Cultura e Società

“La donna che aspettava” di A. Makine. Recensione di D. Federici

2/06/25
"La donna che aspettava" di A. Makine. Recensione di D. Federici

Parole chiave: #alterità, #narcisismo, #temporalità, #Russia

La donna che aspettava

di Andrei Makine (Einaudi, 2006)

Recensione di Daniela Federici

…voleva sognarlo con minuziosa interezza
e imporlo alla realtà.
Questo progetto magico
aveva esaurito l’intero spazio della sua anima.

Borges, Le rovine circolari

“Prima ci sono la curiosità, la divinazione, la sete di confessioni. La fame dell’altro, l’attrazione per i suoi sotterranei. Decifrato il segreto arrivano le parole, spesso pretenziose e categoriche, che dissezionano, stabiliscono, classificano. Tutto diventa comprensibile e rassicurante. Allora può cominciare la routine di una relazione o di una indifferenza. Il mistero dell’altro è addomesticato. Il suo corpo è ridotto a una meccanica carnale, più o meno desiderabile; il suo cuore a un inventario di reazioni prevedibili. In realtà questa fase è una specie di assassinio, perché uccidiamo quella creatura infinita e inesauribile che abbiamo incontrato. Preferiamo avere a che fare con una costruzione verbale piuttosto che con un essere vivente…”

Questo affascinante romanzo breve di Makine è un affresco in movimento che pare raffigurare la pulsione di sapere che ci abita, la necessità di rendere conosciuto ciò che percepiamo, di ritrovare una similitudine rassicurante con l’altro, il ritorno all’unità che il narcisismo sempre reclama. Un racconto che è un meccanismo letterario perfetto a evidenziare quanto l’essere umano sia incline a piegare l’altro alle proprie visioni, a neutralizzare ogni dimensione ‘disordinante’ o interrogativa che l’alterità ci rispecchia.

Unione Sovietica anni ’70: un giovane scrittore lascia il clima culturale imbolsito di Leningrado per l’opportunità di trovare nuovi stimoli facendo ricerche su usi e costumi di una remota regione del mar Bianco. A Mirnoe trova un villaggio svuotato dalla guerra e conosce Vera, una maestra elementare che, oltre alla sua piccola classe di bambini, si dedica alle anziane rimaste sole fra i boschi. È una donna mite e forte, che ogni mattina si reca a un incrocio di strada a una cassetta delle lettere inesorabilmente vuota: trent’anni prima, quando lei ne aveva 16, il suo amore era partito per la guerra promettendole che sarebbe tornato. Le ragioni di quella lunghissima attesa sono per il protagonista un enigma che vuole decodificare.

Una donna così intensamente destinata alla felicità… che sceglie, quasi con leggerezza, la solitudine, la fedeltà verso un assente, il rifiuto di amare…

Aver indovinato la vita segreta di una donna che aveva l’età di mia madre, averne formulato il destino in poche frasi tornite mi riempiva di un piacevole orgoglio. … e a un tratto ho capito che nessuna dialettica dell’anima avrebbe saputo dire il segreto di quella vita.

La voce narrante è il flusso di coscienza del giovane scrittore, che pur riconoscendo fallace la pretesa del sapere sull’altro – che nega il nocciolo inconoscibile di ogni psiche – nondimeno, a ogni rivelazione che mostra un divario dalla mappatura che pensava di aver colto con i suoi pensieri, riparte alla ricerca di una migliore verità di ciò che gli si riflette, irretito dalle sue stesse costruzioni.

La storia, tessuta con una prosa elegante e avvolgente, piena di suggestioni paesaggistiche, è in questo pendant. Makine, autore di origini russe naturalizzato francese, che scrive in francese, è come dipingesse la temporalità insieme all’oscillare della mente, che osserva, medita e costruisce instancabilmente.

Mi ha ricordato il racconto di Borges, Rovine circolari, in cui il misterioso protagonista è un mago impegnato a modellare la materia incoerente e vertiginosa di cui si compongono i sogni, e lentamente negli anni, ne trae un cuore, e poi organi, ossa, sangue, fino a generarne una creatura perfetta. Lo percepiva, lo viveva, da molte distanze e sotto molti angoli.

Ma una volta dato vita a quel ‘figlio’, teme che possa scoprire la sua condizione di mero simulacro. Non essere un uomo, essere la proiezione del sogno di un altro uomo: che umiliazione incomparabile, che vertigine!

Quando alla fine la morte viene ad assolverlo dalle sue fatiche, con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era una parvenza, che un altro lo stava sognando.

Creature plasmate da qualcos’altro al di là del proprio illusorio governo. Non siamo poi fatti tutti anche di questo?

Cosa porta Vera a restare legata a quella promessa, a un’attesa che intorno a lei suscita il rispetto quasi sacro che si riserva a un voto?

Perché l’uomo che deve arrivare arriverà. Altrimenti l’amore è solo un bicchier d’acqua da bere d’un fiato” – risponde lei.

Chi fra quegli esuli non avrebbe desiderato essere atteso con tanta devozione? E per le donne, rese orfane d’amore da una guerra che aveva preso mariti e figli? Se si fosse venuto a sapere che la fedeltà di Vera per il suo soldato era stata infranta da un nuovo amore, il loro mondo costruito sul culto dei caduti sarebbe crollato; dall’altro, come donne che avevano sofferto tanta solitudine, non potevano che augurarle di essere amata, anche a costo di cedere a un amore intempestivo, tardivo e irrispettoso delle tradizioni, un amore che l’avrebbe salvata e persa al tempo stesso.

Incarnava lo spirito della sua terra o era stata travolta dagli eventi e poi lasciata indietro dalla Storia senza possibilità di andare oltre quella promessa? Non aveva saputo fare il lutto dell’integrità di un ideale o aveva scelto una vita semplice e dedicata?

Come si può inquadrare un altro con la ‘pretesa’ di capire?

Mentre esplora quelle opzioni, il giovane scrittore sembra incontrare Vera in ‘un’idea’ di lei, nello sfocamento dei confini di chi, più che interessato a conoscere l’altro nella sua soggettività, sembra bisognoso di trovarvi un appoggio per colmare lacune e regolare una considerazione di sé. Lui, che fino a quel punto della sua vita ha la sensazione di aver schivato, per vigliaccheria, il momento in cui il destino si incarna in un luogo, in un volto, lui che sembra un sonnambulo nella propria esistenza, confuso circa i sentimenti e le intenzioni – come se non dovessi sapere dove andiamo , esposto a repentine oscillazioni del giudizio.

È come se l’assillo interiore sull’enigma di Vera fosse una distrazione da ciò che ancora non conosce di sé e al contempo un mezzo per scoprirlo, per indirizzare il tempo sospeso della sua ‘attesa di diventare’. Una sorta di difficoltà a impegnarsi, a definirsi, forse l’intento di farsi definire dall’altro – la scena con cui si chiude la storia è superba nel suo nitore.

Il gioco di specchi di questo romanzo, fra un enigma e il suo investigatore, con quel centrarsi sulla naturale spinta alle costruzioni interpretative della realtà psichica dell’altro, se è una questione che ci riguarda tutti, certo è particolarmente intrigante per gli analisti che se ne occupano per mestiere. E concretizza in modo mirabile il potere della letteratura ad inspessirci in profondità come persone. Perché mentre il protagonista cerca di comprendere il mistero che avvolge l’anima di un’altra persona (‘Vera’, nel sentore edipico di una donna al di là di ogni desiderio che ha l’età di sua madre: quale mistero più originario!), il romanzo sollecita il lettore a entrare in uno spazio dove esercitare la propria immaginazione su entrambi i personaggi e riflettere in modo critico, lavorare emozioni e significati confrontandoli con la propria esperienza, per poi comprendere di sé attraverso quelle proiezioni, ascoltare cosa e come risuona, che senso attribuire alle vicende, per quali sviluppi parteggiare. È un esercizio che arricchisce.

L’importanza del pensiero per affrontare la vita, Vera glielo evidenzia una mattina in cui il giovane scrittore va a sedersi in fondo alla sua classe e ascolta un bimbo leggere il suo temino: mentre passeggiava nel bosco ha disturbato il sonno di una farfalla già nel suo riparo invernale fra le foglie e, accorato e disorientato, si chiede con un muto rimprovero: dove si sarebbe rifugiata ora, durante le tempeste di neve?

Lo riconosce come uno dei figli dell’uomo che qualche settimana prima si era impiccato, lo aveva visto in mezzo agli altri, con lo sguardo fisso, senza lacrime, che poi era scappato disperato attraverso un terreno incolto. Vera rassicura amorevolmente il bambino che quella farfalla troverà un altro luogo e poi, mentre rientrano a casa, racconta allo scrittore: “qui l’unico futuro possibile è la fuga. Non viviamo neanche al passato, ma già al trapassato remoto. I ragazzi andranno via, in qualche città dove il sogno sarà un cantiere con il fango fino alle orecchie… Ma vede, a volte mi dico che qualcosa di queste foreste la porteranno comunque con loro. E anche delle nostre lezioni. Una farfalla svegliata a ridosso dell’inverno. Se il piccolo Lëša l’ha pensato, sicuramente ne conserverà la traccia. Nonostante la morte del padre alcolizzato, nonostante il fango delle città in cui si immergerà presto. Nonostante tutto. Lo so, non è molto. Eppure sono sicura che questo potrebbe salvarlo. Spesso basta così poco per non sprofondare.”

L’importanza del pensiero per una vita con i suoi colpi e i rifugi da trovare, per le scelte da fare che risentiranno dei condizionamenti profondi e dell’idea che abbiamo del mondo, di ciò che pensiamo giusto, dei nostri desideri.

Vera ha scelto una vita e un prendersi cura che richiama il protagonista di “Perfect day” (di Wim Wenders, Giappone-Germania 2023), altro splendido esempio del modo squisitamente personale di dare forma a ciò che ha senso.

E il giovane scrittore cosa impara dell’esperienza che vive in quel paesino?

Il tempo di Mirnoe, quel tempo sospeso, a poco a poco mi inghiottì. Mi dissolsi nelle impercettibili gradazioni della luce autunnale, in quella stagione che aveva come unico scopo l’oro avvizzito delle foglie, il fragile merletto della brina, la mattina all’alba sulla vera di un pozzo, o la caduta di quella mela da un ramo spoglio, in un silenzio decantato al punto da rendere udibile il fruscio dell’erba sotto un frutto caduto. In quella vita dimenticata dal tempo tutto era insieme grave e leggero.

Forse apprende che siamo solo noi a poter essere dimentichi del tempo, perché intanto lui scorre, indifferente ai giochi delle nostre illusioni. E quando si ritrova al crocevia fra l’ebbrezza gelida di quell’incanto e lo slancio della partenza, il protagonista capisce che deve chiedersi di sé.

Impara che quel che più possiamo comprendere della vita, lo comprendiamo da dentro di noi.

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