Eventi

Geografie della Psicoanalisi

19/10/12

Report del Seminario Internazionale Geografie della Psicoanalisi

Collegio Ghislieri, Pavia, 6 ottobre 2012

A cura di Daniela Scotto di Fasano 

Il 6 ottobre si è svolto a Pavia, sulla scia del numero 1/2008 di Psiche, il Seminario Internazionale Geografie della Psicoanalisi, nella prestigiosa cornice dell’Aula Magna dello storico Collegio universitario Ghislieri, da sempre ospite generoso dei Seminari organizzati nell’ambito del Corso di Laurea in Psicologia “La Psicoanalisi dialoga con…”.

E davvero il 6 ottobre di un ricco dialogo si è trattato. Dialogo che testimonia dell’interesse rappresentato (da sempre, ma oggi più che mai) dall’incontro di culture reciprocamente ‘straniere’, tant’è vero che la versione interamente tradotta di questo numero di Psiche è stata presentata al Congresso dell’International Psychoanalytical Association di Pechino (I.P.A.-Asia, 23/25 ottobre 2010).

Nel sito messo a disposizione in SPIWEB in modo specifico per Geografie della Psicoanalisi, oltre a apparire per essere consultato il Numero 1/2008 di Psiche, sarà possibile seguire quanto prima l’intero Seminario, videoregistrato. Saranno inoltre consultabili le relazioni e i testi degli interventi dal pubblico. 

Dicevo che di dialogo ricco si è trattato, fin dall’incipit, rappresentato a Pavia dall’apertura dei lavori ad opera del Presidente della SPI e President Elect IPA Stefano Bolognini; ne riporto alcuni stralci:

“Innanzitutto desidero ringraziare gli organizzatori che hanno progettato questo incontro e le Istituzioni che lo hanno reso possibile, pur in tempi difficili come quelli attuali. L’ampiezza di vedute degli organizzatori è testimoniata dall’eccellenza dei Relatori e dalla loro profonda conoscenza delle realtà storico-politico-culturali nelle quali la psicoanalisi sta sviluppandosi con una vitalità ed una forza inattese. […]L’IPA sta lavorando intensamente per aprire nuove vie alla – e della – psicoanalisi: Cina, Corea, Sud-Africa, Nord-Africa, ma anche Siberia, Kazakistan, Iran, Mozambico, Panama, Paraguay, sono alcune delle aree affluenti che fino a pochi anni fa sarebbero state considerate irraggiungibili per la nostra pratica scientifica e clinica. […] Concludo con un pensiero che mi ha accompagnato, pochi giorni fa, al ritorno dalla scuola estiva dell’Istituto Est-Europeo PIEE (Psychoanalytic Institute East-Europe), dopo aver incontrato 130 analisti provenienti da remote regioni delle aree russe, slave, balcaniche e caucasiche: la cosa più affascinante non è quanto la psicoanalisi potrà cambiare quei paesi e le loro culture, ma come e quanto quei paesi e quelle culture potranno cambiare la psicoanalisi nei decenni a venire. L’esito dell’incontro fra questi mondi non è assolutamente prevedibile. E io credo che già in questo Seminario si potrà percepire la risonanza di questa imprevedibilità”. 

Subito dopo, l’introduzione ai lavori da parte di Marco Francesconi, docente di Psicologia Dinamica, organizzatore, con la scrivente, del Seminario, che ha sottolineato:

 “l’intento sia di proseguire nel lavoro di esplorazione interculturale da molti anni avviato a Pavia utilizzando il metodo dell’Infant Observation, sia perché condividiamo l’interesse di Lorena Preta per l’avvio di un approfondimento del confronto tra i saperi, le culture e le ‘molte psicoanalisi’ operanti oggi nel mondo. Infatti, il Seminario odierno vorrebbe rappresentare il primo di una serie di incontri volti ad approfondire tali tematiche, […] proponendosi  come piattaforma di un lavoro futuro. Pavia, nell’area dell’ insegnamento di Psicologia Dinamica, non  è nuova a tali esperienze di confronto. Dal 2000, infatti, è attivo presso il nostro Dipartimento il Seminario di Infant Observation condotto da psicoanalisti – SPI, Daniela Scotto di Fasano, Roberto Basile, Anna Tabanelli, e Tavistock, Marisa Puglielli -, nel quale si sono esplorate negli anni le vicissitudini della nascita e del primissimo sviluppo in diversi contesti di vita: la nascita biologica e lo sviluppo nella famiglia naturale; quello in famiglie africane immigrate; il concepimento mediante fecondazione assistita; l’adozione; la crescita in istituto. L’area del Seminario di Infant volto a osservare famiglie africane immigrate a Pavia è stata esplorata, dal 2004 a oggi, da Anna Tabanelli, lavoro tra pochi giorni illustrato a Dakar nel corso del «IX Congresso Internazionale sull’Infant Observation secondo Esther Bick e sulle sue applicazioni». Al termine del Congresso, Anna Tabanelli e Vanna Berlincioni, con alcuni nostri collaboratori, condurranno alcune osservazioni nella regione Casamance in Senegal. Ecco perché abbiamo accolto con estremo interesse l’idea di costituire un gruppo di lavoro internazionale sulle Geografie della Psicoanalisi, ed ecco perché ci è parso che fosse necessario organizzare questo Seminario come un’occasione di confronto e dialogo tra i relatori.”

Francesconi ha poi dato la parola a Lorena Preta, direttore di Psiche dal 2001 al 2009, organizzatrice del Festival Internazionale Spoletoscienza, del quale restano testimonianza svariati bellissimi libri, che ha introdotto in modo più specifico i lavori.

Ecco alcuni passaggi della sua relazione:

“La psicoanalisi si trova in un momento cruciale e apparentemente contraddittorio: da una parte deve misurarsi sempre di più con le terapie farmacologiche e con la proliferazione di tecniche psicologiche molto distanti da lei, dall’altra vede un periodo di diffusione estrema in paesi fino a poco tempo fa ben lontani dalla cultura psicoanalitica. […] Dunque una crisi e una crescita allo stesso tempo. […]Penso che l’attenzione principale per mettere al lavoro le concettualizzazioni psicoanalitiche e la pratica terapeutica, vada rivolta non tanto all’annoso problema della scientificità della psicoanalisi o al dibattito interno alla disciplina tra le varie modellizzazioni, quanto ai quesiti che sorgono nell’incontro con culture differenti. Non si tratta più soltanto del dialogo con le altre discipline (questo è stato sempre il progetto principale di Psiche) quanto di stabilire un confronto con le diverse visioni antropologiche. Sono soprattutto loro che possono interrogare la psicoanalisi e stabilire se le sue ipotesi e concettualizzazioni siano in grado di avere un valore universale o comunque un ‘valore d’uso’ generale e se il suo metodo per affrontare la sofferenza psichica risulti fruttuoso nei differenti contesti. […]Nel mondo occidentale, dove assistiamo ad una crisi del soggetto disorientato e frammentato, la richiesta di psicoanalisi sembra orientata ad una ricomposizione delle parti di sé. […]Al contrario nel mondo orientale spesso la persona è oppressa da regimi totalitari che ne soffocano l’individualità e l’apparato religioso impone comportamenti rigidi anche se non necessariamente derivanti dai principi religiosi originari. In questi paesi la richiesta  è quella di un’emancipazione dal controllo del gruppo verso la conquista dei propri spazi di libertà individuale. […] Può la Psicoanalisi andare incontro alle diverse esigenze mantenendo la sua qualità di indagine libera e spregiudicata senza rinunciare al suo metodo e alla sua specificità verificata negli anni? Come entrare in contatto con il patrimonio di esperienza e di conoscenza, che culture distanti, religioni diverse hanno elaborato nel corso dei secoli e che sono determinanti anche oggi in quanto continuano a nutrire della loro specifica immagine dell’uomo e del mondo, le correnti di pensiero di quei paesi, le loro credenze e i loro comportamenti? […]Rimane comunque il problema di non adottare un punto di vista eurocentrico e neanche quello occidentale in generale che spesso coincide con la cultura statunitense. C’è un episodio interessante da raccontare in questo senso. Nel febbraio del 1981 Jacques Derrida fu invitato a fare un conferenza a Parigi in un incontro dedicato alle istituzioni e alla politica della psicoanalisi, per iniziativa di René Major. Documentandosi per preparare il suo discorso il filosofo trovò una citazione dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale che nel suo progetto di Costituzione del 1977, definiva così il suo statuto: «Le principali aree geografiche dell’Associazione sono definite allo stato attuale come America del Nord degli Stati Uniti, fino al confine messicano; tutta l’America del Sud a partire da questo confine, e il resto del mondo». La cosa veramente particolare era che con questo ‘resto del mondo’ si indicava l’Europa, il luogo cioè in cui la psicoanalisi aveva avuto origine, luogo «ricoperto di paramenti e di tatuaggi istituzionali» e allo stesso tempo tutti gli altri territori in cui la psicoanalisi non era ancora arrivata, le zone inesplorate. Una sorta di Far-west dice Derrida, una no man’s land, ma anche un corpo estraneo. Una cosa che non si può né assimilare né rigettare. Basandosi su questo discorso egli si interrogava sulla necessità di una nuova etica della psicoanalisi che tenesse conto delle diversità sia culturali che di modelli teorici. Questo per dire che la pretesa colonialista riguarda anche l’Occidente al suo interno. […] Si potrebbe dire che per descrivere i mille piani in cui si articola la realtà del nostro tempo, fatta di un reticolo di pensieri, di culture, di conoscenze e di relazioni comunitarie, piuttosto che fornire delle mappe accertate del sapere si dovrebbe tentare di ‘cartografare contrade a venire’  cercando di essere in sintonia con il tempo che viene, come dicevano Deleuze e Guattari. Spero che oggi per noi sia l’inizio di un lavoro in questa direzione e ringrazio veramente tutti i relatori che accettando di venire a discutere dimostrano anche di condividere un progetto futuro di analisi e di indagine.”

Ha preso poi la parola Fausto Petrella, professore ordinario di Psichiatria dal 1981 al 2008, Presidente della SPI dal 1997 al 2000, oggi Presidente del Centro Psicoanalitico di Pavia, al quale è spettato il ruolo di chairman della giornata. Alcuni stralci dalla sua relazione d’apertura: 

“Come psichiatra e psicoanalista non ho una particolare competenza per pronunciarmi sulla cultura e la realtà sociale complessa dell’India e dell’Islam e neppure sulla cultura giudaico-cristiana, di cui potrei essere considerato un esponente involontario. […]Come affrontare il dialogo con persone straniere, ma non più estranee e divenute prossime, è per noi un problema centrale e una realtà clinica precisa, che incontra difficoltà specifiche. Alla fine del 2000 mi accadde di essere invitato a parlare delle “finalità della psicoanalisi” in un convegno dove mi trovai inserito con mio sgomento in una sessione dedicata alle “prospettive escatologiche” delle grandi religioni storiche, insieme a un vescovo cattolico, a un rabbino, a un esperto di religione sufi e a una studiosa di buddismo! Penso di poter affermare che quell’incontro fu per tutti i relatori l’occasione mancata per una rissa, ma anche semplicemente per un dialogo, che si rivelò impossibile. Non vi fu alcuna discussione, tutti espressero le loro fedi con convinzione. Ognuno suonò le sue trombe e le sue campane. Le posizioni dogmatiche sono un rifugio rassicurante di fronte alla precarietà non solo dei fini ultimi, ma anche di quelli prossimi. Le scissioni e l’isolamento relativo delle singole ideologie e credenze preservano da temute commistioni e confusioni caotiche. L’accostamento d’idee e di fedi diverse costringe a una tolleranza rischiosa. Non si sa mai quanto la tolleranza sopporti la prossimità alla diversità, e cosa rende possibile la tolleranza richiesta. […]Oggi troviamo psicoanalisti operanti in Paesi lontani e che mettono alla prova i modelli e i metodi psicoanalitici per comprendere culture e pazienti che l’Occidente ha difficoltà a intendere. Potremmo dire che si iniziano ad avere scambi di tutti i tipi, dove Maometto va alla montagna e la montagna va da Maometto. […]Ci sono dei punti specifici che attendo al varco nelle relazioni e discussioni che sentiremo. Interessa nelle varie culture individuare come sono trattate le diversità di genere e di classe sociale e di quale considerazione è fatta oggetto l’alienità, cioè l’anomalia culturale della follia. Mi interessa percepire come viene culturalmente organizzato – in India, in Africa e nei paesi islamici – il bene il male, il positivo e il negativo, e i linguaggi impiegati per definire lo spazio di queste polarità. Lo spazio rimanda all’idea dei confini culturali, alle concezioni regolatrici del diritto, alla gestione del lecito e dell’illecito e all’idea di soggettività implicata in tutto questo. Mi interessa comprendere i miti e i riti che fondano e regolano ovunque la socialità e la proporzione consentita nella vita ordinaria tra fantasieren  e pensiero praticamente orientato, cioè la proporzione socialmente accettata tra i processi primari e i processi secondari definiti dalla psicoanalisi. Vediamo oggi le caratteristiche tradizionali della tecnica psicoanalitica messe in tensione dal confronto culturale. L’appropriatezza della psicoanalisi in contesti culturali differenti deve essere messa in discussione, quando persino le forme per noi abituali dei contenuti psichici e relazionali si presentano in forme nuove e inusuali.”

La parola è passata a questo punto a Livio Boni, dell’Università di Tolosa II Le Miral, tra i maggiori studiosi della psicoanalisi in India – recentemente (2011) ha curato la pubblicazione del volume L’Inde de la psychanalyse. Le sous-continent de l’Incoscient  (per la casa editrice CampagnePremière/recherche) –, una voce autorevole per presentare la visione indiana della psicoanalisi, compito non facile intanto per l’aspetto storico – quella indiana è stata nel 1922 la prima società di psicoanalisi non occidentale –, e, poi, per l’ampiezza, nel suo contributo, delle intersezioni con l’ambito teorico freudiano.

Nella sua relazione, – Dalla psicoanalisi all’India, e ritorno. Forme e ragioni della rivalutazione del femminile nella modernità indiana -, egli si concentra su:

“una serie di stratificazioni tematiche ed ermeneutiche”; la prima, organizzata attorno alla diffidenza di Freud nei confronti dell’India e della sua cultura, cui Freud oppone  “il proprio «gusto greco per la misura» («sofrosune»), una «mentalità medio-borghese», poco incline all’avventura, e persino la «prosaicità ebraica» […] si profilava infatti un tema freudiano fondamentale: l’equazione «India = misticismo» e «misticismo = regressione» pre-edipica. […]che fa sì che, per Freud, la civiltà indù appaia in larga misura come una civiltà dell’Urmutter, della Dea Madre, della propensione generale alla restaurazione di uno stato di fusione pre-simbolica e di restaurazione paradossale dell’onnipotenza psichica attraverso la dissoluzione nel flusso, nel samsara.  Vedremo come la psicoanalisi indiana sarà costretta a fare i conti, e a dare una certa inflessione a questa diagnosi freudiana, per potersi aprire un varco all’interno della «giungla indù». […Eppure, esiste ] qualche indizio di una presenza dell’India nella sua opera, presenza certo alquanto spettrale, e nondimeno istruttiva. Schematicamente: […] due ulteriori indizi, più consistenti sul piano filologico e concettuale, si trovano in Al di là del principio di piacere. In questo sommet speculativo del pensiero di Freud compare infatti la nozione di «principio di Nirvana», versione radicale del vecchio «principio di costanza» […]Un’altra traccia filologicamente interessante di un’orizzonte indiano nella speculazione freudiana si trova in una nota a piè di pagina aggiunta alla seconda edizione di Al di là del principio di piacere.  Riferendosi al mito platonico degli Androgini Freud sembra, sulla scorta di Heinrich Gomperz (figlio del più noto Theodor), ammettere la possibilità di un’origine indiana del mito. […] l’ipotesi di un’origine indiana rafforza l’idea di un’originarietà quasi intemporale del mito, il suo carattere «arci-originario», direbbe un deriddiano. Sono questi gli elementi intorno ai quali si è costituito il primo nucleo del mio interesse al nesso psicoanalisi-India, assumendo la forma di un articolo pubblicato nel 2004 sulla Rivista di Psicoanalisi, e poi in francese sulla rivista Essaïm, e ripreso quindi tale e quale nel saggio d’apertura del volume collettaneo da me curato L’Inde de la psychanalyse. Le sous-continent de l’inconscient, pubblicato in francese l’autunno scorso. […]Uno spostamento di prospettiva, dal freudismo e la storia della psicoanalisi al gandhismo e la storia politica dell’India moderna mi ha permesso in seguito di compiere un passo ulteriore nelle mie ricerche e nel mio interesse meta-analitico per la «Cosa» indiana.  Sulla scorta della lettura del saggio magistrale di Erik Erikson Gandhi’s truth. The Origins of militant Nonviolence[1] (premio Pulitzer nel 1970) – e della lettura di contributi da parte dei due freudiani di spicco nel contesto indiano, Sudhir Kakar e Ashis Nandy, entrambi fortemente influenzati dall’approccio di Erikson a Gandhi – mi interessava la possibilità di ripensare, attraverso il prisma gandhiano, la questione della violenza della pulsione. […]Detto in altri termini, l’approccio analitico mi sembrava permettere d’abbordare il gandhismo da un lato come una «tecnologia del sé», per riprendere un paradigma dell’ultimo Foucault; e, d’altro canto, permettere un’intelligenza del gandhismo come costruzione collettiva, e non come etica universal-individuale, attraverso un dispositivo che realizzasse, intorno al corpo ascetico del Mahātma, un processo di soggettivazione di massa, un corpo libidinale collettivo di tipo inedito. […]Detto altrimenti, l’uso politico dello sciopero della fame – anche ad oltranza, fino alla morte, come dichiara Gandhi in diverse situazioni incandescenti – svolge un ruolo complesso, al tempo stesso di exemplum e d’incorporazione collettiva al corpo astinente del leader, permettendo un processo di sospensione-sublimazione dell’aggressività immanente al conflitto. E’ questo un elemento fondamentale non solo della concezione ma della pratica, della praxis della non-violenza, o piuttosto di quella che Gandhi chiama la «perseveranza nella verità» (Satyâgraha). […] Sembra a Boni che la pratica dalla Satyâgraha s’innesti su quella, più tradizionale nell’ascetismo induista, della Brahmacharya, della «castità integrale», enunciata da Gandhi fin dal 1906. Una parte del ‘genio’ gandhiano consiste allora nell’articolare la pratica ascetica semiprivata della Brahmacharya alla pratica ascetica fondamentalmente antagonistica della Satyâgraha, inventando un dispositivo inedito fondato sulla costruzione di un’organizzazione libidinale della lotta capace di sottrarsi al rapporto di forze in cui sorge istaurando un’economia altra [2].[…] Fin dall’epoca della non-collaborazione e della resistenza passiva in Sud Africa Gandhi concepisce la Satyâgraha come una tecnica e un’economia che implicano un attraversamento della violenza, e non una sua semplice rimozione. E questa violenza non è solo la violenza delle pulsioni dell’Io (autoconservazione, aggressività) ma è la violenza della pulsionalità in quanto tale. Da qui il fatto che la pratica dalla Satyâgraha s’innesti su quella, più tradizionale nell’ascetismo induista, della Brahmacharya, della «castità integrale», enunciata da Gandhi fin dal 1906. Una parte del ‘genio’ gandhiano consiste allora nell’articolare la pratica ascetica semiprivata della Brahmacharya alla pratica ascetica fondamentalmente antagonistica della Satyâgraha, inventando un dispositivo inedito fondato sulla costruzione di un’organizzazione libidinale della lotta capace di sottrarsi al rapporto di forze in cui sorge istaurando un’economia altra [3]. […]Si potrebbe quindi sostenere che esista in Gandhi una teoria dell’assoluta transitività e traducibilità libidinale, dall’oralità all’aggressività, passando attraverso l’analità (Gandhi è soggetto, durante i digiuni, a violente dissenterie, a loro volta oggetto di potenziale godimento destabilizzatore), l’autoerotismo (Gandhi è ossessionato dal controllo sulle polluzioni notturne) fino al desiderio fallico. […]La soluzione gandhiana consisterà allora non nello spostare l’energia pulsionale da una fonte all’altra, o nel cambiare d’oggetto, ma nell’aprire alla possibilità di un’incorporazione collettiva al corpo rinunziante, di utilizzare il proprio corpo astinente come supporto per la costituzione di una comunione trans-individuale che sia superamento della pulsionalità medesima, e quindi della sessuazione stessa. […]L’alleanza simbolico-psicologica con la parte femminile rappresenta in Gandhi la promozione di un altro versante della pulsionalità, meno incentrato sul triplice nesso oralità/fallicità/aggressività che su quello di una sorta di predisposizione ad una alienazione ed a un differimento pulsionale di cui sarebbe depositario il femminile.  E’ anche questo che Gandhi intendeva significare allorché proclamava, verso la fine della sua vita, d’essere divenuto, dal punto di vista psichico, una donna. […]Questa seconda stratificazione delle mie ricerche – attraverso il gandhismo, la questione della violenza pulsionale, del «divenire-donna» in Gandhi, sospesa tra psicobiografia e psicologia di massa, mi ha consentito infatti di tornare sulla vicenda della psicoanalisi in India da un altro punto di vista, non più limitato alla prospettiva, in fin dei conti frustrante, della ricezione della psicoanalisi in India su un piano squisitamente infra-analitico, ma a partire dalla questione della decostruzione di quella che potremmo definire la soggettività coloniale. E’ in questo senso che il problema gandhiano della rivalutazione di una polarità femminile della pulsione acquisisce tutta la sua portata, e che la soluzione proposta da Gandhi assume un’intelligibilità irriducibile alla psicobiografia. La promozione gandhiana di una femminilità pulsionale «allargata» costituisce infatti una risposta originale e decisiva al complesso di castrazione che attraversa tutta la cultura della rinascita indiana tra la metà dell’800 e la metà del ‘900. Frutto di un’interiorizzazione dell’ideologia del colonizzatore, il tema della de-virilizzazione degli indiani (ed in particolare degli indù) percorre in effetti una gran parte dell’elaborazione ideologico-culturale che accompagna l’emancipazione dell’India[4].Come se la trasvlutazione gandhiana del femminile dovesse aprirsi un varco navigando tra due scogli: una concezione del femminile come evirazione (tipica della «falsa coscienza» indotta dal costrutto ideologico coloniale) e un’idealizzazione reattiva della Madre violata dall’invasore  per la cui integrità i figli devono essere disposti ad ogni sacrificio, di sé e degli altri, tipica del nazionalismo indiano d’inizio ‘900. […] Ed è a questo punto che ritroviamo – e che ho ritrovato a mia volta nel mio itinerario di ricerca – la storia peculiare della psicoanalisi indiana, in una terza stratificazione, che si potrebbe definire ideologica e post-coloniale, della mia archeologia critica. […] si può facilmente osservare, nella prima generazione di psicoanalisti indiani, una […]frattura tra un’importazione paracoloniale, se non pro-coloniale; ed un’appropriazione post-coloniale, se non apertamente anticoloniale. I due rappresentanti principali di questi due orientamenti di fondo sono da una parte il medico inglese Owen Berkley-Hill, compagno di studi di Ernest Jones, […] cui si deve il precoce riconoscimento dell’Indian Psychoanalytical Society (1922) e l’inserimento della stessa nel circuito istituzionale coloniale; dall’altra, la figura di Girindrashekar Bose, medico e psichiatra bengalese, familiarizzatosi con la psicoanalisi fin dal 1909 (pur non essendo mai stato analizzato), […] terapeuta originale e infaticabile introduttore del freudismo nel più vasto milieu di Calcutta (capitale delle Indie britanniche fino al 1911). […] è facile riscontrare, nella loro opera e nel loro lascito, un ricorso antitetico alla psicoanalisi e al freudismo a partire da uno stesso problema: quello che abbiamo definito il complesso coloniale indiano-indù, finora definito come un complesso di castrazione e di de-virilizzazione del maschio indiano accompagnato da un ricorso ambiguo al fantasma di una Madre onnipotente, oggetto di una devozione cui viene affidata ogni possibilità di revirilizzazione e di riscatto. […] Bose, attraverso quello che viene considerato il suo contributo teorico più originale, la teoria del «desiderio contrario» («opposite wish») esposta nella sua tesi del 1921 (esattamente contemporanea quindi dell’articolo di Berkeley-Hill) The Concept of Repression, e difesa al cospetto (epistolare) dello stesso Freud, in un breve scambio su «la risoluzione del complesso di Edipo» del 1929[5].  In che cosa consiste la teoria di Bose? Nell’idea che ogni «repressione», o »rimozione», di un desiderio sia possibile unicamente a partire dall’efficacia inconscia di un desiderio contrario. Solo una formazione desiderante può rivelarsi efficace nel reprimerne un’altra. Da qui un punto di vista originale sull’Edipo: la soluzione di quest’ultimo non sarebbe tanto da ricercare nell’interiorizzazione dell’interdizione paterna da cui proviene la minaccia di castrazione quanto nell’inclusione di un certo «desiderio d’essere una donna» psichicamente efficiente e represso dal desiderio pro matrem. Una tale riattivazione contribuisce in maniera decisiva alla «risoluzione» dell’Edipo portando ad una separazione con la madre. Bose insiste inoltre sul fatto che la risoluzione dell’Edipo in India non passa tanto attraverso la rivalità ed il senso di colpa verso il padre, quanto attraverso una paura/desiderio persistenti d’essere castrati da quest’ultimo, e un’inibizione fallica duratura, rappresentata culturalmente dal mito del bambino-dio, Ganesh[6]. […]Detto il altri termini, siamo in presenza di una soluzione teorica che non è priva di affinità con il gesto gandhiano stesso[7]. […] In questo modo Bose non si limita a realizzare una sorta di fusione tra la prospettiva freudiana sulla bisessualità psichica e l’ideale indù dell’Ardhanarishvara – la forma androgina propria alle manifestazioni supreme del divino – ma opera una parallasse fondamentale, un mutamento strategico di prospettiva rispetto all’aut aut cui è sottoposto il soggetto della decolonizzazione: reagire revirilizzandosi (per difendere la Madre offesa) o accettare la castrazione coloniale. […] Credo che un riesame delle sequenze indiane della ricezione della psicoanalisi e del freudismo da questo punto di vista, post-coloniale (per usare un termine che a volte rischia di diventare uno slogan ma la cui pertinenza spero aver almeno suggerito in questo caso) possa rappresentare un autentico compito intellettuale e un contributo non secondario ad una comprensione critica del nesso psicoanalisi/ideologia, ben al di là della fattispecie del caso indiano.”. 

In dialogo con lui, Daniela Scotto di Fasano, membro ordinario della Spi, redattrice di Psiche dal 2001 al 2009, dal 2010 membro della redazione dello SPIWEB:

“Il titolo della relazione di Boni è Dalla psicoanalisi all’India, e ritorno. Forme e ragioni della rivalutazione del femminile nella modernità indiana, che io scombino nell’inverso: Forme e ragioni della rivalutazione del femminile nella modernità indiana. Dalla psicoanalisi all’India, e ritorno, per chiedere a Boni se gli pare d’aver ‘usato’ la psicoanalisi per andare all’India, e l’India per tornare alla psicoanalisi; tanto quanto l’India, a partire da una valutazione del femminile, abbia dovuto allontanarsene, per riscoprirne il valore, tornando a valutarla: rivalutandola. Chiedo questo anche per un collegamento alla clinica: un oggetto troppo amato va ripudiato prima di poterlo tornare ad amare… In un collegamento con l’esperienza della migrazione, mi chiedo, e chiedo a Boni, se può darsi l’evenienza di dover allontanare da sé la terra d’origine, ripudiarla, per così dire, per non sentirne il bisogno, il richiamo, prima di potere tornare ad amarla… […] Partiamo dalla prima stratificazione: la presenza dell’India e del mondo indiano in Freud. Scarsino, come abbiamo sentito, l’interesse di Freud per l’India: mi chiedo se non se possa fare occasione di riflessione per una questione che, credo, ci riguarda tutti nel contatto con l’ignoto: il ‘troppo’ d’ignoto spinge a trovare rifugio nel molto di noto? La mentalità medio borghese, la prosaicità ebraica… […] Inoltre, dal momento che la civiltà indù appare in larga misura a Freud come una civiltà dell’Urmutter, della Dea Madre, tale questione ne apre un’altra, che a sua volta rimanda alla necessità, per Freud, di lavorare a un altro lutto: quello del suo rapporto con Jung, ormai perduto tanto come amico quanto come sostegno della causa psicoanalitica presso la classe medica e, in particolare, presso i gentili. Questione che, come in un gioco di matrioske, a sua volta pone sul tappeto la necessità da parte di Freud di prendere le distanze dal pensiero junghiano e dalla sua teoria, come sottolinea ad esempio Rodrigué, per il quale la prima pagina dell’Uomo dei lupi è volta a combattere le Umdeutungen (interpretazioni distorte) di Jung e di Adler. […] come abbiamo sentito, in una nota a piè di pagina aggiunta alla seconda edizione di Al di là del principio di piacere, riferendosi al mito platonico degli Androgini, Freud sembra ammettere la possibilità di un’origine indiana del mito.  Anche per LB, mi pare, tale ammissione in Freud sembra contribuire ad una dila(ta)zione speculativa in cui la questione dell’origine e quella della pulsione (di morte) diventano indistinguibili. A riprova di quanto le tensioni vitali e mortifere si affianchino e embrichino l’una nell’altra, in una tensione mai risolta e in una contaminazione preziosa e feconda per il pensiero, un episodio dal mondo dell’arte. Quando Marc Chagall, nel 1954, vide il famoso affresco di Piero della Francesca della Madonna del Parto a Monterchi, nella cappella annessa al cimitero, «restò sorpreso. Poi, saputo che la madre di Piero della Francesca era nata a Monterchi e che il pittore aveva dipinto la Madonna del Parto proprio per la cappella del cimitero di Monterchi, commentò: ‘Allora capisco. E’ la vita che sta per nascere dal ventre materno nel luogo della morte. Ma questa è un’idea immensa!’ (Walter I.,1996). Anche a tale proposito penso al lutto al quale sono obbligati gli emigranti, rispetto alla propria lingua (lingua madre!), ai propri legami, alle proprie abitudini, ai sapori… Eppure, quanto è inevitabilmente necessario che in quel luogo mentale abitato dalla morte sia possibile far nascere la vita del pensiero. Un’altra questione sollevata da Boni riguarda la possibilità di ripensare, attraverso il prisma gandhiano, la questione della violenza della pulsione:la violenza della pulsionalità in quanto tale. […]La soluzione gandhiana di utilizzare il proprio corpo astinente come supporto per la costituzione di una comunione trans-individuale che si costituisca come superamento della pulsionalità e, quindi, della sessuazione stessa, rappresenta per LB la «decostruzione della sessualità virilista», un modo di opporsi alla sudditanza coloniale. A tale proposito, gli chiedo se ciò non possa accadere al fine di sottrarsi alla paura generata dalla pulsione stessa, oltre che costituirsi, – anche – come la modalità trovata dal grande pensatore indiano per opporsi alla sudditanza coloniale.Ma può essere, anche, chiedo, un modo di fare un processo di individuazione/separazione che consenta un’evoluzione identitaria altra rispetto a quella di un padre vissuto come troppo massiccio e  ingombrante? In tal senso, Boni pone al centro della sua riflessione «la questione di quella che potremmo definire la soggettività coloniale»; a tale proposito, sarebbe interessante, nell’ottica aperta dal numero di Psiche dedicato a Geografie della psicoanalisi, riflettere sull’onda lunga, che senz’altro potremmo definire imprevedibile e ingovernabile, dell’eredità coloniale lasciata alle generazioni nate da genitori condizionati nei termini di una soggettività coloniale. […] Poi, a proposito della concezione del femminile come evirazione, che Boni definisce tipica della «falsa coscienza» indotta dal costrutto ideologico coloniale, io mi chiedo e gli chiedo se sia possibile restringere il campo della soggettivazione femminile al solo costrutto ideologico coloniale: dove situiamo in tal caso la questione centrale dell’invidia del fallo nel percorso evolutivo femminile?  Come pensare poi le fantasie terrificanti connesse alle problematiche fantasmatiche dell’angoscia di castrazione? […] Inoltre, e qui la questione che pongo è rivolta non solo a Boni ma anche agli altri relatori: possiamo leggere come «un’idealizzazione reattiva della Madre violata dall’invasore  per la cui integrità i figli devono essere disposti ad ogni sacrificio, di sé e degli altri» come «tipica [solo] del nazionalismo indiano d’inizio ’900» o la faccenda coinvolge esperienze caratterizzate storicamente in tal senso orizzontalmente e verticalmente: penso ai kamikaze giapponesi, palestinesi, vietcong, e così via… Ponendo quindi la questione come squisitamente caratterizzata intrapsichicamente prima che culturalmente.” 

A questo punto, con un notevole e inusuale rispetto dell’orario, si è data la parola prima a Boni, per una risposta alla sua interlocutrice, e, poi, al pubblico. È quindi intervenuto il prof.Francesco Saverio Trincia, dell’Università La Sapienza di Roma, che ha sottolineato l’importanza delle aperture di prospettiva rappresentate da questo seminario, anche nell’area della ‘contaminazione feconda’ con altri saperi, ad esempio con gli studi filosofici, e la dott.ssa Gohar Homayounpour, che sottolinea come sia indispensabile riflettere su stereotipi dei quali non siamo consapevoli, ad esempio quelli per cui ci si può stupire, in Europa, come le è spesso accaduto, di vederla indossare i blue jeans senza, per di più, essere velata.

Sono infine intervenuti Francesconi –  sulla diversa elaborazione del “conflitto” in Freud, nella contrapposizione Anna Freud e Melanie Klein, fino alla dimensione oscillatoria di Bion o al rischio di risolverlo in modo onnipotente – e Berlincioni, che ha citato una godibilissima poesia di Stefano Benni a evidenziare la necessità di lavorare innanzi tutto dentro noi stessi per non trascurare la possibilità di essere noi per primi ‘razzisti’, a nostra stessa insaputa, non essendo nessuno… padrone in casa propria.

 

Nel pomeriggio, la parola è passata a Fethi Benslama, membro onorario dell’Association Psychanalytique Marocaine, il cui contributo al Seminario era basato sugli approfondimenti da lui compiuti sulla metapsicologia psicoanalitica alla luce della sua “doppia appartenenza” di soggetto islamico, ma residente in un paese occidentale, la Francia. Nel suo pensiero, il tema dell’Edipo, il ruolo del padre, la centralità della rimozione del femminile connessa alla genesi di una “religione del figlio”, rivisitati nella prospettiva del ripudio originario del figlio di Abramo, Ismaele, e di sua madre Agar, fino alla collocazione quasi a riscatto della figura di Muhammad, Maometto, privo di genitori, combattivo e riparativo al contempo, si declinano in un intergioco di intrapsichico e di culturale. Nel suo intervento (di cui non possiamo in questo report trascrivere stralci in quanto non ne abbiamo ancora la versione tradotta), ciò che risulta particolarmente interessante e prezioso ai fini di una rilettura del Complesso Edipico a partire dal suo fondamento mitico, è l’accento da lui posto sul  fatto che in Islam e nel pensiero islamico mancano la riflessione, e, quindi, la prospettiva storica  che hanno caratterizzato le altre due religioni monoteistiche. Dunque, a suo parere, l’Islam è tanto altro dall’Occidente quanto altrettanto (dai punti di vista sia storico che filosofico) Occidente. Egli sottolinea infatti l’identità della visione religiosa fondata sul monoteismo ma in funzione di una  differenza sostanziale: nell’Islam lo sfondo culturale sul quale s’innesta il credo religioso non è caratterizzato, come – per noi e per l’Ebraismo – nella mitologia greca, dall’omicidio del Padre da parte del Figlio. Inoltre,egli sottolinea il fatto che il Corano impedisce l’assimilazione di Dio al Padre: Allah non è il padre di nessuno…

Benslama poi, con sguardo al contempo di antropologo e di psicoanalista, riflette sul fatto che nei paesi islamici si è negli ultimi decenni assistito a una laicizzazione del ‘divieto’, che ha avuto come conseguenza sia una perdita di presa culturale dello Stato, impossibilitato ad assolvere al suo ruolo, sia, di conseguenza, il ricorso inevitabile alla guerra civile. I religiosi, gli imam, infatti, più che espressione, come nel passato, del Credo, sembrano ‘scienziati’: l’incesto è ‘vietato’ ‘scientificamente’, perché disfunzionale alla salvaguardia della specie; il digiuno imposto dal Ramadan è interpretabile come necessità alimentare più ‘salutare’ in rapporto alle condizioni climatiche… In questi termini, chiunque, fa notare Benslama, può lanciare una ‘fatwa’… 

Con Fethi Benslama è stato in dialogo Maurizio Balsamo, membro con funzioni di training della SPI, docente di Psicopatologia e Psicoanalisi nell’Università di Parigi 7, caporedattore di Psiche dal 2001 al 2009.

Ecco alcuni stralci dal suo intervento: “Vorrei intanto ringraziare Benslama per questo testo ricco e pieno di piste di ricerca. […] Per il tentativo di reinterrogare il rapporto fra padre, fra i nomi del padre e simbolico, […]Mi sembra che nel suo intervento il fantomale stia ad indicare  anche un elemento rimosso o sottaciuto del rapporto  più complessivo della psicoanalisi con il non europeo. […] In altri termini, e per giungere rapidamente alle questioni poste da Benslama, mi pare che egli sposti, a differenza di Said, il concetto di frontiera, di alterità, di rimozione, di espulsione e di sottaciuto, mostrando, o quantomeno ipotizzando, per esempio, come il rimosso per eccellenza dell’islam sia la questione del femminile e del sessuale ad essa connesso. […]Benslama suppone che una ragione delle complicazioni inerenti  al fenomeno ‘Islam’ sia dovuta alla mancanza nel mondo islamico e mussulmano, di un apparato traduttivo/decostruttivo capace di secolarizzare il pensiero, il che è strettamente correlato, come osserva,  alle difficoltà di accesso alla psicoanalisi e della psicoanalisi stessa a questo campo. Il secondo aspetto è la mancata presa in carico e modifica degli apparati tradizionali di parentela e di fondazione religiosa del sociale. Lo stato non è al posto di, ma piuttosto qualcosa che si innesta, si radica, ed è a sua volta fortemente contaminato da un religioso tuttavia che è diventato altro da ciò che era, perché esso stesso modificato e trasformato dai processi di secolarizzazione. […]Vi è, in sostanza, una decomposizione del religioso e una sua ricomposizione, attraverso la scienza e la tecnica. […]Ci si potrebbe chiedere tuttavia, se questo miscuglio arcaico fatto di teologia, scientismo e populismo non sia  in qualche modo, sotto forme certo diverse, ma non per questo meno significative, qualcosa che appartiene anche all’Occidente tout court. In altri termini, la crisi del soggetto, la presenza di ondate neoreligiose, di impostazioni fondamentaliste, di complessi aggrovigliati fra un ipertecnologizzazione dell’essere umano (vedi: abolizione della psicoterapia nei servizi pubblici, ricorso sempre più massiccio ai farmaci, distruzione dell’intimità, lotta alla cultura, ritorni di forme alternative e arcaiche di medicina alternative al sapere scientifico, rifiuto nelle forme più varie dell’alterità, da quella razziale a religiosa), se insomma tutto questo, e, ripeto, sotto forme ovviamente diverse dalle questioni esplorate da Benslama nella sua ricerca sull’islam, non finisca per definire uno spazio comune di problemi, una comune esigenza di riflessione sui modi attuali in cui la crisi del soggetto si istituisce. […]Benslama propone la tesi di uno spirituale femminile fondante l’islam poi rimosso (mi riferisco in particolare alla vicenda di Agar e alla salvezza del figlio). Benslama scrive che l’Islam procederebbe da questo ressort spirituale che fonda un’altra dimensione della religiosità e dona evidentemente, in senso teologico, un altro posto al femminile. Tuttavia, questa pista indiziale, ha qualche relazione – nel senso di una contrapposizione – con la tesi secondo cui la questione femminile in Islam, la questione del posto e dei diritti della donna sarebbe un’altra modalità di irruzione coloniale imposta  all’Islam?  […] Se le cose stanno in questi termini, si può dire che la proposta di Benslama cerca di innestare un dialogo con la comunità religiosa o con il religioso  tout court mostrando come esso stesso sia il frutto di barriere, censure, lacune, traduzioni, travisamenti, rimozioni? Come cioè si possa interpretare analiticamente il religioso  e allo stesso tempo rispettarne tutta la complessità e il suo diritto di esistenza? Benslama ci sta proponendo la possibilità che nell’ipotesi di una mancanza di codici traduttivi laici in quelle società, si possa sopperire complessizzando i codici religiosi esistenti, provando a farli esplodere dall’interno? O, invece, il suo gesto è assolutamente laico alla maniera di Rushdie, cioè un gesto che mostra la finzione all’origine, dell’origine? […] Vorrei aggiungere un’altra linea di indagine. In fondo il religioso, come hanno posto in evidenza diversi ricercatori in biologia e neuroscienze, o come ha scritto ad esempio Pievani in ‘Nati per credere’, è  il risultato di un’esigenza fondamentale dell’essere umano, quella di credere, di vincere la finitudine e il non senso, quello di costruire narrazioni adeguate alla ricerca di senso, storie dell’origine e dunque della morte e del dopo, istituire scopi ed obiettivi, permettere forme di cooperazione possibile. Vi sono pertanto degli incidenti nel corso della storia evolutiva, fra cui il ‘credere religioso’ che manifesta dei paradossali vantaggi adattivi. […] In questi termini, il religioso diventa un polo attrattivo istitutivo della permanenza dinanzi alla decostruzione soggettuale e identitaria non solo proposta dalla psicoanalisi, o dalla modernità e dalla sua accelerazione storica, ma dai mutamenti simbolici tout court o dl rischio del loro vacillamento… […]L’Islam allora sarebbe una delle forme in cui la salvaguardia dell’origine si manifesta? E’ per questo che dunque Benslama spezza questo mito dell’origine evidenziando al suo interno un’altra origine, un’altra storia? Ma, ed è la domanda finale che vorrei fare a Benslama, come spezzare nel reale questo nodo ideologico, storico, emotivo, sociale, politico? Cosa possiamo fare come psicoanalisti? O dobbiamo ritenere che il nostro esercizio, di per sé, possa scavare la roccia del fanatismo e della credenza identitaria?” 

Infine, ha preso la parola Gohar Homayounpour, del Teheran Psychoanalytic Institute, autrice del recentissimo libro ‘Doing Psychoanalisys in Tehran’, in uscita in Francia e in Italia. Anche della sua interessante relazione non abbiamo al momento la traduzione.

Per cominciare, Homayounpour ha presentato al pubblico «questo paradosso definito l’Iran».L’Iran, ci ha detto, ha una popolazione di settantatre milioni di persone; nella sola Teheran vivono tredici milioni di persone, e il 38 per cento della popolazione ha meno di diciotto anni. Le statistiche elaborate dall’Unicef  hanno mostrato che tra le nazioni islamiche, cinquantasette in tutto il mondo, l’Iran ha il maggior numero di blogger e 28 milioni di utenti Internet, e che la gioventù iraniana è tra quelle più politicamente attive. È interessante notare, aggiunge, che non ci sono più di dieci psicoanalisti in Iran, e che solo due di loro sono donne. Ne risulta che la domanda supera costantemente l’offerta, per cui si è creata una situazione che ha portato a pratiche analitiche complete per chiunque offra un ‘divano’. Per tale ragione, Homayounpour negli ultimi sei anni ha ‘costretto’ un certo numero di analisti negli Stati Uniti e in Europa ad alzarsi a ore impossibili e a rimanere svegli fino a tarda notte, per fare supervisioni e trattamenti psicoanalitici al telefono. In un certo senso, osserva Homayounpour, gli occidentali stanno insegnando i fondamenti della dottrina di Freud alle loro controparti dall’altra parte del mondo, in Iran. Si tratta del “Gruppo freudiano di Teheran” da lei fondato, dove si cerca di attenersi ai regolamenti IPA e di funzionare come un istituto analitico. Tali sforzi, dice, hanno sollevato la pratica della psicoanalisi in Iran a nuove altezze, fino a quote mai raggiunte prima. Il desiderio e la sete di psicoanalisi che ha osservato in Iran è ciò che l’ha fatta rimanere, a prescindere dalle difficoltà e dalle ‘lotte’ che deve sopportare ogni giorno a causa del paradosso di fare psicoanalisi nella Repubblica Islamica dell’Iran, difficoltà e lotte amplificate per una giovane donna come lei. Da tale premessa, Homayounpour prende le mosse per descrivere la difficoltà connessa all’esercizio della psicoanalisi quando praticata da una donna, per di più giovane (Homayounpour ha trentacinque anni) e formata all’estero. A Teheran, dove ad un macro-livello di ordine simbolico patriarcale il ruolo dell’analista come ‘soggetto supposto sapere’ è possesso specifico degli uomini, ad una psicoanalista donna manca innanzitutto il fallo, necessario, in quel contesto, per acquisire la conoscenza dell’inconscio. D’altronde, nella pratica, tutti i riti ufficiali di passaggio sono costruiti in funzione della struttura di un sistema di legittimazione formale teso a rimuovere qualsiasi illusione di un fallo da parte di una psicoanalista donna. Quando una donna analista, tanto più se giovane e formata in America, viene ad essere legittimata a Teheran, deve tornare sul divano per elaborare l’esperienza castrante precedente, per imparare a trattare con altri in posizioni di ‘potere’ e per legittimarsi in tal senso.

Inoltre, Homayounpour sottolinea come dal punto di vista occidentale sembri esserci una correlazione inquietante: quanto più l’Iran diventa politicamente scandaloso tanto più diventa interessante e ‘oggetto di desiderio’ per l’Occidente, come mostra la domanda per tutti i tipi di produzioni artistiche iraniane, dai film alle foto alla letteratura. A parere della relatrice, c’è un obiettivo specifico  nella creazione di questo ‘altro esotico’, accettato e premiato come’Art Terrorist’ per ilmodo in cui lei stessa lo ha definito. Come accade in famiglia, il bambino ‘delinquente’ è colui che ottiene la maggior attenzione da parte dei genitori. Homayounpour racconta poi come la sua esperienza di descrivere in convegni all’estero il modo di fare psicoanalisi in Iran sia  stata interessante, a causa della reazione del pubblico sul suo conto, che lei sintetizza nell’espressione ‘rifiuto affascinato’ utilizzata da Julia Kristeva. Eppure, sottolinea Homayounpour,  questo fascino è accompagnato da rifiuto e dalla ‘fantasia’ che sia impossibile fare psicoanalisi in Iran. Come se, dice Homayounpour, la sensazione fosse quella di aver causato nei colleghi in Occidente una sorta di delusione presentando materiali clinici simili a quelli relativi a pazienti di Boston o New York. L’esotico (o orientale) ‘Altro’ è affascinante per gli occidentali, ma è questo tipo di sguardo che fa l’Altro ‘inferiore’; anche i francesi affascinano per il loro ‘esotismo’,  non è lo stesso tipo di esotismo di cui i francesi godono. Homayounpour infatti ritiene che ci sia una differenza tra l’essere erotizzati per una crème brulée o per via dello chador. D’altronde, senza entrare nei dettagli della posizione teorica di Said, la relatrice sottolinea la responsabilità degli ‘orientali nella creazione del fascino dell’orientalismo: “dobbiamo smettere – dice – di incolpare l’Occidente per la nostra condizione, per il nostro destino. Il cambiamento inizia dentro di noi. Dobbiamo rinunciare al piacere di essere considerati come erotici, esotici e strani. Dobbiamo venire faccia a faccia con la nostra inevitabile ordinarietà. Secondo Deleuze e Guattari, l’impossibilità di essere “nella vostra stessa casa” ci fornisce un malinteso ontologico: la tragedia della identità.” Homayounpour cita Kristeva – secondo la quale vivere con l’Altro significa vivere con questa domanda: “Sono l’Altro?” – e Rimbaud, che dice: “Io è un altro”.

A questo punto, la relazione affronta la questione posta spesso nella pratica clinica dai pazienti all’analista: Da che parte stai? In questa parte del suo contributo, Homayounpour cerca di capire in che modo lo svolgersi degli avvenimenti politici in Iran hanno caratterizzato ciò che accade nella stanza d’analisi in generale e nel transfert in particolare. Molto è stato scritto sulla politica della psicoanalisi e sulla psicoanalisi della politica, e la politica in relazione alla situazione analitica è un aspetto indispensabile di cui tenere conto in qualsiasi analisi del transfert e della resistenza. Eppure c’è poco in letteratura sul contesto socio-politico della pratica analitica e sull’impatto degli eventi politici sul processo analitico all’interno della stanza di terapia. La domanda posta a questo punto è: come una grave crisi politica nella società potrebbe influenzare lo svolgimento del processo analitico all’interno della seduta? A lei pare che, nella relazione tra analista e paziente, la questione fondamentale, che sovrasta tutte le altre, sia la seguente: quanto simili siamo? Quanto è difficile da tollerare essere con qualcuno che non è (come) me? Al centro della scena, campeggia in questi termini il concetto (e la questione) di me/non me. E, infine, quella: sei dalla mia parte o dalla loro? In un certo senso la comunicazione con l’analista sembra caratterizzarsi in questi termini: “perché tu mi possa capire, devi essere dalla mia parte, e affinché io possa sentirti essere dalla mia parte, devi essere esattamente come me: mi puoi capire solo se sei una replica di me”. Per concludere, Homayounpour osserva che nel mondo di oggi è diventato sempre più difficile nascondersi dietro i divani analitici e praticare la psicoanalisi ‘dalla poltrona’. Il nostro desiderio più prezioso, quello di ascoltare l’inconscio, può essere soddisfatto solo se, come dice Miller, non manchiamo di tener conto del fatto che “uno psicoanalista può funzionare solo se è in diretto contatto con il sociale, ma nel suo studio può anche trascurare di rendersene conto.” 

In dialogo con lei, Vanna Berlincioni, docente di etnopsichiatria al corso di specializzazione in Psichiatria e membro della SPI. Dal suo contributo:

“L’interessantissima relazione di Gohar Homayounpour ci mostra la riflessione appassionata di un’esperienza analitica in Iran, in condizioni difficili e in un quadro sociale estremamente complesso, di cui un osservatore occidentale come me, possiede una conoscenza limitata. Colpisce e sorprende il fatto che in Iran si manifesti un bisogno di psicoanalisi, “una sete”, come la chiama l’autrice, che rimanda ad una necessità elementare e assoluta in una popolazione travagliatissima da avvenimenti socio politici sconvolgenti. […] Molte sono le suggestioni del suo lavoro. Intanto va osservato che la dott.ssa Homayounpour si è formata analiticamente negli Stati Uniti e ha vissuto all’estero per un ventennio: solo da qualche anno è rientrata a Teheran e dal suo scritto sembra che lo shock culturale maggiore per lei sia stato il ritornare in Iran piuttosto che venire a contatto con il mondo occidentale. […] Nei paesi islamici, ad esempio,come ci dice Homayounpour, chiedere ad un uomo iraniano di sdraiarsi sul lettino può essere considerato un invito sessuale, o può farlo sentire in una posizione di sottomissione difficile da tollerare  o essere considerato un atto di maleducazione. […] “Resta comunque aperta la questione, come sottolinea Mazarweh (Psiche, 1, 2008), se la psicoanalisi nel suo complesso sia adatta all’ambito culturale islamico, oppure se esso produrrà forme di terapia proprie, diverse, che eventualmente faranno riferimento solo a singoli aspetti della psicoanalisi, quelli ritenuti idonei” (p.79), al fine di evitare il “colonialismo intellettuale” di formatori provenienti da altre culture (Mazarweh, 2008). E su questo sarebbe interessante avere un parere di Gohar Homayounpour. […] Due parole sulla questione dell’orientalismo: l’occidente ha prodotto in vario modo l’orientalismo che percorre da secoli e in varia forma la cultura europea: questo esotismo ha rappresentato e continua a rappresentare la versione idealizzante della negatività che investe lo straniero e l’estraneo. Ma allo stesso tempo nel pensiero di Said rappresenta uno strumento per costringere le culture orientali nella gabbia di formule stereotipate. Sarebbe utile considerare analogamente i moti di un occidentalismo dell’oriente di cui la psicoanalisi, con le attese che suscita, potrebbe essere una componente tutto sommato non necessariamente positiva. […] D’altra parte sia che lo si rifiuti, sia che lo si accolga, finiamo per crearlo questo “altro”, questo “diverso”. Di lui abbiamo bisogno e nello stesso tempo lo neghiamo. Come diceva Baumann tutte le società producono stranieri e ognuna ha il suo. Del resto la produzione del diverso, del nemico, come sottolinea G.Homayounpour riferendosi a Volkan, è indispensabile per sentirsi buoni e creare una coesione interna alla società di appartenenza, da noi come nelle società africane, dove la stregoneria, secondo l’interpretazione dell’antropologo M. Aime (2009) svolge proprio questa funzione. Egli cita un manifesto tedesco degli anni ’90 e che io stessa ho visto affisso per le strade di una città italiana, che recita: “Il tuo Cristo è ebreo, la tua macchina è giapponese, la tua pizza è italiana, la tua democrazia greca, il tuo caffè brasiliano, la tua vacanza turca, i tuoi numeri arabi, il tuo alfabeto latino, solo il tuo vicino di casa è uno straniero”. Gli stranieri sono in noi e per questo abbiamo bisogno di negarli, come traspare in alcune delle vignette di Homayounpour. La tematica dell’alterità è comunque così complessa che non possiamo che sfiorarla: sta di fatto, come diceva T.Nathan, che l’incontro con l’altro è sempre traumatico, là dove per Sartre è “l’inferno”. Potremmo sottolineare con Severino la perenne problematicità dell’”altro” che resta sempre un “mistero”, mentre noi “navighiamo al di sopra di massicci strati di presupposti e di pregiudizi”. […] Nel lavoro si ribadisce infine un aspetto importante che riguarda il rapporto tra realtà esterna e interna. Non si tratta di mettere in discussione la regola fondamentale che prevede la valorizzazione del mondo interno e la “prescrizione” di lasciare tra parentesi il giudizio di realtà sulle comunicazioni del paziente, accentuando la dimensione linguistico immaginativa del discorso come elemento esclusivo di pertinenza. Il concetto di realtà psichica, nato dal ridimensionamento della teoria della seduzione come evento traumatico della realtà fattuale, consente di indirizzare lo sguardo ai desideri e ai fantasmi inconsci che popolano la vita psichica. “Il nevrotico deve avere in qualche modo ragione”, perchè i suoi sintomi si basano su una “realtà psichica” scriveva Freud nel 1915. La novità della psicoanalisi consiste nel fatto che lo psichico è valorizzato in una prospettiva materialistica ed è trattato in termini di realtà, sebbene “la realtà psichica sia una particolare forma di realtà che non deve essere confusa con la realtà materiale (Freud, 1919). Quindi non considereremo come realtà materiale, come verità ciò che il paziente porta come realtà/verità, poiché non sappiamo se lo sia o meno. Così come in analisi ci occupiamo della realtà interna del paziente e della nostra, non possiamo negare l’esistenza di una sua e una nostra realtà materiale/esterna (Kirshner, 1993). […] Così come cerchiamo di aiutare il paziente a non denegare la realtà interna, anche il diniego della realtà esterna è un meccanismo patologico in cui non dovremmo incorrere. Sta a noi, attraverso un atteggiamento aperto e flessibile, modulare il lavoro di integrazione, “dosare” l’utilizzazione del dato esterno e interno, facendosi guidare da una consapevole percezione controtransferale   del modo di recepire ed elaborare le interpretazioni da parte del paziente”.

 

Anche nel pomeriggio i tempi sono stati perfettamente rispettati, il che ha reso di nuovo possibile la ricchezza del dibattito. Molte le richieste di approfondimento da parte del pubblico, sia colleghi che studenti, relative alla questione dell’Edipo, a quella della ‘noità’, dello ‘stai con me’? Sei me?

A fatica, e con il senso che si sarebbe potuti andare avanti a discutere ed ‘esplorare’, Fausto Petrella ha dovuto tirare le fila e ‘imporre’ la conclusione dei lavori perché la sala – ahimé – doveva quel punto essere liberata….

 

[1] A mia conoscenza mai tradotto in italiano.

[2] Abbiamo tracciato a grandi linee una lettura di questo tipo in L. Boni, “Gandhisme et organisation libidinale de la lutte, éléments pour une lecture matérialiste de la non-violence”, in L. Boni (dir.), L’Inde de la psychanalyse, op. cit., pp. 243-258.    

[3] Abbiamo tracciato a grandi linee una lettura di questo tipo in L. Boni, “Gandhisme et organisation libidinale de la lutte, éléments pour une lecture matérialiste de la non-violence”, in L. Boni (dir.), L’Inde de la psychanalyse, op. cit., pp. 243-258.      

[4] Sul tema, si veda il saggio essenziale di Ashis Nandy, The Intimate Enemy. Loss ad Recovery of Self Under Colonialism, New Delhi, Oxford University Press, 1984. 

[5] Per la corrispondenza Bose-Freud, cfr Samiksa, special issue on Bose, 1955. Sulla teoria degli “opposite wishes”, cfr. G. Bose, “Opposite fantasies in the release of repression”, Indian Journal of Psychology, 10, 1/3, 1935, pp. 29-41 

[6] Sudhir Kakar propone dunque di considerare il “complesso di Ganesh” come migliore illustrazione della versione indiana dell’Edipo (cfr. “Psicoanalisi lungo il Gange”, intervista con L. Boni, op. cit., p. 26). 

[7] Per quanto riguarda il rapporto di Gandhi con la psicoanalisi, il solo cenno che vi compaia nei quaranta volumi che raccolgono i suoi scritti è in merito ad un articolo di Owen Berkeley-Hill, “Hindu-Muslim Unity” (International Journal of Psychoanalysis, 6, 1925) che Gandhi ebbe modo di discutere alla fine degli anni ‘20 al domicilio di Girindrashekar Bose, sede (ancora oggi) dell’ Indian Psychoanalytical Society. L’articolo propone una riconciliazione tra indù e musulmani intorno a una serie di pasti totemici ritualizzati durante i quali gli indù accettino di sacrificare, almeno simbolicamente, le vacche, e di sospendere pertanto l’identificazione ricorrente del musulmano col profanatore della Madre, prendendo a loro un po’ di distanza rispetto a un’ideale materno paralizzante. Ritroviamo quindi, in questa applicazione “selvaggia” di Totem e Tabù, un’opposizione binaria maschile/femminile, ed una concezione di quest’ultimo come essenza pre-simbolica senza possibilità di divenire. Non si conosce la reazione di Gandhi a queste suggestioni di Berkeley-Hill, di cui si limita a far menzione nella sua corrispondenza (cfr. Mahatma Gandhi, Collected Works, vol. 20, Ahmedabad, Navajivan Trust, 1968, pp. 89-90) sebbene sia possibile che un verbale dell’incontro sia ancora conservato in Parsibagan Lane. Per un’analisi di quest’episodio, cfr. Sudhir Kakar, The Colors of Violence. Cultural Identities, Religion and Conflict, Chicago University Press, 1996.   

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