La Cura

Il perturbante nella clinica contemporanea V. De Micco

7/09/23
"Il perturbante nella clinica contemporanea" V. De Micco

LASZLO MOHOLY NAGY, 1936

Parole chiave: Perturbante, Confini, Straniero, Rappresentabile/Irrappresentabile, Contemporaneità

Il perturbante nella clinica contemporanea

Virginia De Micco

Abstract La dimensione psichica del perturbante è diventata una cifra caratteristica della clinica contemporanea? Partendo dalle intuizioni freudiane del testo del 1919 viene ripercorsa la dinamica dello ‘sconfinamento’ come modalità specifica delle esperienze che definiamo perturbanti, sia nelle situazioni terapeutiche che nella realtà sociale. Si tratta di una labilità dei confini tra sé e l’altro, tra realtà e fantasia, tra rappresentabile e irrappresentabile, tra noto e ignoto, tra familiare e non familiare, nonché di riconoscere l’oscillazione heimlich-unheimlich come costitutiva del metodo psicoanalitico che scopre la risonanza sconosciuta del proprio.
In particolare vengono esaminati alcuni funzionamenti perturbanti in seduta come modalità specifiche di ‘emersione’ di aree non simbolizzabili e i meccanismi di riconoscimento/disconoscimento di una dimensione straniera interna nelle relazioni con l’alterità culturale.

Il testo freudiano dedicato al ‘perturbante’ vuole chiarire innanzi tutto l’esperienza del perturbante o l’effetto perturbante: a partire da un effetto di scrittura, un effetto letterario-retorico, si intende comprendere come, o cosa, sprigioni quella singolare condizione sensoriale ed emotiva, quel turbamento/turbolenza emotiva richiamati in particolare dalla traduzione italiana del termine Unheimlichkeit.

Partita dunque da una dimensione di psicoanalisi ‘applicata’ la parabola del perturbante approda ad una dimensione clinica   ma in che senso possiamo interrogarci su una compiuta qualità perturbante all’interno della clinica psicoanalitica? E quale significato può avere la percezione che questa qualità singolare sia sempre più rappresentativa della clinica ‘contemporanea’?

E, ancora di più, in che senso la nostra stessa ‘contemporaneità’ sembra mostrare sempre più una qualità ‘perturbante’ nelle sue stesse dinamiche sociali e culturali?

Nella sua formulazione più generale Freud definirà la percezione dell’unheimlich come qualcosa che doveva restare nascosto e invece riappare, in questa dizione più ampia non si tratta dunque solo del “ritorno del rimosso,” dal momento che la caratteristica del perturbante, sia negli esempi che descrive tratti dalla letteratura che dalla vita quotidiana, è che quel qualcosa che torna/riappare non resta ‘confinato’ nella dimensione psichica, dove genera sintomi e angoscia, ma ‘sconfina’ appunto nella realtà esterna.

Non a caso questo scritto, pubblicato proprio a ridosso della svolta degli anni ’20, svolta metapsicologica e clinica, sembra costituire proprio una sorta di cerniera tra una topica psichica costruita attorno al conflitto pulsionale, pulsioni erotiche/pulsioni di autoconservazione, nel mondo della nevrosi dunque, e una costruita attorno al conflitto Io/realtà, nel mondo della psicosi quindi. L’effetto ‘perturbante’ avrà a che fare allora essenzialmente con una esperienza di sconfinamento: sarà necessario partire innanzi tutto da una riflessione sui confini, su quei processi psichici e culturali che consentono, o meno, di edificare dei confini.

Questo testo cerniera ci induce dunque a pensare uno spettro di funzionamenti psichici al limite, non solo tra nevrosi e psicosi, ma potremmo dire tra ‘normalità’ e ‘follia’, intendendo con ‘follia’ un funzionamento psichico limite appunto cui anche la psiche sana, diciamo così, è sempre esposta[1].

Queste esperienze al limite sono in diretta risonanza con i processi di costruzione sociale e psichica dei ‘confini’, confini tra esterno ed interno, tra sé e l’altro, tra fantasia e realtà. Questi confini non sono dati fin dall’inizio ma si costituiscono grazie ad una serie di processi psichici complessi come ben sappiamo; a seconda delle vicissitudini individuali di tali processi poi la tenuta dei confini stessi, o il rischio di ‘sconfinamento’, saranno maggiori o minori. Ma questo ‘posizionamento’ del confine dipende anche dalle configurazioni antropologiche e culturali dei gruppi umani, ed è soggetto a trasformazioni storiche. Una esperienza che per un particolare gruppo umano o in una particolare epoca storica, ad esempio, può risultare contenuto all’interno del confine della normalità, ovverosia dell’accettabilità culturale e della riconoscibilità psichica, può non esserlo in un’altra temperie culturale o storica e, dunque, comportare un’esperienza di sconfinamento, un contatto col perturbante.

Nella nostra contemporaneità liquida, in cui la capacità di costruire confini psichici e culturali solidi e di riconoscere differenze stabili, a cominciare da quella sessuale, appare molto compromessa, si intuisce dunque quanto l’esperienza del perturbante diventi pervasiva, sia a livello psichico che relazionale che sociale.

Gli stessi processi di soggettivazione nella contemporaneità risentono sempre di più di quella che Marc Augè individua come la vera caratteristica della nostra epoca: l’incapacità di fare esperienza dell’alterità, sia di concepirla che di sperimentarla, alterità che viene invece progressivamente soppiantata dalla dimensione del doppio nelle sue molteplici figurazioni[2].

Tema del doppio che non a caso già Freud segnalava come filone specifico del perturbante, intimamente un-heimlich, salvifico da un lato mortifero dall’altro, conoscibile/inconoscibile per eccellenza: i processi di soggettivazione subiscono allora una profonda torsione nel momento in cui si cerca un rispecchiamento fondativo nella dimensione del doppio[3] piuttosto che dell’Altro, tendendo ad abolire le differenze di genere e di generazione e riverberando all’infinito un circuito narcisistico inarrestabile, in cui più si cerca di colmare il vuoto lasciato dall’assenza del terzo più invece la falla si allarga.

Ma torniamo un attimo al testo freudiano giusto per sottolineare quanto le diverse traduzioni[4] del termine Unheimlichkeit evidenzino, forse meglio svelino e riverberino, quella eterogeneità e polisemicità di significati che già Freud discute con sagacia. Ripercorrere i significati del termine significa già fare una esperienza unheimlich per così dire, ad ogni nuova sfumatura il senso appena colto pare di nuovo perdersi e invertirsi, restando in una allusività incerta e sospesa, in cui suono e senso paiono singolarmente fondersi e confondersi; basti pensare al perdurante turbamento che il termine perturbante induce appunto, all’inquietante perdita di confini e limiti netti che la parola stessa sembra evocare. Ecco che, ascoltata attraverso la sonda dell’unheimlich, dell’inquietante estraneità come vuole la traduzione francese, la lingua, il nostro apparato simbolico per eccellenza, ci restituisce invece qualcosa che sembra porsi al di là del simbolico[5].

Il perturbante nella lingua

La lingua ‘straniera’ appartiene agli esordi stessi della cura psicoanalitica: si ricorderà che Anna O., la celebre paziente di Breuer, la battezza non a caso talking cure, paradossalmente la lingua ‘efficace’ per la cura sembra essere una lingua non ordinaria. Anna O. pretende di essere intesa in una lingua ‘altra’, l’inglese appunto, in cui, come sempre avviene appena la lingua esce dalla situazione di comunicazione consueta, restano vive e attive quelle componenti unheimlich, perturbanti appunto, che percorrono la lingua stessa. Capita spesso infatti di avvertire una lingua straniera o anche un dialetto, una particolare inflessione o accento, molto seducenti ed eccitanti (il celebre film Un pesce di nome Wanda ha fatto scuola), questo effetto corrisponde al poter riscoprire, risentire, all’interno della lingua non usuale tutti i residui sensoriali/sessuali da cui l’esperienza linguistica era stata investita a suo tempo nell’infanzia. Da questo punto di vista la stessa lingua materna diventa anche, contemporaneamente, la prima lingua ‘straniera’ heimlich/unheimlich appunto, in quella sorprendente co-incidenza che Freud ci propone nel suo saggio, in cui proprio ciò che ci è più familiare ci svela d’improvviso il suo volto più inatteso, quella parte ‘straniera’, ignota, di ciò che ci è invece più noto e conosciuto.

Esperienza dunque del pulsionale nella lingua, che la lavora e la scava dall’interno e la cui traccia si rende evidente spesso attraverso particolari scelte ‘stilistiche’, oppure nell’uso di contaminazioni linguistiche o nella costruzione di singolari neologismi.

Si tratta della traccia lasciata nella lingua dallo sforzo di significazione che l’ha attraversata: piuttosto che articolazione tra significanti e significati, frutto di un lavoro di rappresentazione già compiuto –quindi un uso simbolico della parola- si tratta di un lavoro che testimonia di qualcosa in cerca di rappresentazione attraverso la parola. Parola che diventa anche materia sonora malleabile, lavorata dal fantasma o da affetti in cerca di rappresentazione, parole dunque che si ‘avvertono’ più nel loro effetto/affetto che nel loro significato/senso.

Dunque l’effetto ‘perturbante’ attraverso la lingua sembra chiedere all’analista di sintonizzarsi su queste pieghe segrete, su queste eco che ‘deformano’ la lingua e scavano il suo ascolto, depositandovi a volte vere e proprie schegge sonore, frammenti grezzi in cerca di significazione, inducendo un effetto decisamente ‘perturbante’ nella mente dell’analista, costretto proprio da quella “incertezza intellettuale” che Freud descrive come specifica, a chiedersi ‘di cosa si stia veramente parlando’, cosa stia cercando di ‘prendere forma’ attraverso la lingua, quali aspetti affettivo/sensoriali stiano ‘lavorando’ le parole, messa in forma che del resto costituisce una fondamentale operazione di ‘simbolizzazione primaria’ (Roussillon).

La parola analitica non è solo ‘sfogo parlato’ ( come Breuer descrive le sedute con Anna O., quelle che ‘ripuliscono il camino’) ma anche, al contrario, esperienza di un vero e proprio ‘imbuto’ affettivo (pulsionale-emotivo) in cui faticosamente la parola letteralmente esce  dalla carne: parole che possono essere trovate/create, dunque pronunciate per la prima volta, solo torcendosi le mani o “aggrovigliandosi le budella”, autentica traccia ‘organica’ di cosa sia il ‘legamento’ , l’annodamento, della parola alla cosa:

Così una giovane paziente si sforza sempre molto per dire come si sente, ogni volta è come se inciampasse nelle parole, sbuffa, esita, sospira, si arrotola e srotola i capelli, sembra davvero che soffra per questa cosa che non riesce a uscire, che non trova una ‘forma’, fino a quando dice: “mi sento, mi sento… incioccata, esiste? Si può dire?”

Il perturbante in seduta

Ma cosa accade quando ci troviamo di fronte a qualcosa che appare proprio di un altro ordine rispetto alla parola?  

Ecco che la dimensione del perturbante pare allora reificarsi in seduta attraverso una angosciosa esperienza di sconfinamento in cui la ‘realtà’ fa letteralmente irruzione nello spazio ‘regolato’ del setting, alterandone quella delicata funzione di ambiente ‘simbolizzante’ sottolineata in precedenza. Attraverso questi elementi reali però, si rende avvertibile qualcosa di quel ‘fuori psiche’ che abita il soggetto stesso, come direbbe la Aulagnier, di quegli “inclusi intrattabili e perciò esclusi dai legami tra rappresentazioni” (Luchetti, 2008) che sono sottratti ad ogni possibilità di rappresentazione/significazione, caduti fuori da ogni matrice rappresentativa: aree straniere della mente, fonte stessa dell’unheimlich.

Eccone una breve esemplificazione:

      Senza nessun preavviso sono cominciati dei lavori di ristrutturazione nell’appartamento al di sotto del mio studio , il rumore è a tratti assolutamente insopportabile, faccio uno sforzo enorme per ascoltare le parole della paziente stesa sul lettino, il martello pneumatico mi trapassa il timpano e sono molto preoccupata per come possa sentirsi la paziente, eppure non so come sembra che riesca a sintonizzarsi col frastuono che ci circonda da tutte le parti, quando smette ricomincia a parlare e poi nei picchi di rumore si arresta, io comincio a sentirmi le orecchie ‘ferite’ da quel rumore penetrante, intossicante, mi sembra che mi stiano pugnalando i timpani: una mia membrana sensibile che devo dilatare per ascoltare i flebili suoni della paziente, proprio in questa operazione di apertura totale viene invece colpita da questi rumori violenti, da questi veri e propri proiettili sonori. Non potendone più e visto che la paziente non vi fa nessun accenno ad un certo punto abbozzo qualcosa “eh certo oggi con questo rumore…” e la paziente prontamente mi risponde “ah dottoressa non si preoccupi nella mia testa è sempre così…”

Attraverso il ‘reale’ mi era dunque arrivato addosso il rumore insignificabile che da sempre assediava letteralmente le parole della paziente: tutto quello che mi aveva riversato nelle orecchie per lunghi mesi, in cui quando usciva dalla stanza avevo la sensazione di essere finta sotto un treno, finalmente era come se fosse giunto a una forma di ‘percepibilità’. Solo questo detour attraverso una dimensione di estraneità, quella realtà esterna che del tutto inopinatamente aveva fatto irruzione nello spaziotempo regolato della seduta come un vero e proprio perturbante in seduta, mi aveva dunque consentito di intendere, di vedere e ascoltare, ciò che giaceva da tempo in un altrove inaccessibile ai miei sensi e alla mia mente eppure costantemente presente nell’atmosfera della seduta, depositato in una dimensione che sfuggiva ad ogni forma di rappresentazione come di percezione ma nondimeno estremamente avvertibile nei suoi ‘effetti’ sul corpo dell’analista in questo caso. Manifestazione sensibile di una continua dimensione di ‘sconfinamento’ tra interno ed esterno, tra rappresentabile ed irrappresentabile, tra psiche e corpo nella coppia analitica, sconfinamento che ancora una volta costituisce la cifra caratteristica dell’esperienza del perturbante.

Lo straniero, il perturbante nel sociale

Questa dimensione di un ‘interno’ straniero – e di uno straniero interno- si manifesta con particolare intensità anche in un campo particolare e specifico della clinica psicoanalitica contemporanea relativo alle migrazioni e alla relazione con l’altro culturale.

Non a caso Roussillon (2017) sottolinea infatti che «il rapporto con l’estraneo emerge innanzitutto dalla relazione con se stessi» (p. 4). Le aree straniere di sé si configurano allora come aree profonde, non soggettivate e non soggettivabili, che possono essere incontrate paradossalmente solo attraverso una superficie riflettente, uno “specchio” che ci rimanda quanto di più inatteso il nostro stesso volto “porta”. Abdelmalek Sayad[6] parla a tale proposito della “funzione specchio” della migrazione: guardarsi nello specchio dello straniero costringe a vedere qualcosa del sé che può risultare insopportabile rimandando immediatamente ad una qualità perturbante.

Il cuore dell’esperienza dello ‘straniero’ si pone allora a livello di un “fuori-psiche” (Aulagnier) che abita però il soggetto stesso: lo straniero si trova ab initio insediato dentro, potremmo dire che lo straniero è tutto ciò che è “caduto fuori” da una matrice organizzativa primaria, tutto ciò che la mente materna o la parola materna non sono riuscite a presentare in una maniera tollerabile alla psiche immatura dell’infante, a rendergli appropriabile per così dire.

L’esperienza migratoria costringe, infatti, sia i migranti che gli autoctoni ad entrare in contatto con le proprie aree straniere interne, a scoprirsi dunque “stranieri a se stessi” (Kristeva,1990): gli effetti che ne risultano sono costitutivamente perturbanti, proprio perché rimescolano i confini tra il familiare e il non familiare.

L’altro è ciò che abbiamo potuto collocare “fuori”, lo straniero è ciò che abbiamo dovuto cancellare “dentro”: ecco perchè l’altro ci sta di fronte mentre lo straniero ci starà sempre accanto, inquietante ma irriconoscibile…

Ed ecco perché Mersault, lo straniero protagonista del romanzo di Camus (1942) uccide l’arabo, come si ricorderà lo uccide perché, con le sue parole: “il caldo era insopportabile e la luce era accecante… come il giorno in cui la mamma è morta”.  Uccide dunque perché è in preda a uno stato interno intollerabile che nessun oggetto trasformativo[7] sarà più in grado di modificare e rendere di nuovo sopportabile; la madre, e con lei ogni funzione trasformativa e ‘bonificante’, è infatti perduta per sempre: quando l’altro scompare si fa l’esperienza di un perturbante angoscioso che pervade ogni sensazione e ogni relazione, si resta preda dello straniero che a quel punto viene ucciso, deve essere ucciso, per niente… e per tutto… per sopprimere in lui e attraverso di lui l’inquietante estraneità che avverto in me.

Bibliografia

Augè M.,(2000), Il senso degli altri, Bollati Boringhieri, Torino

Aulagnier P. (1975). La violenza dell’interpretazione. Roma: Borla, 1994.

Bollas C. (1987). L’ombra dell’oggetto. Roma: Borla, 2014.

Camus A. (1942). Lo straniero. Milano: Bompiani, 2015.

De Micco V., (2019), L’inconscio degli altri. A proposito di inconscio, differenze culturali e trasformazioni antropologiche…, in A.M. Nicolò (a cura di), “Gli inconsci che ci abitano”, INTERAZIONI, Angeli, Milano, n.50, 2-2019

De Micco V.,(2021), Lo straniero e l’altro. L’inquietante intimità, in De Micco V. ( a cura di), L’estraneo e il familiare. Dalla clinica al sociale, “Interazioni”, Angeli, Milano, 1/2021

De M’Uzan M. (2005). Le jumeau paraphrénique. In De M’Uzan M., Aux confins de l’identité. Paris: Gallimard.

Freud S. (1915). Pulsioni e loro destini. OSF, vol. 8. Torino: Bollati Boringhieri.

Freud S. (1919). Il Perturbante. OSF, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.

Freud S. (1920).  Al di là del pricipio di piacere,OSF, vol. 9. Torino: Bollati Boringhieri.

Galiani R. (2019). Attualità psicopatologica del perturbante. Phenomena Journal – Giornale Internazionale Di Psicopatologia, Neuroscienze E Psicoterapia, 1, 1: 17-24. DOI: 10.32069/pj.2019.1.29.

Green A. (2002). Idee per una psicoanalisi contemporanea. Milano: Cortina, 2004.

Kristeva J. (1990), Stranieri a sé stessi., Donzelli, Milano

Lacan J. (1974). Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io. In Lacan J., Scritti vol.1. Torino: Einaudi.

Luchetti A., Il trauma e la sua impronta. Per una interpunzione. In AA.VV., L’impronta del trauma. Sui limiti della simbolizzazione, Angeli, Milano, 2009

Nathan T. (1986). La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria. Firenze: Ponte alle grazie, 1990.

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Russo L., La familiare estraneità del doppio, relazione presentata al XVI Colloquio SPI-SPP, Napoli 10-11 Giugno 2023

Roussillon R. (2017).Il volto dello straniero e la matrice del negativo in Albert Camus. In Rosso C. (a cura di), Identità polifonica al tempo della migrazione. Roma: Alpes.

Sayad A. (1999). La doppia assenza. Milano: Cortina, 2002.

Winnicott D.W. (1967). La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile. In Winnicott D.W., Gioco e realtà. Roma: Armando, 1971.

Zilkha N. (2017). Il mistero delle origini. “Ma tu da dove vieni?” Vergogna e odio nelle identificazioni crociate. In Rosso C. (a cura di), Identità polifonica al tempo della migrazione. Roma: Alpes.


[1] Diversi autori hanno lavorato su questo territorio di confine: a cominciare da Green, La follia privata (Cortina, 1991) ma senza dimenticare la Milner (La follia rimossa delle persone sane, Borla, 1992) né la MacDougall (A favore di una certa anormalità, Borla, 1993).

[2] Nella contemporaneità si moltiplicano le figure, e i supporti tecnologici, che sostengono l’area del doppio: cloni, avatar, identità digitali, riproponendo un’altra delle versioni specifiche del perturbante individuata da Freud, ovverosia lo sconfinamento tra animato e inanimato, tra l’umano e l’automa, o potremmo dire oggi le varie riproduzioni tecnologiche dell’umano, a cominciare dall’intelligenza artificiale.

[3] Cfr. L. Russo, La familiare estraneità del doppio, relazione presentata al XVI Colloquio SPI-SPP, Napoli 10-11 Giugno 2023

[4]Forse sarà addirittura superfluo ricordare quanto la Unheimlichkeit configuri esattamente quell’esperienza dell’inquiétante étrangeté restituitaci dalla traduzione francese, essenza stessa del perturbante. Sarà interessante notare come attraverso le diverse traduzioni del termine in diverse lingue si evidenzi soprattutto l’incertezza e l’indistinzione dei confini tra il familiare e il non familiare (a cominciare dall’ambiguità semantica heimlich/unheimlich). La traduzione francese ad esempio introduce l’elemento étranger in cui l’extra, il fuori, si sovrappone alla “stranezza/straniamento”, ovverosia evoca una dimensione di trasformazione/trasfigurazione. Tale indistinzione diventa la ragione stessa del turbamento, sottolineato invece nella traduzione italiana, che evidenzia una sorta di “turbolenza” affettiva e percettiva, generata da una improvvisa qualità “inattesa” del proprio, il che costituisce una sorta di repentino “svelamento” di una qualità inquietante del familiare, si potrebbe parlare allora di una inquietante intimità piuttosto che di una inquietante estraneità, come ho sottolineato altrove ( De Micco, 2021).

[5] Come non ricordare che contemporaneamente alla stesura del ‘capriccio’ sul Perturbante Freud stava lavorando alla sinfonia di Al di là del principio di piacere? Anche nel testo del ‘19 sembra alludere a qualcosa che sembra porsi jenseits il simbolico, quindi non soltanto ‘al di là’ nel senso di oltre, ma proprio, da un’altra parte, ovverosia evocando un funzionamento psichico che segue un’altra direttrice.

[6] Il noto sociologo algerino autore de La doppia assenza (1999)

[7] Cfr. C. Bollas (1987)

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