La Ricerca

Self-disclosure

8/07/14

A cura di Ettore Jogan

Il termine self-disclosure (traducibile con autorivelazione) è entrato a far parte del linguaggio psicoanalitico negli ultimi anni e indica uno svelamento cosciente e voluto, da parte dell’analista, di qualche aspetto di sé al paziente. Questa condotta dell’analista entra in contrasto con il setting analitico tradizionale dove si richiede al terapeuta neutralità, astinenza e anonimato. Proprio a causa di questo contrasto il dibattito attorno a questo fenomeno e alla sua collocazione nella tecnica psicoanalitica è ancora aperto.

Il concetto è apparso nell’ambito della psicoanalisi nord- americana nel decennio 1990-2000, periodo in cui numerosi autori si sono dedicati all’argomento.

Dobbiamo inquadrare infatti questo concetto nel contesto dello sviluppo della psicoanalisi nord-americana che, partendo dagli assunti della Psicologia dell’Io (con un’impostazione ancora positivista e l’analista neutrale e “obbiettivo”) è approdata a paradigmi più orientati alla relazione dove l’analista ha un ruolo interattivo e svolge un compito essenziale nell’accompagnare lo sviluppo psichico del paziente.
L’analista non è più considerato “schermo opaco” e neutrale ma costruisce, insieme al paziente, il processo terapeutico. Negli Stati Uniti questo sviluppo è stato influenzato dal contributo della Psicologia del Sé di Kohut e da analisti appartenenti alle correnti di pensiero note sotto la definizione di interpersonalisti e intersoggettivisti.

In Europa invece, in estrema sintesi, il pensiero psicoanalitico di Freud si è progressivamente arricchito di altri paradigmi tra cui quello della “teoria delle relazioni oggettuali” di scuola britannica che ha comunque influenzato a sua volta alcuni analisti nord-americani.
Gli analisti intersoggettivisti americani sono dell’opinione che l’anonimato dell’analista inteso in senso tradizionale è un mito difficilmente sostenibile e che l’analista entra sempre nel rapporto terapeutico con la sua soggettività (Renik 1993,1995). Nella condizione più neutrale egli si autodisvela comunque (self-revelation) attraverso i suoi atteggiamenti, comportamenti, vestiario, arredo dello studio, scelte e modalità interpretative.

Questo tipo di disvelamento rientra in manifestazioni non consapevoli e non determinate, attraverso le quali il paziente riesce in ogni caso a conoscere alcuni aspetti della persona reale dell’analista.

Per brevità di spazio non riesco citare le posizioni di tutti gli autori americani che si sono soffermati sul tema.
A grandi linee mi sembra di capire che ci sono degli analisti che si schierano nettamente contro la self-disclosure (Hanly, 1998) difendendo il setting tradizionale e ci sono degli analisti che sostengono la self-disclosure come un nuovo strumento tecnico da poter usare accanto ad altri approcci, come p.es. il già citato Renik.

Poi c’è un gruppo di “moderati” che ammettono la possibilità di poter ricorrere alla self-disclosure, ma con notevole cautela e dosaggio ben calibrato (Jacobs, 1999).

I primi si preoccupano, attraverso l’anonimato del terapeuta, di tutelare il processo terapeutico e favorire le dinamiche proiettive transferali del paziente (che, con un terapeuta troppo conosciuto sul piano reale, emergerebbero con difficoltà) . In questo modo dichiarano di proteggere anche le specificità della terapia psicoanalitica.

Secondo questi analisti la self-disclosure potrebbe rappresentare una difficoltà controtransferale dell’analista e talora essere espressione di una sua necessità narcisistica di rivelarsi.

I sostenitori della self-disclosure criticano invece l’eccessiva neutralità e anonimato del terapeuta perché sostengono che questa posizione (che può essere vissuta dal paziente come rigida, fredda e distante) inibisce il processo terapeutico e blocca le libere associazioni del paziente.

Per quanto riguarda l’ autorivelazione dell’analista, possiamo prendere in considerazione varie modalità e vari contenuti. Questa può riferirsi a domande dirette provenienti dal paziente, a comunicazioni spontanee dell’analista che fanno parte del vissuto controtransferale, ad ammissioni dei propri errori oppure ad esperienze personali che sono in qualche modo collegate al materiale clinico del paziente.

Sarebbe auspicabile che l’analista, quando decide di autorivelarsi, lo faccia sempre in funzione del paziente e della promozione del processo terapeutico e che riesca, attraverso l’autoanalisi, a bloccare l’ eventuale espressione di bisogni personali.

Con alcuni pazienti e in alcuni momenti dell’analisi queste auto rivelazioni dell’analista funzionerebbero come elemento che stimola il processo terapeutico dove, fra l’altro, l’analista può funzionare come modello d’identificazione e promuovere una maggiore apertura e migliore comunicazione da parte del paziente.

In Italia si sono occupati di questo tema alcuni autori ( es. Meterangelis e Spiombi 2003, Turilazzi Manfredi e Ponsi 1999, Ponsi 1999).

In particolare Turilazzi Manfredi e Ponsi si chiedono se la partecipazione soggettiva dell’analista al processo terapeutico sia qualcosa di diverso rispetto al controtransfert. Per certi aspetti potrebbero essere due concetti sovrapponibili mentre per altri versi non lo sono. Forse il controtransfert con la sua connotazione “contro” potrebbe avere sempre il significato di una reazione al transfert, mentre la partecipazione soggettiva comprenderebbe un coinvolgimento personale dell’analista in senso più complessivo.

A mio avviso la self-disclosure è da prendere in considerazione, sempre in modo moderato e con cautela, con i pazienti gravi, poco strutturati, con notevoli problemi di deficit e non solo di conflitti, che hanno bisogno di vivere con il terapeuta un’esperienza relazionale costruttiva e positiva accanto a tutta l’esperienza transferale negativa che spesso può emergere solo dopo che si è stabilita un’ alleanza terapeutica abbastanza sicura. Con questi pazienti è doveroso, anche se molto difficile, oscillare fra la funzione di oggetto transferale e nuovo oggetto relazionale che cerca di colmare i deficit evolutivi più precoci.

La funzione più classica di analista anonimo, neutrale che favorisce le proiezioni transferali del paziente e le evidenzia attraverso le interpretazioni, risulta talora con i pazienti più compromessi insufficiente. In questi casi, nel tentativo di costruire con il paziente una relazionalità sufficientemente valida, la self-disclosure acquista un senso.

Bibliografia

Hanly C.: Reflections on the analyst’s self-disclosure.Psychoanalytic Inquiry, 18, 1988.
Jacobs T.J.:On the question of self-disclosure by the analyst: Error or advance on technique?Psychoanal Q. 68, 1999.
Meterangelis G., Spiombi G.: La soggettività dell’analista e il grado della sua partecipazione alla costruzione della relazione analitica: il problema della self-disclosure.Riv. Di Psicoanalisi, 3, 2003.
Ponsi M.: La partecipazione dell’analista: un tema emergente nella psicoanalisi nord-americana.Riv. Di Psicoanalisi, 1, 1999.
Renik O.: Analytic interaction: conceptualizing technique in the light of the analyst’sirreduciblesubjectivity.Psychoanal.Q. ,62,1993.
Renik O.: The ideal of the anonymus analyst and the problem of the self-disclosure.Psychoanal.Q., 64, 1995.
Turilazzi Manfredi S., Ponsi M.: Transfert-controtransfert e intersoggettività. Contrapposizione o convergenza?Riv. Di Psicoanalisi, 4, 1999.

Luglio 2014

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

Self-disclosure di C. Rocchi

Leggi tutto

Ideale dell’Io

Leggi tutto