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23 gennaio 2016 CVP Pediatria e Psicoanalisi nel pensiero di Renata De Benedetti Gaddini

10/03/16

Dipartimento di Salute e del Bambino

Università di Padova

Il 23 gennaio scorso a Padova, nel Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università degli Studi, si è tenuto un seminario dedicato a Renata De Benedetti Gaddini, pediatra neuropsichiatra e psicoanalista scomparsa nel 2013, il cui pensiero resta di importanza fondamentale per la conoscenza e la comprensione  della psiche umana nelle prime fasi della sua evoluzione.

Il Seminario è nato per iniziativa della dott.ssa Polojaz, presidente onoraria della associazione A.R.C.A.D.I.A., la quale ha condiviso per molti anni il pensiero e l’amicizia della professoressa Gaddini e della sua famiglia. Vlasta Polojaz ha affiancato a sé il gruppo di colleghi con i quali è in realizzazione l’archivio digitale dei contributi teorici giunti fino a noi. Memore dei contatti avuti da Renata Gaddini durante gli anni della sua attività padovana, ha voluto presenti anche l’Università di Padova e il Centro Veneto di Psicoanalisi, nelle persone di Emilia Ferruzza  (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione),  Chiara Cattelan (Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino) e Maria Pierri (Segretaria Scientifica del C.V.P. ). La partecipazione di Andrea Gaddini ha portato anche la memoria di Eugenio Gaddini, con il quale Renata ha  condiviso la vita famigliare e professionale.

Dopo i saluti di benvenuto delle autorità ospitanti ha preso la parola Vlasta Polojaz,  esponendo l’intento che ha animato la realizzazione del Seminario:  ricordare Renata De Benedetti Gaddini e il suo pensiero, presentando i concetti da lei formulati  tuttora validi e utilizzabili nella clinica.

E’ stato presentato un ampio profilo biografico. Le interessanti diapositive che lo corredano sono state preziosa testimonianza di una vita intensa, ricca di contatti, caratterizzata da un’inappagabile curiosità, spinta alla conoscenza e alla ricerca.

Nata a Torino nel 1919, Renata De Benedetti studiò medicina a Roma, dove conobbe e sposò Eugenio Gaddini, matrimonio dal quale nacquero i figli Silvia e Andrea. Fu con Eugenio Gaddini che scoprì il pensiero di Freud, “attraverso i libri che si trovavano nelle bancarelle”, diceva. Dopo la Specializzazione in Pediatria si trasferì per alcuni anni (1947/1949) negli Stati Uniti, paese nel quale ebbe modo di venire a contatto con eminenti studiosi del mondo psicoanalitico (Brazelton, Greenacre e Mahler fra i tanti).

Tornata a Roma, insegnò alla facoltà di Medicina e nel 1950 fondò con intenti innovativi il Centro di Igiene Mentale della Clinica Pediatrica, dove si dedicò alla clinica e alla formazione del personale.

Nel 1956 a un congresso di Pediatria a Copenhagen incontrò Winnicott, con il quale sentì una corrispondenza di pensiero e interessi. Da allora iniziò un legame professionale e personale che resta testimoniato dallo scambio epistolare fra i due durato fino alla morte dello psicoanalista inglese. E’ tramite Renata Gaddini, infatti, che il pensiero e la presenza di Winnicott sono giunti in Italia.

A Londra Renata Gaddini frequentò Anna Freud, nella casa della quale si tenevano gli incontri di un gruppo di studio di pediatri che discutevano di casi difficili.

E’ molto interessante questo profilo biografico, perché vengono anche ripercorse le corrispondenze che Renata Gaddini trovava fra il suo pensiero e quello degli studiosi con i quali veniva a contatto: una testimonianza della rete di riflessione teorica che si stava  costruendo in campo psicoanalitico nel secolo scorso.

Dal 1978 al 1984 Renata Gaddini fu presente a Padova  dove, oltre all’insegnamento universitario, teneva gruppi di discussione  clinica in neuropsichiatria infantile ed era  supervisore nella Clinica Pediatrica. Nel 1984, per ragioni famigliari, si trasferì definitivamente a Roma, “con rammarico”, commentò  in un’intervista.

Una frase della dottoressa Polojaz definisce molto bene una caratteristica della professoressa Gaddini nel suo ruolo di supervisore: una “incredibile capacità di costruire quello che chiamerei ‘un contenitore emotivo pensante’ indipendente dalle circostanze ambientali, con lei il setting può essere garantito-costruito ovunque”.

Conosciuta a livello mondiale, Renata De Benedetti Gaddini ha fatto parte di molte società e associazioni scientifiche in Italia e all’estero. E’ stata molto a lungo membro del Comitato Italiano di Bioetica, è stata membro della Società Psicoanalitica Italiana e in seguito membro con funzioni di training della Associazione Italiana di Psicoanalisi

Dopo l’iniziale ricostruzione biografica, Polojaz spiega che la brevità del convegno, svoltosi in una mattinata molto piena, ha imposto una scelta di argomenti fra i diversi ambiti d’interesse di Renata Gaddini. Sono stati privilegiati  quelli relativi alla prima fase della vita, quando la mente del bambino si insedia nel corpo e si strutturano i processi mentali che porteranno alla crescita emotiva.

A conclusione della sua relazione, Vlasta Polojaz sottolinea quelli che sono per lei i due capisaldi nel lavoro clinico, raggiunti grazie al continuo scambio nel tempo con la persona ed il pensiero di Renata Gaddini. Uno riguarda l’importanza di un’osservazione, attenta, non intrusiva e rispettosa dell’altro, accompagnata dalla continua ricerca per capire il processo alla base dello sviluppo umano, là dove s’insinuano le dinamiche che possono portare alla normalità o alla patologia. L’altro invece è “ascoltare per capire”, come aveva ricordato Renata De Benedetti Gaddini in un’intervista rilasciata a A.Granieri, e cioè l’ascolto dell’altro, ma anche di sé stessi e della propria emotività.

A questa relazione segue l’intervento di Andrea Gaddini, il quale illustra il costituendo “Archivio di Renata De Benedetti Gaddini”, archivio digitale per raccogliere il suo lavoro scientifico arrivato fino a noi. La bibliografia contiene pubblicazioni, comunicazioni, interventi in TV radio e giornali, recensioni: vari materiali di cui si sta occupando il gruppo di lavoro costituito da A. Gaddini, R. Gentile, G. Marin, D. Novarino e V. Polojaz, e che è accessibile online.

I lavori vengono raggruppati in  filoni tematici che sono stati così individuati :

–  l’interesse per la mente , che si confermò nel periodo di studi negli Stati Uniti

–  l’attenzione rivolta sempre più al processo maturativo nell’ambiente primario e alla possibile  prevenzione dei disturbi psicoaffettivi in età evolutiva

–  lo studio degli oggetti e dei  fenomeni transizionali

– l’attenzione alla formazione del Sé e alla prima realtà interna

– lo studio delle cause, conseguenze e prevenzione dell’abuso nei suoi vari aspetti, con grande sensibilità e attenzione ai diritti dei bambini.

– lavori di carattere più specificamente psicoanalitico, rivolti in modo particolare ai processi mentali precoci.

Si tratta di un “materiale sterminato”, dice Andrea Gaddini, nel quale è presente costantemente lo sguardo psicoanalitico, anche attraverso lo scambio di esperienze col marito Eugenio Gaddini.

Nella relazione che segue, Daniela Novarino illustra “Il contributo di Renata Gaddini  alla promozione della  salute  mentale in pediatria”.

Parla in modo specifico del Centro di Igiene Mentale della Clinica Pediatrica della Università di Roma, centro (primo del suo genere in Italia e che attualmente non esiste più) istituito nel 1948 e guidato  da Renata Gaddini al ritorno dagli Stati Uniti. In esso, assieme all’insegnamento universitario, lavorò formando gli operatori, secondo le idee che aveva maturato nella sua esperienza statunitense, e attraverso il pensiero psicoanalitico. Sotto la sua guida si sviluppò un centro di ricerca,  insegnamento e riflessione per lo sviluppo di una pediatria “umanizzata”, che dava importanza fondamentale al rapporto madre/bambino, alle cure primarie, all’ambiente, ai primi tempi della vita. Veniva focalizzata l’attenzione in modo particolare sulle interferenze e i traumi che possono intercorrere, al fine della prevenzione e della protezione del normale e sano sviluppo del bambino.

La dottoressa Novarino, che si è formata professionalmente al Centro di Igiene Mentale, ci fa entrare con i suoi ricordi nel vivo dell’interesse e dell’operatività di Renata Gaddini  nell’ambito della  Pediatria.

La dottoressa Emilia Ferruzza, con la sua relazione “I precursori degli oggetti e dei fenomeni transizionali”, ci porta nel pieno del pensiero originale di Renata Gaddini: il lavoro clinico e di ricerca rivolto al bambino nei suoi primi mesi di vita le ha permesso di comprendere e approfondire la teoria winnicottiana degli oggetti transizionali.

Di fronte all’angoscia del distacco dalla realtà nell’addormentamento avvengono dei fenomeni e si creano degli  oggetti che appartengono alla relazione del bambino con il suo ambiente, e che testimoniano il processo che avviene sulla via della separazione del bambino dalla madre. Esiste una continuità fra le esperienze legate alle sensazioni connesse all’allattamento e la successiva scoperta che il bambino fa dell’oggetto transizionale, primo oggetto non-me.

La dottoressa Ferruzza delinea  la diversità  tra gli oggetti transizionali di cui parla Winnicott e quelli che Renata Gaddini chiama i “precursori”, che riguardano il rapporto del bambino con le sue sensazioni. Gli uni sono oggetti esterni (la copertina, il pupazzo…) che possono significare per il bambino la madre separata da lui, sono  simboli dell’unione, che segnalano il passaggio fra il sé e il non-sé. Gli altri sono parte del corpo della madre o del bambino, ancora indifferenziati. Sono ‘precursori di base’, intra-orali (il capezzolo, il dito da succhiare…), cui fanno seguito i ‘precursori  di contatto epidermico e di sensazioni tattili’ che possono poi diventare oggetti transizionali. L’oggetto transizionale è il simbolo della riunione dopo l’assenza provocata della separazione; il precursore dell’oggetto transizionale nega semplicemente l’assenza.

Cure adeguate al bambino permettono l’armonioso passaggio dai precursori agli oggetti transizionali, sulla via della separazione e della integrazione del Sé; cure inadeguate o brusche frustrazioni possono gravemente turbare la sana maturazione psicoaffettiva del bambino.

In questo confronto, dice la dottoressa Ferruzza, è richiamata la distinzione fra l’equivalenza simbolica e l’equazione simbolica e si ritrova il passaggio dal processo  primario al secondario, dal bisogno al desiderio.

La dottoressa Andrea  Braun nella relazione successiva, “La frustrazione tra bisogno desiderio”, oltre che dare piacevoli flash sulla personalità della professoressa Gaddini nelle relazioni umane, tocca un altro dei temi  fondamentali del pensiero di Renata ed Eugenio Gaddini. Sottolinea l’elaborazione  che essi hanno fatto del concetto freudiano di frustrazione, in relazione ai concetti di bisogno e di desiderio. Nei primi tempi di vita del bambino il bisogno deve trovare soddisfazione, affinché avvenga il ritorno allo stato di benessere che garantisce l’esistenza; troppa frustrazione alla soddisfazione del  bisogno è una minaccia, può assumere il senso mentale della catastrofe. Nella immatura  definizione dei limiti fisici del Sé, le  frustrazioni precoci danno adito all’instaurarsi delle  sindromi psicofisiche datate nei primi tempi della vita. Fra tutte, la dottoressa Braun cita la ruminazione (mericismo), considerata come la prima che si può manifestare. Con essa il lattante, in uno  stato carenziale di frustrazione,  auto-stimola il cavo orale per riprodurre illusoriamente la gratificazione dell’allattamento e ritrovare lo stato di benessere; è l’illusione sulla quale si può sviluppare il senso di sicurezza interno, la fiducia di base.

Il  processo di separazione, che raggiunge il culmine entro i sei mesi di vita, costringe il bambino al riconoscimento della sua dipendenza e porta all’insorgere del desiderio. Si rientra nel concetto freudiano della frustrazione dei desideri pulsionali, che incide sulla formazione dell’Io, sulla strutturazione del rapporto oggettuale e sulla formazione del senso di realtà.

Andrea Braun sottolinea i tre prerequisiti che Renata Gaddini considerava indispensabili allo sviluppo della capacità di godere dello  spazio  transizionale:  – averla avuta la madre – averla perduta – averla saputa ricreare.

Segue su questo percorso della separazione il contributo di Maria Pierri relativo al “Linguaggio e processo di separazione”, lavoro nel quale viene fatto costante riferimento all’insegnamento della professoressa Gaddini e alle esperienze che la dottoressa Pierri ha avuto con lei  nell’Ambulatorio di NPI a Padova. Nella visione di Renata, e con lei di Eugenio Gaddini, lo sviluppo del linguaggio e i disturbi che in esso si possono trovare, possono essere compresi solo se collegati alle vicende maturative. Viene preso in considerazione il linguaggio come comunicazione fin dall’inizio della relazione madre neonato, quando le percezioni sensoriali e i gesti dell’accudimento costituiscono già un primo scambio comunicativo all’interno della simbiosi e delle relazioni con l’esterno. L’esperienza sonora costituisce per il neonato un’area in cui egli può modulare fusione e separazione, come per esempio può avvenire con le ninne nanne, nelle quali può essere rivissuta la rassicurante fusione perduta.

I primi suoni vocali del bambino, le lallazioni, che insorgono nell’epoca della creazione dell’oggetto transizionale, sono viste come imitazioni, nel tentativo di ripristinare la fusione con l’oggetto che all’epoca si va perdendo. Le prime parole (parallele all’acquisizione della deambulazione) sono lette come schemi di azione nello spazio che si va aprendo fra il bambino e la madre, avvio al riconoscimento dell’oggetto e della separazione. La sostituzione della frase alla parola è considerata come segno della separatezza e dell’oggetto mentalmente  acquisiti, e permette l’inizio del linguaggio comunicativo.

In questa prospettiva i disturbi  del linguaggio e la sua patologia (come per es. il linguaggio autistico, la balbuzie, il mutacismo…) sono interpretabili come  espressione delle problematiche che vanno ad interferire con un sano processo di separazione e individuazione.

Un breve intervallo separa la prima parte della mattinata dalla seconda, più caratterizzata da contenuti clinici. La dottoressa Patrizia Paiola, che modera la sessione, aggiunge una notizia relativa alla presenza di Renata Gaddini a Padova. Riporta al pubblico la testimonianza di alcune colleghe presenti in sala, le quali riferiscono che già a metà degli anni Settanta la dottoressa Gaddini era venuta a Padova a tenere delle conferenze, invitata dalla dottoressa Irene Munari, all’epoca insegnante a Psicologia, che conosceva Renata da lungo tempo e frequentava come lei Anna Freud a Londra.

Prende la parola la dottoressa Rossana Gentile, che nella sua relazione “Una supervisione con Renata De Benedetti Gaddini“ riporta l’esperienza molto significativa che le ha permesso di seguire in trattamento una piccola bambina autistica. Descrive gli incontri, gli evitamenti della bambina, il suo contatto sensoriale  con le superfici, le manipolazioni stereotipate degli oggetti, la ritualità dei comportamenti…

Sotto la guida della professoressa, ha potuto cogliere il senso dei comportamenti autistici; ha potuto comprendere le angosce profonde che essi rappresentavano e  collegarle con gli eventi traumatici della vita della piccola paziente. Ha imparato, dice la dottoressa Gentile, ad accettare che doveva limitarsi ad accogliere dentro di sé quegli aspetti, a tollerare il funzionamento imitativo con cui era negata la separazione fisica, “in attesa che si  determinassero le prime funzioni elaborative nella mente della bambina”, così come Renata Gaddini raccomandava. Ha compreso la necessità  di avere pazienza e di saper attendere.

Nell’intervento successivo, “Il bambino e i suoi ‘oggetti’”, Chiara Cattelan focalizza lo sguardo sugli oggetti autistici, in una specie di dialogo fra il pensiero di Renata Gaddini e di Frances Tustin.  Le due si erano conosciute nel 1950 al Putnam Center di Boston, dove si curavano “bambini atipici”, e la loro frequentazione nel corso degli anni ha portato a interessati teorizzazioni sulla formazione degli oggetti normali e patologici nella mente del bambino. La dottoressa Cattelan delinea le differenze  che caratterizzano il formarsi degli oggetti transizionali e degli oggetti autistici, a partire da quello che dai Gaddini viene considerato un principio regolatore della organizzazione mentale di base,  cioè l’attivazione ripetitiva  di modelli funzionali di esperienze già vissute e conosciute, di fronte a qualcosa di sconosciuto che può portare ad una angoscia traumatica di separatezza. La ripetizione dei modelli noti, le manovre sensoriali ripetitive, consentono di spiegare il formarsi della memoria e della temporalità, e possono essere precursori dell’uso simbolico dell’oggetto transizionale, portando alla formazione dell’oggetto mentale. Ma possono avere anche una funzione protettiva, opponendosi al ‘nuovo – diverso’ lasciato dall’assenza di una madre ancora non differenziata, che provoca angosce di annichilimento. Inoltre è possibile che diventino forme autosensoriali autistiche, e portino all’aggrappamento ad oggetti autistici, irrigiditi in una dimensione senza spazio e senza tempo, dove è denegato l’“oggetto”, non esiste differenza fra il sé e il non-sé, e dove può essere bloccato ogni ulteriore sviluppo.

La dottoressa Giuliana Marin conclude l’incontro di questa ricca mattinata parlando, nella relazione “Sentire per sopravvivere, per vivere”, della sua esperienza di supervisione con Renata Gaddini. Riferisce in modo particolare del trattamento di un preadolescente cieco dalla nascita e isolato in un mondo di fantasie. Per quel ragazzino il suono della voce è diventato il mezzo che lo ha riagganciato alle esperienze sensoriali sonore della sua infanzia, dove i rintocchi di una campana erano i soli a spezzare il silenzio del  mondo in cui si era rifugiato e in cui era lasciato solo.

La dottoressa Marin sottolinea, nella modalità di  insegnamento di Renata Gaddini,  la capacità di non saturare e di promuovere invece l’ascolto, la creatività, l’atteggiamento elaborativo del terapeuta. Ha compreso l’importanza di stare nell’angoscia e di renderla sostenibile. Ha potuto verificare il ruolo fondamentale  avuto dalla voce nei processi di sviluppo del mondo interno del suo paziente cieco –  privato del rispecchiamento dello sguardo – ruolo fondamentale anche per tutti i pazienti che, stesi sul lettino, hanno un rapporto privilegiato di scambio tramite la voce.

All’apertura del dibattito col pubblico, la professoressa Maria Tallandini prende la parola per sottolineare il pionieristico contributo di Renata Gaddini al collegamento tra ricerca empirica e psicoanalisi. Fa riferimento al lavoro del 1970, relativo al concetto winnicottiano di oggetto transizionale, oggetto concreto che permette al bambino di richiamare la presenza della madre prima di aver raggiunto la capacità rappresentativa.

L’originalità dello scritto consiste nel fatto che Renata Gaddini investigò empiricamente se il costrutto teorico di oggetto transizionale potesse essere osservato con una ricerca basata su dati empirici. La ricerca fu condotta attraverso una serie di colloqui rivolti alle madri di un campione molto numeroso (circa 1200 coppie madri-bambini). La conclusione fu che la presenza fisica della madre al momento dell’addormentamento era l’equivalente dell’oggetto transizionale e che quest’ultimo, per il bambino, fungeva quasi da “talismano”, rappresentante la madre stessa. Una volta raggiunta la capacità di rappresentarsi la madre, il bambino non ha più la necessità di usare la sua presenza fisica per sostituire quello che prendeva il posto della madre stessa assente, e cioè l’oggetto transizionale. E’ il momento in cui il bambino abbandona spontaneamente la copertina, il fazzoletto, l’orsetto, o quant’altro.

L’aspetto di grande interesse di questi dati consiste nel fornire il sostegno della ricerca empirica alla concettualizzazione clinica winnicottiana.

Al termine della presentazione di tante relazioni così dense ed elaborate, la dottoressa  Polojaz ha concluso l’incontro sottolineando che Renata Gaddini ci ha lasciato in eredità un incredibile patrimonio di pensiero. Questo Seminario ha voluto presentare alcuni cardini fra i più rappresentativi della  sua teorizzazione e della sua personalità.

All’uscita, i numerosi partecipanti commentavano che l’incontro era stato interessante e commovente. Indubbiamente perché i relatori, che hanno avuto tutti esperienza e contatto professionale e personale diretto, hanno saputo trasmettere  di Renata De Benedetti Gaddini non solo il pensiero, ma anche le qualità umane che  hanno dato vita a quel pensiero.

Febbraio 2016

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