
Quinto giorno. Ogni tanto piange e appare addolorata. Viene interrogata a lungo e fornisce risposte insignificanti quali: ‘come vuole che stia?’ oppure ‘cosa vuole che le dica?’
Sesto giorno. 3° Accesso convulsivo completo. Alla sera appare arrabbiata.
Settimo giorno. Si rifiuta di mangiare. Viene nutrita per sonda.
Ottavo giorno. 4° Accesso convulsivo completo. Alla sera si decide a mangiare.
Nono giorno. Passeggia per la sala. Quando vede i medici si mette a sospirare o a sbuffare ma non parla. Si mostra imbronciata”.

Questo è lo stralcio del diario clinico di una paziente – meglio “inferma” o “alienata”, perché così venivano identificati i pazienti del manicomio – ricoverata in stato confusionale all’Istituto di San Servolo(2) . Le cose procedono così finché la paziente non apparirà “normalizzata”, ovvero risponderà a tono, si alimenterà in modo corretto, smetterà di piangere. Ci vorranno dodici accessi convulsivi completi ed un incisivo trattamento farmacologico (Librium, Letargin, Serenase e molto altro ancora) per ottenere questo risultato. Questa toccante vicenda colpisce anche per l’impressione di assoluta “prassi” che se ne ricava. Questa persona, arrivata in stato confusionale all’Istituto, è stata “normalizzata” in circa due mesi di ricovero coatto. Dopo averle riconsegnato il proprio diritto di voto, tolto appena varcata la soglia del manicomio, la paziente venne riconsegnata alla città. In tutta la cartella clinica pochissimo spazio viene dedicato all’evento traumatico che ha portato al ricovero, l’inatteso tradimento e abbandono da parte dell’amato. La paziente si sforzava di far capire quello che provava: “come vuole che stia?” Parole insignificanti, commentarono i medici. Noi ora sappiamo che non esistono parole insignificanti e che si tratta sempre di un problema di traduzione. Tuttavia, al tempo della nomina a direttore di Sacerdoti la prassi era un’altra e con questi “usi e costumi” egli si dovette scontrare. L’arrivo della psicoanalisi fu un’autentica rivoluzione scientifica, metodologica e culturale. Il giorno dopo l’ottenimento dell’incarico di Direttore dell’Ospedale San Clemente, sintomaticamente l’elettroshock cessò completamente e i livelli di contenzione e di trattamento farmacologico diminuirono drasticamente. I cambiamenti occorsero a tutti i livelli. Il ricordo degli infermieri che lavoravano in quegli anni all’Istituto narra di una sorta di “effetto cascata” che coinvolse tutti gli operatori. L’approccio mutò da uno stile autoritario ad uno responsabilizzante. Sacerdoti era capace di un contatto profondo con le persone. Una certa signorilità, il grande rispetto e la delicatezza con i quali trattava i pazienti, la rapidità delle intuizioni riguardo a ciò che stava accadendo nel mondo interno, funsero da elementi catalizzatori anche per il personale. La psicoanalisi era arrivata nell’istituzione. Da lì a poco iniziarono le prime uscite dall’isola, a Venezia come fuori città: gli infermi e gli alienati divennero persone alle quali cercare di offrire una nuova prospettiva.

“Un quadro dipinto da una persona ricoverata all’Istituto di San Clemente ritrae l’ingresso dell’Ospedale con i pazienti affacciati al canale intenti ad osservare una regata”.

A ben guardare, faceva notare Sacerdoti, qualcosa risaltava agli occhi. Un gioco di prospettive. Alla tridimensionalità dei regatanti impegnati nella gara faceva da contrappunto la quasi totale assenza di prospettiva dell’isola, della chiesa e dei pazienti. Quasi per essere certo di farsi capire, il paziente aveva dipinto quel particolare pubblico sdraiato a terra .

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Dipinto di un paziente ricoverato all’Istituto San Clemente

Ecco come dovevano sentirsi i pazienti dell’Ospedale: i regatanti erano persone della città dotate di prospettiva mentre loro erano le persone di San Clemente, sdraiati a terra e senza prospettive. C’era quindi un prima, rappresentato dalla linea che separa la laguna dall’isola di San Clemente, e un dopo, vissuto come arresto del tempo, assoluto ed immodificabile. Ecco come Sacerdoti descrive l’autore del dipinto: “Da molto tempo (e fino alla morte), se gli si chiedeva quanti anni avesse, egli rispondeva dando l’età che aveva al momento del ricovero. Da quel momento il tempo non era più passato, non c’era più stata per lui una prospettiva, diversamente da prima” (Sacerdoti, 1976, 333).
Serviva un ponte, quindi, e Sacerdoti era un esperto in questo campo. L’idea che lo muoveva era quella di offrire le scoperte della psicoanalisi ad ogni persona che ne avesse avuto bisogno. A Sacerdoti e alle persone che con lui ebbero il privilegio e l’opportunità di lavorare spettò il compito di trovare le modalità via via più efficaci per riuscirci.
Di nuovo un quadro di un paziente ci appare illuminante

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Opera in tessuto di un paziente ricoverato all’Istituto San Clemente

L’opera, realizzata dal paziente annodando singoli fili di tessuto colorato rinvenuti qua e là nei locali del guardaroba, mostra la facciata dell’Istituto con i giardini ben curati che incorniciano l’ingresso principale. E’ proprio la grande accuratezza con la quale è stata rappresentata la facciata che ci permette di evidenziare un’importante sottolineatura dell’autore. Le finestre dell’Istituto non sono tutte uguali. Le differenze non sono quelle di forma o dimensione, ma la presenza o l’assenza di sbarre. Al secondo piano, a sinistra rispetto all’ingresso principale, l’autore chiaramente inserisce alcune sbarre alle finestre. Dietro quelle vetrate sbarrate, esattamente al contrario rispetto alla realtà esterna, trovavano posto gli alloggi del personale medico, la farmacia e gli ambulatori. In questo modo il paziente rappresentava l’esistenza di mondi scissi, di vere e proprie aree psichiche riconosciute come off limits: ci siamo noi, i pazienti e ci sono loro, i curanti. Evidentemente la faccenda può essere vista anche in un altro modo. Se le sbarre sono alle finestre del personale, chi è di fatto “dietro le sbarre?”.
“Bisogna vedere dottore … perché si può essere vivi o morti. Solo che si può essere vivi ma essere morti lo stesso: bisogna vedere chi hai intorno. Il manicomio dopo è diventato più bello”.

Queste sono le parole di una paziente che aveva vissuto il cambiamento dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale con l’arrivo di Sacerdoti. E accadde proprio ciò che raccontava. Passando per un attimo ad un livello metapsicologico, che tanto aveva a cuore Sacerdoti, sembra che le parole usate dalla paziente rievochino una pulsione di vita che finalmente trovava modalità di espressione e di legame. “Si può essere vivi ma essere morti lo stesso” a proposito dei destini dell’impasto pulsionale. Le persone ricoverate vennero finalmente riconosciute in tutta la loro complessità e per realizzare questo Sacerdoti si servì della psicoanalisi. Per l’insight della relazione con il paziente psicotico egli utilizzò, tra gli altri, i concetti di derivato pulsionale, regressione, principio di piacere, processo primario e di acting out. Proprio il tema dell’azione e della controazione – e cosa non è il diario clinico sopra riportato se non un’accurata cronistoria di acting e contro-acting – trovò un’importante applicazione. La consapevolezza che i problemi della relazione con il paziente psicotico si sviluppavano all’insegna dell’azione, e più propriamente attraverso l’identificazione e la controidentificazione proiettiva dell’azione provocata su loro stessi, permise la graduale formazione del pensiero degli attori in gioco. Attraverso il riconoscimento dei fenomeni di transfert e di controtransfert si attuava uno sforzo continuo per favorire un atteggiamento di effettivo ascolto. Il paziente poteva quindi essere riconosciuto, in un modo per così dire unitario, grazie all’introduzione del lavoro di équipe. Così ogni operatore, depositario di parti scisse del paziente, diveniva un elemento imprescindibile all’insight. Di pari passo, l’onnipotenza della precedente relazione curante-paziente, autentica formazione reattiva di una inconscia impotenza, lasciava il posto alla consapevolezza della complessità dell’individuo e al riconoscimento che se non si poteva fare tutto, qualcosa di importante poteva essere fatto. E di questo i pazienti man mano divennero consapevoli, il manicomio era diventato un posto effettivamente più bello. Ora Venezia era pronta ad accogliere le persone che solo poco tempo prima aveva dovuto isolare a San Clemente.

L’Ospedale di Giorno di Palazzo Boldù: nascita di un modello di assistenza psichiatrica a tempo parziale

Un chiaro esempio di istituzione psichiatrica pensata, realizzata e ripensata grazie al contributo della psicoanalisi fu l’Ospedale di Giorno di ‘Palazzo Boldù’ per giovani psicotici. Tale esperienza, fortemente voluta da Sacerdoti, fu in qualche modo legata e caratterizzata dalla sede veneziana. Come Venezia si caratterizza per essere una città anfibia circondata dall’acqua come elemento al contempo difensivo e connettivo, così l’esperienza dell’Ospedale di Giorno, seguendo l’andamento della città, fu anch’essa circoscritta, ma per ciò stesso ricca di dinamismo, tempestività e verificabilità, quindi anche potenzialmente idonea alla gemmazione . Quanto detto va visto anche dalla parte del mondo interno, con un isolamento che però doveva essere pronto a cogliere i momenti di rottura, come nelle attività creative e produttive. Pensato, ideato e fatto maturare con il minimo apporto dei diversi livelli amministrativi, il ‘Boldù’ divenne il primo centro psicoterapico pubblico in Italia. Non fu tuttavia un percorso privo di difficoltà. Basti pensare che l’allora amministrazione propose di realizzare l’Ospedale di Giorno, secondo il ben noto processo conservativo della coazione a ripetere, su di un’altra isola – l’isola di Poveglia – o come alternativa in zone periferiche della città. Alla fine Sacerdoti, coadiuvato dal dottor Giancarlo Cecchinato che poi diresse in modo magistrale il Centro, riuscì a realizzare la nuova struttura in un palazzo magnifico ubicato nel cuore della città. Nel sestiere di Cannaregio, a due passi da Rialto, nacque l’Ospedale di Giorno di Palazzo Boldù.

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Ingresso principale di Palazzo Boldù

Sacerdoti aveva ben presente che la sofferenza mentale era un problema di cronicità e non di acuzie. Il Centro Psicoterapico infatti non fu solo il tentativo di impedire la cronicizzazione dei nuovi pazienti ma fu anche l’espressione della volontà, attraverso un percorso di decronicizzazione, di curare le persone già ricoverate in manicomio. È possibile rappresentare il modello di assistenza del Boldù come una sorta di edificio su palafitte sorretto da un certo numero di sostegni di eguale importanza. Innanzitutto il palo della motivazione. Il personale che fu ricollocato all’Ospedale di Giorno proveniva dal manicomio ed era stato appositamente selezionato sulla base di caratteristiche personali e motivazionali. Dai medici agli infermieri, fino al personale amministrativo, tutti erano consapevoli che stavano per contribuire ad un progetto importante, unico ed altamente simbolico. Un altro sostegno importante fu quello della formazione del personale attraverso quella che oggi verrebbe chiamata “formazione continua”. Ogni giorno, a cavallo del turno della mattina con quello del pomeriggio, da una a due ore erano dedicate all’apprendistato, all’aggiornamento ed alla discussione clinica di gruppo. Inizialmente tale processo fu facilitato dalla conduzione di uno psicoanalista in qualità di supervisore esterno all’istituzione. E poi i molti pali costituiti dalle applicazioni della psicoanalisi alla pratica clinica di tutti i giorni. Dalla psicoanalisi di gruppo che Sacerdoti praticava proprio al Boldù, alle moltissime ore dedicate alla psicoterapia orientata psicoanaliticamente, fino al quotidiano contatto con il paziente letto attraverso i movimenti transferali e controtransferali, le difese, la tendenza ad agire e a controagire. Il rapporto con il paziente assumeva di fatto uno spessore umano e scientifico profondo.
Se l’arrivo di Sacerdoti a San Clemente poteva essere connotato come la venuta della psicoanalisi al manicomio, l’apertura del Centro Psicoterapico rappresentò lo sbarco istituzionale della psicoanalisi a Venezia. E con essa arrivarono anche i pazienti col loro carico di interrogativi.
È suggestivo ripensare ad uno dei pittori di San Clemente. Forse avrebbe dipinto un secondo quadro, magari riassegnando ad ognuno quello che dovrebbe essere uno dei diritti fondamentali dell’uomo, il diritto di avere una prospettiva.
Sacerdoti, esperto scopritore e costruttore, con Palazzo Boldù realizzò certamente uno dei suoi ponti più belli.
Nonostante l’impegno richiesto dalla direzione dei servizi psichiatrici, Sacerdoti garantì a se stesso lo spazio dell’analisi dedicandosi giornalmente alla clinica psicoanalitica classica. Questa scelta fu, in realtà, uno degli elementi principali che gli permisero di portare avanti il suo modo di pensare, progettare e lavorare nelle istituzioni. La stanza di analisi poteva essere pensata come una bottega o un laboratorio artigianale che gli garantiva la comprensione dei fenomeni psichici e l’osservazione puntuale di tutti quei processi intrapsichici (topici, dinamici ed economici) come anche culturali, che successivamente potevano trovare applicazione anche a livello istituzionale. Fu proprio in quella stanza che Sacerdoti mise in luce l’ironia come antidoto al fenomeno della polarizzazione nell’analista di parti megalomaniche o di grande incapacità. Un analista che può far uso dell’ironia, come lo stesso Sacerdoti faceva spesso e con gusto, relativizza il suo apporto all’analisi permettendo nel contempo di osservare controtransferalmente ciò che sta accadendo. Ed ancora dalla clinica psicoanalitica e dall’intreccio di questa con la riflessione teorica , va ricondotto lo studio sull’assimilazione degli ebrei come pericolo dell’assimilazione del soggetto alla cultura. In tutti i suoi scritti, come anche nel suo lavoro istituzionale, è possibile riconoscere l’applicazione della conoscenza maturata dal lavoro psicoanalitico con i pazienti. Il punto centrale è l’individuo, in lotta per sfuggire da un lato alla spinta pulsionale (intesa come linea del destino) e dall’altro lato a quella culturale (oggi forse ancor più minacciosa).

Note

(1)Un ponte può anche essere “dato”, cioè non essere realizzato intenzionalmente, come nel caso di un albero che cadendo tra una sponda e l’altra di un corso d’acqua ne permetta il collegamento. Questi ponti naturali pre-esistenti hanno tuttavia bisogno che qualcuno li scopra e li pensi, ovvero che ne riconosca la possibile funzione. In quel caso l’albero che unisce le due sponde cambia statuto e diventa un ponte. Come dire che a volte le cose devono essere riconosciute più che costruite.

(2)Il progetto della costruzione di un manicomio femminile da erigersi nell’isola di San Clemente di Venezia era stato predisposto attorno agli anni 1855-1857, durante la seconda dominazione austriaca. I lavori iniziati nel 1858 si protrassero a lungo fino ai primi mesi del 1873, e soltanto il 1 luglio dello stesso anno fu inaugurato. Concepito sulla base del modello del manicomio di Vienna, l’ospedale San Clemente divenne isola destinata a coloro che si voleva isolare.

(3)Sacerdoti G. (1982). Riflessi di Venezia sul lavoro analitico. Rivista di Psicoanalisi, 28, 1, 88-96.

(4)In seguito l’Ospedale di Giorno fu ribattezzato per motivi amministrativo-legali proprio “Centro Psicoterapico”.


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Sacerdoti G. (1987). Ebraismo e psicoanalisi davanti all’assimilazione. In: L’altra scena della psicoanalisi. Tensioni ebraiche nell’opera di Freud, Meghnagi D. (a cura di), Roma, Carucci.
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Sacerdoti G. (1987). L’ironia attraverso la psicoanalisi. Milano, Raffaello Cortina Editore.
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Sacerdoti G. (1989). Isteria. In: Trattato di psicoanalisi, vol. II, Semi A.A. (a cura di), Milano, Raffaello Cortina Editore.
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Sacerdoti G. (1993). Visioni psicoanalitiche delle realtà e stili di scrittura. Rivista di Psicoanalisi, 39, 3, 633-637.
Sacerdoti G. (1993). I paradossi della solitudine. Relazione all’Ospedale Civile di Venezia.
Sacerdoti G. (1994). Recensione a Défence de toucher ou la jouissance du dit. Flouroy O., 1994, Paris, Calmann-Lévy, Rivista di Psicoanalisi, 40, 4, 745-752.
Sacerdoti G. (1995). Introduzione a Tolleranza e intolleranza. Sacerdoti G., Racalbuto A. (a cura di), Torino, Bollati Boringhieri.
Sacerdoti G. (1997). Quali legami tra indifferenza, differenza e differimento? Colloquio psicoanalitico di Venezia. In: Sacerdoti G., Racalbuto A. (a cura di), 1977, Dunod Masson, Milano.
Sacerdoti G. (1999). Diritto a delirare, diritto a curare. Letto al Centro Veneto di Psicoanalisi.
Sacerdoti G. (1999). Verità storica e psicoanalisi. In: Racalbuto A. (a cura di), 2004, Verità storica e psicoanalisi, Roma, Borla.

Bibliografia su Giorgio Sacerdoti

Sacerdoti G. (2008). Scritti psicoanalitici. Borla, Roma.

Collegamenti in Spiweb:

– Centro Veneto di psicoanalisi: www.centrovenetodipsicoanalisi.it

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Giorgio Sacerdoti was a training analyst of the Psychoanalytical Society. He was also the director of the Psychiatric Services in Venice where he founded the daily Hospital ‘Palazzo Boldù’ for young psychotics. His approach was deep-seated in classical Freudian theory, yet with a look at what he found useful in other theories. As builder of bridges, he was able to connect without ever confuse different elements. This polarity can be traced throughout his work, as a necessary oscillation between poles – for instance psychic reality/material reality, conscious/unconscious, drive/relationship, clinical thought/theoretical thought – to guarantee the complexity of human reality.

Settembre 2014

La figura di Giorgio Sacerdoti raccontata in un video

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