parole chiave: letteratura, libri, passione, impegno civile
Di nome faceva Arturo
di Remo Rapino (Città nuova, 2025)
recensione di Daniela Federici
E come è sgomento uno che ha da volare
e viene da un grembo.
Rilke, Elegie
Arturo Sabatini è un manovale a giornata, un lavoro di fiato grosso, di sabbie e cemento in spalla fra silenziose imprecazioni, ripensamenti e voglia di vita altra. Dopo la caduta dall’impalcatura di un cantiere non era più stato lo stesso. Quando il giorno imbruniva e i pensieri venivano sgomitando dal cuore alle labbra e gli danzavano in tondo, o la notte, occhi inchiodati al soffitto, era tutta una malta di nervi e sussulti a rivederla venir giù la sua carne secca, come una pastafrolla, e ancora sentiva la sua voce d’animale, un urlo a sgarrare l’azzurro e il corpo incrociato in terra. Si rivedeva ogni volta, un povero cristo a quattro passi dal regno di Dio padre, appena un soffio, un fiato grande di polvere, manco il tempo di una bestemmia, una preghiera. Nessun conforto, neanche piangere aveva potuto in quel silenzio di ricatti per tenersi il lavoro.
A quella mala terra aveva dato le spalle alla fine, e villaggio dopo villaggio, mangiando polvere e cicoria, con la sua camminata sciancata per la gamba più corta, era arrivato fino a quel mare dove la terra moriva felice, con i suoi fazzoletti di schiuma, i richiami dei delfini di passaggio, in lontananza le lampare a specchiarsi nell’acqua scurita dalla notte.
Era stato un bel vedere dopo tutta quella fatica di lacrime ingoiate di nascosto, si sa che prima o poi, le notti si fanno albe e ogni cosa ritorna normale e svanisce la paura. Lì aveva ricominciato Arturo, povera ombra di muro, sempre la calcina fra le dita, un rosario di giorni tutti uguali, messi in fila ai margini della vita.
Una sera, tornando a casa con il suo passo sfasciolato, incappa in un libro che aspettava sul tronco tagliato di un albero malato … i fogli frullavano come le ali esauste dei passeri a fine giornata, quando all’improvviso lasciano i rami per altri luoghi, quelli che gli uomini legati alle certezze di terra riescono a malapena a immaginare.
Lui che sapeva leggere a stento ma che dentro custodiva un’anima che avrebbe voluto volare, è preso da in incantamento: lo tenne tra le mani quasi avesse preso una farfalla, di quelle bianche, semplici che non sanno mai da che parte volare. … tutt’intorno era silenzio e solitudine, pure il vento era cessato. Ogni cosa sembrava essere in attesa. Un’agitazione di sangue quando inizia a leggere: Di nome faceva Arturo… Un prodigio, un segno del destino quel libro, magari veniva pure fuori una qualche cuginanza con questo tipo che aveva passato il mare con un bastimento pieno di poveri cristi, cafoni e muratori, e s’era piazzato in qualche paesetto dell’America. Una piccola felicità da mettersi in tasca, la via di casa cantata con un’inezia di voce, una sera che non è più come le altre, odore di nuovo, come se qualcosa stesse per cambiargli la vita. Tutte quelle parole in fila a parlare, a dirgli storie come un amico che ti scrive da un paese lontano, raccontando di antiche solitudini tra le pietre di un paese che pareva proprio il suo. La stanchezza che svanisce davanti alla curiosità e l’indomani, nell’andare al lavoro, sentire il corpo più leggero: gli sembrava una cosa più larga la vita, quasi si sentisse gettato in una festa, lo accompagnavano nuove voci, non era più solo. Una storia cui tornare, la sensazione, per la prima volta, d’essere uguale agli altri. «Guarda quante cose si possono fare», si diceva, «pure con questa camminata sciancata, con queste scarpe sporche e i pensieri tristi, andare e vedere cose mai viste. Il mare ad esempio, un libro, il mio nome nel libro come se ci fossi io, proprio io dentro le pagine».
Le orme dei poeti potevano cambiare la faccia intristita della terra, che poi, di ragioni per essere triste ne aveva il mondo, con tutte quelle vite venute su proprio male. Arturo tornava a casa, prendeva fiato per far posto a nuove parole, ai paesaggi di luoghi invisibili, che forse c’erano e forse no, ma bisognava, in ogni caso, andare, cercarli e trovarli in qualche modo.
Con quella fame di storie, di una lingua con cui dire il suo nome, Arturo scopre le stanze di un luogo che raccoglieva tutto il buono e il cattivo della vita, una cattedrale che gli faceva girare la testa e l’anima. E lì incontra Florinda, la bibliotecaria, che aveva fatto della sezione letteratura la sua isola dove vivere. Un groviglio di radici storte, forse simili, li accomunava. Florinda accoglie paziente la passione buffa di quel novello lettore che raccontava senza virgole né punti le storie che aveva letto,ogni tanto incagliando le parole. In quel paradiso Arturo tornava il diligente scolaro della rabberciata scuola di Casal del Campo, a bocca aperta di fronte al maestro buono, che raccontava ai ragazzi la vita, senza dimenticare di dire che vivere può fare anche male, che la storia è la storia, ha i suoi destini, come la vita che non la si può cambiare a piacimento.
Perché anche questo insegnano i libri: la realtà. Le costruzioni fantastiche che attenuano la durezza del reale non sono pura consolazione ma apprendistato al vivere, favoriscono l’identificazione, i processi con cui la nostra mente addomestica e trasforma l’alterità e l’inquietante. È nell’eccedenza dell’immaginazione che il reale può essere trasceso e reinventato oltre la sua concretezza e la sua univocità, per aprirci al dubbio, al mistero, al non conosciuto. È in quell’appercezione creativa che l’essere umano vive il sentimento di esistere (Winnicott, 1974) e può evolvere.
Per Arturo ogni libro era sua madre, forse pure suo padre sparito nel nulla, tutta la sua famiglia, l’amicizia vera, difficile da trovare, l’amore non ancora trovato, la bellezza, tutta la vita non vissuta e che avrebbe voluto vivere. Era convinto che chi scrive, scrive, in ogni caso, di se stesso, come chi legge, cerca, nelle parole degli altri, sempre qualcosa di sé.
A questo servivano i libri, a sfogliare le storie infinite che uomini del mondo raccontavano ad altri uomini dello stesso mondo perché ognuno riconquistasse la propria vita con la ragione o con la forza dei giusti sentimenti.
E allora perché non creare un cortile di parole per leggere storie alla gente delle sue borgate, la coda della fila, coloro che, come lui, non hanno niente e inventano favole e canzoni per vivere meglio; raccontare di sogni mirabili e pianeti lontani, di sentimenti incapricciati e sguardature ardite sul mondo, dell’umiliazione e della speranza, degli occhi che non riescono a non vedere, delle voci che non riescono a tacere di fronte alle ingiustizie della vita e del mondo, delle terre dimenticate, uno spazio dove un uomo può anche diventare un eroe e non avere la paura di esserlo, per dare il suo piccolo contributo a rimettere dritto lo storto del mondo.
Perché la gente che non inventa, che non coltiva fantasie, non esiste.
Quello di Remo Rapino è un libro poetico, garbato, ispirato, una storia sulla forza dei sentimenti, sulla solidarietà, sul pensiero e la curiosità come strumento di trasformazione, è una passeggiata fra gli Autori capaci di toccare e lasciare un segno, una dichiarazione d’amore alla potenza delle storie, un’affabulazione che ha gran cura delle parole, che conosce la magia dei sogni e delle favole per evocare il potere della comunanza umana, per aprire orizzonti di senso, speranza, impegno civile.
Questo era il suo modo di cambiarlo il mondo, guardarlo con occhi diversi, contemplarlo in silenzio, a cuore vivo, pronto all’ascolto.
La dimensione morale del romanzo è centrata sull’esperienza interiore, sul valore della letteratura per addestrare a una ricettività all’esperienza attraverso il rispecchiamento, per dare voce a ciò – e a chi – non ne ha, per comprendersi e allargare i propri orizzonti.
Non è solo fortuna se un uomo, sapendo guardare, impara a cercare.
Una galleria di personaggi toccanti circondano il sogno di Arturo di un luogo che accolga le storie, ne abbia cura e possa trasmetterle, un’isola di bellezza nel mare largo dei giorni, tutti in viaggio a portar mattoni per un mondo migliore, e a fare più buona e gentile la terra con le sante parole dei libri di storie e i sentimenti della poesia. Perché a questo servono i libri: a restituire, in qualche modo, quanto la vita ci toglie, per non restare con occhi spenti, addosso solo una serie infinita di frane, calanchi di tristezze, di addolorati silenzi.
È un realismo sociale, quello di Rapino, che insieme a una dimensione visionaria fa risuonare la sua umanità ai margini con le fatiche e le durezze della vita di tutti, perché sa accostarsi al quotidiano degli atti minimi e sollevarlo dall’insignificanza, mostrando il valore della vulnerabilità e della compartecipazione, facendone la forza per un riscatto sociale e una resistenza collettiva a contrastare l’esclusione e la sopraffazione.
Noi, e con noi Arturo, siamo quello che siamo stati, non altro possiamo pretendere. In certi momenti ci accade di pensare di essere fuori posto, quasi inutili nel cerchio del mondo. Ma il cerchio sembra solo che lo sia, rotondo. Solo a volte lo è. Eppure qualche volta siamo stati anche il sale della terra. Solo a pensarla questa illusione ci aiutava a vivere. Per questo esistono i sogni.
Un libro deve frugare nelle ferite, provocarle, non lasciarci com’eravamo prima di leggerlo; questo suggerisce l’esergo che l’Autore trae da Cioran. La narrativa come via per la ricerca dell’umano, per lo sviluppo di un più ampio e vitale senso di sé, non è solo terra di incantesimi ma una fondamentale esperienza educativa, accrescitiva e curativa delle nostre anime.