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19 maggio 2017 MILANO Storie biologiche e storie relazionali

29/05/17

Storie biologiche e storie relazionali – Psicoanalisi e neuroscienze a confronto

Milano – Fondazione Benedetta D’Intino – 19-05-2017

La chiave di lettura di questo importante Convegno internazionale, che rappresenta un’ulteriore tappa del sempre più stimolante dialogo fra psicoanalisi e neuroscienze, potrebbe essere racchiusa nella seguente affermazione, variamente declinata nelle diverse relazioni: «le (nostre) storie biologiche sono storie relazionali; le (nostre) storie relazionali sono storie biologiche». E’ dunque all’intersoggettività primaria, biologicamente determinata e documentata, che è stato dedicato questo incontro fra psicoanalisti e neuroscienziati, ma meglio sarebbe dire fra psicoanalisi e neuroscienze, essendo alcuni degli intervenuti, a partire da Mark Solms, emblematiche figure-ponte del rapporto fra le due discipline. Introdotta dall’ex presidente della SPI Antonino Ferro e presieduta dalla neoeletta Anna Maria Nicolò, che si è soffermata sull’importanza della ricerca empirica in psicoanalisi e sulle iniziative del nuovo esecutivo SPI in tale direzione, la giornata di studi interdisciplinari sui «transiti» fra corpo (cervello) e mente, ha visto l’alternarsi di contributi condotti da vertici diversi e complementari, tutti ruotanti attorno al confronto fra i due ambiti disciplinari. Da quelli tesi a sottolinearne la sostanziale identità e convergenza, a quelli volti a mettere in rilievo le differenze e le irriducibili specificità, da quelli tendenti ad auspicare una revisione dell’intero impianto psicoanalitico sulla base dei dati neuroscientifici, con l’implicazione di una leadership delle discipline «neuro» su quelle «psico», a quelli maggiormente improntati a valorizzare l’autonomia epistemologica della psicoanalisi, ma sempre nella convinzione della reciproca utilità del dialogo.

Storie biologiche, dunque, come storie relazionali e storie relazionali come storie biologiche. Siamo corpi senzienti (e poi pensanti, rappresentanti, simbolizzanti e parlanti) e siamo menti incorporate – affermano da diversi vertici gli autori. E soprattutto siamo esseri relazionali, intrinsecamente e prioritariamente relazionali. Che non esiste un bambino chiuso in un’orbita narcisistica, non lo dicono più soltanto l’osservazione infantile e la teoria dell’attaccamento, la psicoanalisi relazionale e gli intersoggettivisti, ma lo dicono anche le neuroscienze. I bisogni, le aspettative e le relative competenze relazionali esistono fin dall’inizio, radicati nelle strutture cerebrali, e l’evoluzione della personalità dipende da ciò che tali bisogni innati, ereditati filogeneticamente, incontreranno nell’ambiente di crescita. Siamo corpi (cervelli) in relazione e in cerca di relazione, lungo tutto l’arco della vita.

Mark Solms, presidente della Società Psicoanalitica Sudafricana e figura di spicco del movimento neuropsicoanalitico, ha affrontato il tema della relazionalità intrinseca e primaria della mente umana dal punto di vista delle neuroscienze affettive, sottolineandone i presupposti neurali, ben al di là dei neuroni specchio, nei molteplici fondamenti emotivi e istintuali situati a livello sottocorticale e comuni a tutti i mammiferi. Solms propone un’interessante integrazione fra i sette sistemi emotivo-motivazionali fondamentali individuati da Panksepp a livello sottocorticale e l’Es pulsionale freudiano, vero e proprio nucleo originario della mente umana. Su questa base, egli suggerisce una revisione della prospettiva motivazionale «monopersonale» freudiana in direzione relazionale. I sistemi emotivo-affettivi primari sono quelli della ricerca (attesa), della paura (ansia), della collera (rabbia), del desiderio sessuale (eccitazione sessuale), della cura (accudimento), del panico/sofferenza (tristezza) e del gioco (gioia sociale). Tali sistemi sono intrinsecamente relazionali, in quanto presuppongono sempre il rapporto con altri esseri umani, presenti o assenti, come nel caso dell’angoscia di separazione, attivata dal sistema della paura nel caso della rottura del legame di attaccamento. Tuttavia, Solms sostiene che nemmeno i bisogni pulsionali primari, come la fame o la sete, legati al mantenimento dell’equilibrio omeostatico dell’organismo, possono essere considerati a-relazionali, in quanto sono embricati a  livello sottocorticale con i sistemi emotivi individuati da Panksepp. Fin dall’origine della vita, pulsioni primarie come la fame o la sete non «esistono» al di fuori del legame di attaccamento, ma ancora più radicalmente, embricandosi con il sistema della ricerca, implicano fin dall’inizio una intrinseca relazionalità al mondo esterno.

I sette sistemi emotivi di base, sebbene distinti a livello di strutture cerebrali e di mediatori biochimici (è noto il ruolo della prolattina e dell’ossitocina nella cura e quello di MU oppioidi nell’attaccamento), sono regolarmente sovrapposti e cooperanti, basti pensare alla partecipazione del sistema della ricerca, da alcuni paragonato alla libido freudiana, a sistemi come quello del desiderio sessuale, dell’attaccamento e del gioco. Solms, nel sottolineare gli aspetti relazionali delle motivazioni umane di base, si sofferma in particolare su quest’ultimo, presente in tutti mammiferi, e difficile da giustificare in una prospettiva «monopersonale» legata al soddisfacimento di bisogni pulsionali connessi al mantenimento dei parametri omeostatici dell’organismo. Eppure, il gioco è presente in tutti i mammiferi e va considerato a tutti gli effetti un istinto, evolutivamente giustificato come apprendimento di ruoli e gerarchie, come quelli relativi alla dominanza/sottomissione, fondamentali ai fini dell’inserimento sociale e della comprensione della mente altrui, in base alla «regola» del 60/40 nell’alternanza dei ruoli. Nulla di più relazionale e al tempo stesso di originario e necessario del gioco, nulla di più «serio» di questo istinto, enigmatico e superfluo solo nell’ottica di un’astratta e aprioristica contrapposizione fra «storia» biologica e relazionale.

Giuseppe Civitarese, ex direttore della Rivista di Psicoanalisi, membro ordinario con funzioni di training della SPI, ha sottolineato l’autonomia e la specificità della psicoanalisi, diretta conseguenza della centralità per l’essere umano del linguaggio e dell’ordine simbolico: siamo certamente esseri relazionali – si potrebbe dire nella sua prospettiva – ma lo siamo linguisticamente e simbolicamente, qualcosa che ci distingue e ci definisce in quanto esseri umani. Avendo la mente una natura intersoggettiva, ed essendo tale intersoggettività al centro della psicoanalisi, quest’ultima è necessariamente fondata sul linguaggio, che certamente presuppone il livello cerebrale ma a questo appare difficilmente riducibile. Di qui l’interesse del dialogo, ma anche l’opportunità della distinzione fra psicoanalisi e neuroscienze, pericolosamente offuscata nello stesso concetto freudiano di pulsione. Non può certo essere l’istinto la specificità dell’umano, mentre la pulsione, radicata nel corpo, come desiderio è radicata invece nell’intersoggettività e nel linguaggio. Ma ciò non deve assolutamente ingenerare l’equivoco di una mente umana disincarnata, di un livello rappresentazionale e intenzionale dissociato dal corpo, di un freddo logocentrismo dualistico di sapore cartesiano. Civitarese, richiamando la distinzione fra semantica e semiotica, afferma che nella sua prospettiva la parola è corpo e sensorialità, tutt’altro che astratta rappresentazione di significati, ma veicolo potente e primario di espressione e comunicazione di affetti.

Katerina Fotopoulou, ricercatrice in Neuroscienza Psicodinamica presso la Divisione di Psicologia e Scienze del Linguaggio di Londra, ha sostenuto che anche gli aspetti più basilari della soggettività, e precisamente le sensazioni relative all’essere un soggetto incarnato (embodied), sono fondamentalmente formate da interazioni corporee con altre persone, nella prima infanzia e oltre. Tali interazioni permettono all’organismo in via di sviluppo di «mentalizzare» la sua regolazione omeostatica, contribuendo in maniera decisiva alla costruzione di modelli mentali (inferenziali) degli stati fisiologici dell’infante. Il corpo riceve varie sensazioni, visive, tattili e di altro genere e deve metterle assieme: la progressiva integrazione e organizzazione dei segnali sensoriali e motori costituisce il fondamento del Sé primario (quello che Damasio chiamerebbe «proto-Sé»). Si impara che il corpo è il nostro e tale processo di mentalizzazione si svolge all’interno di una «intersoggettività prossimale» – non è possibile toccare qualcuno senza essere toccati – che include i segnali provenienti dall’interazione con altri corpi, in modo particolare quelli dei caregivers. Per questo motivo, le emozioni e le inferenze entrocettive si basano necessariamente sull’interazione con altre persone, che dà forma al processo di mentalizzazione e alla conseguente formazione del Sé primario o minimale.

Rosa Spagnolo, membro ordinario della SPI e del Gruppo di Ricerca Nazionale della SPI su Psicoanalisi e Neuroscienze, ha affermato, in linea con i teorici dell’embodiment, come la «mente rappresentazionale», elaboratore di informazioni e programmi svincolati dal corpo e dal funzionamento cerebrale, presente un tempo nelle scienze cognitive e in psicoanalisi, sia ormai un retaggio del passato. Al centro del discorso è la distinzione fra körper, il corpo dell’anatomia, quello che potremmo dire corpo-oggetto e leib, il corpo della fenomenologia, quello che potremmo dire corpo-soggetto. L’individualità è innanzitutto un fatto corporeo, radicato nel leib: ogni corpo ha capacità cognitivo/affettive diverse, legate alla sua «storia» biologico-relazionale e tramite queste si «situa» in maniera individuale, specifica e irripetibile nel mondo. Siamo corpi-soggetti senzienti, pensanti, rappresentanti e simbolizzanti, in relazione con altri corpi-soggetti, con altri Sé corporei e in relazione, attraverso il corpo, con il mondo. In questa prospettiva, Spagnolo propone un superamento della visione psicosomatica classica, con i residui dualistici impliciti nella nozione di un passaggio, o freudianamente di un «salto» fra due ordini diversi, psiche e soma, verso una visione unitaria del corpo e della mente, fondata sulla nozione di «corpo affettivo soggettivo». Nessuna interazione, dunque, fra mente e corpo intesi come entità distinte, ma un corpo soggetto, sede di affetto e cognizione integrati, un Sé corporeo in relazione con altri Sé corporei e con il mondo. Noi siamo il nostro corpo, prima fonte della nostra storia autobiografica, delle nostre sensazioni, percezioni e cognizioni, del linguaggio, della memoria e del sogno.

Le psicoterapeute Alessandra Schiaffino e Francesca Valeriani hanno illustrato il trattamento di un caso di grave disabilità neuromotoria, esito di una paralisi cerebrale infantile, in una bambina di dieci anni. A partire dal grave trauma perinatale, la «storia» biologica e quella relazionale fanno tutt’uno, a causa dell’embricazione fra disturbi motori, sensoriali e percettivi. Spesso trascurata a favore di interventi di tipo esclusivamente adattativo, tale condizione si riverbera pesantemente sulle relazioni precoci, sull’affettività primaria e sul nucleo emergente del Sé. L’intervento, non direttamente psicoterapeutico ma teso ad aumentare le possibilità di «comunicazione alternativa», ha visto anche significativi momenti di contenimento dell’ansia e di regolazione affettiva. La comprensione delle modalità corporee di comunicazione cognitivo-emotiva della bambina attraverso il gioco simbolico, ha permesso di riconoscere le identificazioni confusive legate a un uso massivo dell’identificazione proiettiva, con una propensione a vivere le vite degli altri favorita dall’impossibilità di camminare, e di dar voce alle sue domande su di sé e sulla propria storia. Attraverso l’uso comunicativo del corpo, la gestualità e la mimica, è stato possibile far emergere il senso della soggettività della bambina, visibilmente soddisfatta dalla possibilità di accedere attraverso l’interazione terapeutica a esperienze, memorie e narrazioni condivise della propria storia.

Elena Molinari, membro ordinario della SPI, esperta nel trattamento dei bambini e degli adolescenti, ha giocato sulle analogie e differenze fra l’open field usato dalle neuroscienze per studiare il comportamento delle cavie sotto stress e lo spazio analitico, sede di un’osservazione non oggettivante, ma partecipante e coinvolta. A differenza del paradigma neuroscientifico, quello psicoanalitico prevede che l’analista sia nel campo, che è «open» anche nel senso di essere aperto alla generazione di nuove ipotesi, che permettano di andare oltre il già noto. Molinari, in linea con il pensiero di Bion, mostra come la teoria della trasformazione degli elementi beta in alfa, quella che a tutti gli effetti si potrebbe chiamare la nascita della mente, con il passaggio dal dato sensoriale al pensiero, apra la ricerca a una molteplicità di altre possibili griglie. In particolare, illustrando l’analisi di una coppia madre-figlio bloccata dalle angosce psicotiche materne, ha mostrato come il campo analitico possa evolvere utilizzando la funzione vitale degli elementi beta, sottolineata dall’ultimo Bion, come stimolo al pensiero. Con una significativa inversione dei ruoli e delle funzioni, la terapeuta ha illustrato come sia stato possibile utilizzare gli elementi beta del figlio per favorire il contenimento e la mentalizzazione della madre.

Hanno completato il Convegno una serie di interessanti panel interattivi, che hanno variamente declinato il tema della giornata in direzione clinico-applicativa: dall’ansia e depressione perinatali, allo «spettro» dello spettro autistico, alle vicende familiari in ambito giudiziario con bambini da 0 a 3 anni, alle esperienze di psicoterapeute e ostetriche home visiting, alla psicoterapia corporea applicata a problemi ginecologici funzionali, alla narrazione di storie ai neonati in terapia intensiva neonatale.

Giorgio Mattana

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