La Cura

Dal setting psicoanalitico alla psicoanalisi del setting. C. Genovese

15/11/21
Dal setting psicoanalitico alla psicoanalisi del setting. C. Genovese

F.LEGER 1917

Abstract: Gli snodi cruciali nella storia del setting psicoanalitico.

DAL SETTING PSICOANALITICO ALLA PSICOANALISI DEL SETTING

Celestino Genovese

Allorché il 28 settembre 1918 Sigmund Freud prese la parola al V Congresso di psicoanalisi che iniziava quel giorno a Budapest, accadde una cosa inconsueta: invece che parlare a braccio, come faceva di solito – e soltanto in seguito scrivere ciò che aveva detto in vista della pubblicazione –  il fondatore lesse alcuni fogli che aveva preparato nei giorni precedenti. Sul motivo di questa novità si potrebbe sorvolare, se non ci fosse un particolare che ci suggerisce un’ipotesi di qualche interesse. Il congresso si stava tenendo in Ungheria, perché da quel paese provenivano alcuni autori particolarmente “creativi”, primo tra i quali colui che Freud considerava un suo allievo prediletto, Sándor Ferenczi. Senonché proprio in quel periodo Ferenczi stava lavorando ad una tecnica che prevedeva  un ruolo piuttosto attivo dell’analista, che sembrava travalicare i suggerimenti freudiani di qualche anno prima. L’esigenza del medico viennese di ribadire in maniera inequivocabile il suo punto di vista sull’argomento, lo convinse probabilmente a dosare con attenzione le parole, per non urtare la suscettibilità dell’allievo ungherese, ma senza lasciare ambiguità. Ecco come si espresse: “Vi sarete resi conto che si schiude qui un nuovo campo per la tecnica analitica, la cui elaborazione richiederà grande sforzo e impegno e darà luogo a prescrizioni ben precise. Oggi non cercherò di introdurvi a questa nuova tecnica, che è ancora in fase di sviluppo, e mi accontenterò invece di enunciare un principio fondamentale che probabilmente diventerà dominante in questo campo. Questo principio si può formulare così: ‘Nella misura del possibile, la cura analitica dev’essere effettuata in stato di privazione, di astinenza’ ”.

Quello, che, a partire dal 1913, era stato soltanto uno dei consigli sulla tecnica, acquista quindi nel ’18 il carattere addirittura di un principio fondamentale da affermare in maniera categorica, e che  facesse da argine a pratiche considerate evidentemente con perplessità.

È un percorso che ben sintetizza l’evoluzione storica di un concetto, che oggi denominiamo setting, che, come accade spesso con i vocaboli stranieri che entrano in uso nel linguaggio psicoanalitico, finiscono con l’acquistare una valenza che conferisce loro uno statuto scientifico che inizialmente nella loro lingua non avevano.

Nel 1986 Fausta Ferraro ed io pubblicammo una nota storico-critica sulla Rivista di Psicoanalisi, nella quale ripercorrevamo proprio le trasformazioni che questo concetto andò subendo già a partire dal lavoro freudiano. Quelle riflessioni, a mio parere, conservano tuttora la loro validità.

Il fatto che il cambiamento di tono nelle indicazioni di Freud si verificasse proprio nel 1918 può forse essere spiegato, oltre che con la già citata circostanza delle teorie di Ferenczi, con la fine imminente dell’impero austro-ungarico, che invece nel ’14, alla vigilia della guerra, con le sua ambizioni di potenza aveva galvanizzato il medico viennese, favorendo quell’humus di ottimismo che aveva ispirato la composizione dei saggi metapsicologici. Ora il crollo nel I conflitto mondiale apre un ciclo depressivo che, accentuato anche da problemi familiari (il figlio Martin era in serie difficoltà sul fronte italiano!), si esprimerà con la composizione di saggi come Al di là del principio di piacere (1919), nel quale per la prima volta è avanzata l’ipotesi di una pulsione di morte! Pensiamo, in altri termini, che Freud avvertisse l’esigenza di enunciare con determinazione i punti cardine della sua disciplina, che restassero tali anche dopo di lui.

In realtà, egli aveva davanti ancora due decenni pieni, durante i quali la sua produzione scientifica fu particolarmente fertile, ma contemporaneamente attraverso l’opera di un’altra analista di origine ungherese, Melanie Klein, la psicoanalisi era andata allargando i suoi campi d’azione, spingendosi, attraverso l’analisi infantile, nell’area dei processi psichici più precoci e più vicini alla patologia psicotica, mai prima d’allora trattati psicoanaliticamente. E così, quando proprio alla vigilia del nuovo conflitto mondiale Freud morì, si pose di nuovo il problema del che fare del suo lascito teorico-clinico, dando luogo a due diverse tendenze presenti nel movimento: una che aspirava ad una standardizzazione della tecnica del fondatore con una serie di prescrizioni ben definite ed articolate, rappresentata ad esempio da Edward Glover, il quale si premurò di sondare con un questionario le pratiche più utilizzate dagli analisti; un’altra che, pur conservando un’attenzione alla peculiarità dell’atmosfera analitica, tendeva a lasciare alla creatività dell’analista la conduzione della terapia, come ad esempio Otto Fenichel, secondo il quale in analisi nulla è precluso purché si sappia bene cosa si sta facendo e perché.

La discussione fu resa oltremodo difficile dalle aspre controversie che si svilupparono anche durante la guerra sui contributi delle teorie kleiniane, che, mentre per alcuni rappresentavano un nuovo orizzonte per la psicoanalisi, per altri costituivano invece una minaccia all’impalcatura che aveva lasciato il fondatore. I contrasti furono laceranti e rischiarono di rompere l’unità del movimento psicoanalitico, finché, essendosi aggiunti agli studi della Klein sui processi psichici precoci quelli di Michael Balint, di Wilfred Bion, di Donald W. Winnicott e tanti altri, ed essendo trascorsi degli anni dalla morte di Freud e dalla fine della guerra, si crearono finalmente le condizioni per una riflessione relativamente serena sui problemi della tecnica.

Fin dall’inizio degli anni ’50 erano stati in molti a riprendere il concetto di setting, talvolta con questa denominazione, talaltra alludendovi senza usare il termine. In inglese, infatti, il vocabolo vuol dire semplicemente istallazione, collocazione, oppure definizione, delimitazione, intesi sia con riferimento allo spazio che al tempo. Pertanto all’origine il significato più banale del termine, applicato al lavoro psicoanalitico, era l’importanza che le sedute si svolgessero “alla stessa ora nel luogo solito”. A partire, invece, dalla nuova consapevolezza che l’attenzione alle procedure tecniche assolve ad una funzione più complessa e sostanziale, alcuni autori si dedicarono a ripensare radicalmente soprattutto al rapporto fra setting e transfert, individuando in vario modo nel primo una condizione determinante per lo sviluppo del secondo (Cfr. Ida Macalpine, Phillis Greenacre, R. Spitz e molti altri). La questione era tanto sentita che si avvertì il bisogno di dedicare un intero Panel del XX Congresso Internazionale di Parigi (1957) alle Variazioni della tecnica psicoanalitica classica. Il titolo del workshop si spiega se si pensa che in contemporanea in un altro Panel si discuteva il tema de Le alterazioni dell’Io. In altri termini, il fatto che gli studi di quegli anni avessero esteso il campo d’indagine alle patologie psicotiche e al funzionamento proto-mentale imponeva una seria riflessione sulla possibilità di utilizzare la tecnica classica, basata sull’uso esclusivo dell’interpretazione a cui le costanti del setting facevano da condizione formale. Cominciava ad essere ormai evidente che spingere la regressione – favorita dal setting analitico – fino ai livelli che precedono il processo di soggettivazione e soprattutto preverbali dell’individuo – io aggiungo addirittura  pre-rappresentazionali – esigeva una riflessione radicale su quegli elementi che fino a quel momento erano stati considerati da autori come K. Eissler  soltanto delle variazioni necessarie (parametri) alla preparazione dell’interpretazione. Proprio in quel periodo, infatti, studiosi come Donald W. Winnicott individuavano in un ambiente facilitante l’agente principale del processo maturativo dell’infante, e questo non poteva non portare a riflettere sulla funzione del setting come ambiente facilitante del processo analitico in quelle situazioni nelle quali l’Io non era appunto integro e la soggettivazione era in corso.

Accadde così che quella che era stata pensata come una condizione formale perché la terapia si potesse svolgere, cominciò ad essere presa in considerazione essa stessa come oggetto dell’esplorazione psicoanalitica. E, man mano che i contributi di Winnicott si andavano consolidando, anche gli studi sul setting andarono assumendo una dignità scientifica che andava ben oltre le questioni di mera tecnica: gli anni ’60 e ’70, infatti, videro fiorire una serie di ricerche sul funzionamento proto-mentale che si interconnettevano, più o meno direttamente, con la funzione sempre più determinante che si andava riconoscendo al setting psicoanalitico. E ciò che maggiormente sorprendeva era la confluenza su queste questioni di approcci teorico-clinici molto eterogenei che originavano da scuole di pensiero che erano state storicamente addirittura agli antipodi tra loro. Basti pensare ai lavori di Esther Bick, D. Anzieu, Francis Tustin, E. Gaddini, D. Meltzer, Piera Aulagnier e tantissimi altri.

Ma l’esempio forse più significativo di questa evoluzione è rappresentato da un intervento fatto da José Bleger al II Congresso Psicoanalitico Argentino a Buenos Aires nel giugno del 1966 e pubblicato l’anno successivo con il titolo eloquente Psicoanálisis del encuadre psicoanalítico. Si tratta di un saggio che enuncia esplicitamente come il setting sia ormai diventato esso stesso un problema teorico-clinico e l’autore si spinge fino a considerarlo alla stregua di un’istituzione.

Secondo Bleger, l’analizzando aderisce con la coscienza al setting che l’analista propone, ma inconsciamente proietta in esso il proprio setting, che è appunto l’istituzione della sua primitiva relazione simbiotica. Quest’ultima rimane di solito muta e diventa un problema (e solo come tale si manifesta) allorché minaccia di entrare in crisi. Tuttavia la simbiosi madre-bambino, e per analogia il setting, è fondamentale per lo sviluppo proprio quando è silente, in quanto da essa dipende la formazione dello schema corporeo, dell’Io e, in ragione complementare, dell’oggetto. In questo modo, il setting, in quanto garante delle costanti (cioè il non processo), può trasformarsi da sfondo di una Gestalt in figura, cioè in processo[1].

È un’intuizione che possiamo considerare uno spartiacque, attraverso il quale si può affermare il paradosso che l’attenzione alle costanti alimenti quello che diviene di fatto un agente trasformativo. La ripetizione ritmica delle sedute analitiche, proprio come la ripetizione ritmica delle cure materne, con tutto il portato controtransferale, al contrario della coazione a ripetere, finisce con il costituire la spinta propulsiva di un processo psicoanalitico molto simile al graduale processo di soggettivazione del bambino.

Gli anni ’80 e ’90 hanno visto consolidarsi questa consapevolezza, che, con un’espressione poco efficace e per nulla esplicativa, viene considerata patrimonio della psicoanalisi classica.

Lo spazio che mi è stato concesso m’impone di fermare a questo punto la ricostruzione storica del concetto. Ma molto si potrebbe dire su alcuni sviluppi più recenti, che non si pongono in continuità con quanto abbiamo esposto finora. Soprattutto da parte di qualche autore americano vengono proposti interventi di alterazione del setting così come lo abbiamo delineato, talvolta acriticamente adottati anche da noi, apparentemente senza la consapevolezza che non si tratta soltanto di variazioni della tecnica (penso, ad esempio, all’enacment!), bensì di pratiche che contraddicono l’imperativo freudiano del 1918 sull’astinenza e la neutralità dell’analista!

Come diceva Fenichel, tutto si può fare, ma bisogna sapere bene il perché, e ciò comporta una revisione puntuale e non frettolosa di molte implicazioni sia teoriche che cliniche della psicoanalisi.


[1] Da Genovese, Il protomentale nel setting psicoanalitico. Prospettive psicoanal. nel lavoro istituzionale. 9, 3, 1991.

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