La Cura

Quale contributo può dare oggi la Psicoanalisi alla clinica delle condizioni autistiche? Intervista a C. Cattelan a cura di C. Balzano

28/05/25
Quale contributo può dare oggi la Psicoanalisi alla clinica delle condizioni autistiche? Intervista a C. Cattelan a cura di C. Balzano

JENNY SAVILLE – Stanza (2020)

Parole chiave: Autismo, Sensorialità, Soggettività, Intervento precoce, Adolescenza, Stati autistici degli adulti

Quale contributo può dare oggi la Psicoanalisi alla clinica delle condizioni autistiche?

Intervista a Chiara Cattelan

A cura di Cristiana Balzano

  Lo scorso 1° febbraio, la SPI ha organizzato a Roma una giornata di studio “Menti psicoanalitiche al lavoro di fronte agli stati autistici” a testimonianza della vitalità dell’interesse scientifico per quest’area tematica così vasta e complessa. Ad introdurre i lavori, Chiara Cattelan, pediatra, neuropsichiatra infantile, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana. A lei, per la sua vasta esperienza e dedizione alla clinica delle condizioni autistiche, abbiamo rivolto delle domande sul ruolo che può svolgere oggi la psicoanalisi in questo settore clinico.

1-Innanzitutto grazie per avere accettato quest’intervista sul contributo che la Psicoanalisi può dare oggi alla clinica dell’autismo.

Nel 2014 hai rilasciato un’intervista su ‘autismi e psicoanalisi’ per SPIWEB a Stefania Nicasi. È trascorso più di un decennio da allora. In un quadro di conoscenze in continua evoluzione, puoi provare a descrivere le coordinate entro cui si sviluppa l’approccio psicoanalitico contemporaneo alle condizioni autistiche?

  Da allora sono aumentati i lavori psicoanalitici che descrivono trattamenti intensivi di pazienti autistici, permettendoci di osservare processi trasformativi lungo un ampio arco della vita. Questi lavori ci offrono anche straordinarie opportunità di apprendere sullo sviluppo psichico e sugli adattamenti della tecnica necessari con questi pazienti.

L’autismo è una frontiera per la psicoanalisi contemporanea che, interrogandosi sulle sue estensioni, si rivolge al pre-psichico e al preverbale. Questo interrogarsi riguarda anche i nuclei autistici che attraversano molti quadri psicopatologici: dal borderline, all’anoressia, alla tossicodipendenza, etc. Conoscere l’autismo ci permette di essere più pronti a riconoscere nei pazienti adulti quelle aree rimaste separate dal resto della personalità. La parte autistica può restare, infatti, isolata ed esclusa dagli scambi nutritivi con gli altri, mentre altre parti di sé evolvono e si adattano. L’autismo pone questioni radicali che, in diversa misura, riguardano la cura di tutti i pazienti. Quale assetto deve tenere l’analista quando incontra la debole soggettività di un paziente? Come può iniziare una comunicazione quando mancano la parola e/o il gioco? Come può aiutare il paziente a costruire una capacità di rappresentare e simbolizzare?

  Penso che l’analista debba aprirsi a un modo diverso di comunicare, debba cogliere nei gesti, nel linguaggio corporeo, nell’uso peculiare della parola, il significato profondo di ciò che il paziente vive, senza poterne ancora fare esperienza. Deve accettare di farsi toccare a livelli primitivi, sensoriali, risuonando con angosce di qualità e intensità diversa. Il paziente si sentirà allora compreso per la risonanza che è riuscito a creare nel ‘fuori di sé’ e ciò può dare inizio a un’esperienza di condivisione. A partire dall’intendersi (Freud ,1895), si tratta di costruire insieme al paziente un linguaggio che ampli le sue possibilità di comunicare. Per potere entrare in relazione con gli altri, le emozioni eccessive e traumatizzanti, data la mancanza di integrazione nell’autismo, devono essere modulate prima di tutto nell’interazione con l’analista. Il nostro scopo è che il paziente giunga a riconoscere che affetti, desideri e pensieri gli appartengono. Questo presuppone che diventi consapevole di possedere uno spazio dentro di sé e riconosca quello tra sé e il mondo esterno. Il contenimento offerto dal setting con i suoi confini, ritmicità, affidabilità è importante, insieme all’attenzione dell’analista e alla sua rêverie. Si avvia, allora, un processo che conduce a formare legami e a costruire un senso di sé più coeso e continuo nel tempo.

2- Quindi l’autismo non è una condizione statica, priva di evoluzioni e cambiamenti?

 Ci sono dei limiti al cambiamento, tuttavia, sentirsi vivi, capaci di esprimere ciò che si prova, scoprirsi parte della comunità umana, pur con le proprie caratteristiche, è il guadagno che può essere ottenuto col lavoro analitico. Non è poco. I cambiamenti dimostrano che l’autismo non è una condizione statica e inalterabile. Sono pazienti che non hanno perso la speranza di sentirsi compresi. È importante che i genitori lo sappiano per non perdere la speranza, cosa che accade quando apprendono che si tratta di una condizione che dura per tutta la vita. La disperazione dei genitori incide sulle possibilità evolutive del figlio/a.

 3- A proposito di cambiamenti e sviluppi anche teorici, pensi vi sia stata negli ultimi decenni una cross-fertilization tra la Psicoanalisi e i campi disciplinari limitrofi ad essa?

  Mi vengono in mente alcuni confronti fertili: il dialogo con l’Infant Research, ad esempio, ha portato alla revisione del concetto di autismo primario normale, un errore che aveva distorto sia la comprensione della natura dell’autismo che quella dello sviluppo. Non esiste una fase autistica normale, l’autismo è una condizione correlata a uno sviluppo atipico. Il confronto è partito dall’importanza che entrambe le discipline attribuiscono all’osservazione, anche se intesa in modi diversi. L’osservazione psicoanalitica mette al centro l’esperienza soggettiva dell’osservatore e rappresenta uno straordinario allenamento all’uso del contro-transfert. Dall’influenza dell’Infant Research è nata una psicoterapia informata dallo sviluppo (Alvarez, 1999) che si prefigge di prestare attenzione ai minimi segnali evolutivi, di adattare l’intervento e l’interpretazione dell’analista al livello di sviluppo del paziente. Questo significa trovare un linguaggio adatto a raggiungerlo, nel momento giusto, senza sopraffare la sua debole intenzionalità con la nostra.

  Inoltre, alcuni concetti utili alla comprensione degli stati autistici sono stati approfonditi sia dalla Psicoanalisi che dalle Neuroscienze. Ad esempio, quelli di ‘attenzione’, di ‘imitazione’ e di ‘empatia’. Sul versante psicoanalitico, penso a Meltzer con la sospensione dell’attenzione e smantellamento della comunicazione trasmodale, a Gaddini con la descrizione di una linea evolutiva all’interno dell’imitazione e ai rapporti di questa con la percezione, a Lebovici con l’empatia metaforizzante, a Tustin con gli usi aberranti della sensorialità che isolano dal contatto con gli altri, solo per citarne alcuni. Sul versante delle neuroscienze a Uta Frith e Baron Cohen con la teoria della mente, a Rizzolatti e Gallese con i neuroni specchio e la teoria del deficit di consonanza intenzionale.  Penso anche al lavoro di Trevarthen e Hobson sull’intersoggettività.

 Emergono delle corrispondenze tematiche in questi ambiti di ricerca che confermano l’importanza dei fenomeni studiati, ciascuno all’interno del proprio metodo conoscitivo.  Queste concordanze rafforzano indirettamente alcune delle intuizioni cliniche psicoanalitiche.

4- Mi aggancio a ciò che dici sull’osservazione psicoanalitica per chiederti in che modo lo sviluppo della clinica psicoanalitica dei bambini piccoli, pre- verbali, giochi un ruolo nella ricerca sugli autismi.

  A partire dai lavori di Kanner (1943) e di Spitz (1955) si è sviluppato un interesse per la clinica psicoanalitica del bambino in tenerissima età: Cramer, Palacio Espasa in Svizzera, Lebovici, Soulè, Mises in Francia, Norman e Salomonsson in Svezia. In Italia, Dina Vallino, attraverso un fine lavoro contro-transferale, ha testimoniato cosa significhi ‘essere neonati’. L’interesse si è rivolto anche all’epoca prenatale, ad esempio con il lavoro di Alessandra Piontelli e Suzanne Maiello.

Si è prestata sempre più attenzione alla vita psichica dell’infans e alla sua sofferenza. Questo interesse teorico-clinico ha contribuito ad avvicinarci a stati pre-verbali e non-verbali, che incontriamo anche nell’autismo.

5 – Puoi riassumere qualcosa del raffinato patrimonio di comprensione ereditato dai grandi clinici del passato -come Bick, Meltzer, Tustin e Winnicott- che può ancora guidarci nel trovare il nostro ruolo nella clinica dell’autismo?

  Il patrimonio di comprensione ereditato da chi ci ha preceduto era basato su osservazioni e intuizioni cliniche confermate dalle convergenze tra autori provenienti da retroterra diversi. Tustin e Winnicott, ad esempio, senza sapere uno dell’altro, giunsero alle stesse conclusioni riguardo ai diversi modi di separarsi del lattante dal seno e dalla madre, a seconda dello stato di separatezza raggiunto. Per comprendere l’autismo, da un punto di vista psicodinamico, abbiamo bisogno di concetti che provengono da autori diversi. Penso alla fusionalità, alla bisessualità psichica, all’adesività, alla dimensionalità, agli involucri psichici, alla soggettivazione e a tutti quei modelli che ci permettono di comprendere meglio il ruolo delle sensazioni nello sviluppo primario.  

 Un concetto fondamentale per comprendere l’autismo lo dobbiamo a Winnicott e lo troviamo nel suo lavoro ‘Sull’uso di un oggetto’ (1969). L’esperienza di vitalità del neonato, che non si cura di proteggere la madre, è indispensabile per istituire il senso di realtà. Potremmo ipotizzare che bambini così fragili non abbiano la forza di manifestare la spontaneità originaria e si siano, quindi, ritirati dalla relazione. Spesso sono descritti come deboli succhiatori, che lasciano scivolare via il capezzolo dalla bocca e in seguito non masticano, chiedono cibi semifluidi, sempre gli stessi. La loro passività, che può essere un dato costituzionale, impedirebbe loro di stabilire un chiaro senso della realtà esterna, la percezione del fuori di sé. A questi livelli così precoci, possiamo osservare come il dato biologico e quello psichico siano intrecciati.

 Le comprensioni dei clinici del passato, come quelle più vicine a noi che riguardano le esperienze   primarie, costituiscono un capitale di conoscenza che ci sostiene nel lavoro con gli stati autistici. Dalla comprensione della loro natura deriva l’adattamento della tecnica. Come psicoanalisti cerchiamo di aiutare i pazienti ad organizzare una mente capace di sentire e pensare, sostenendo lo sviluppo di potenzialità inespresse.

6- È ormai un’evidenza consolidata che esistano molti autismi e cioè un insieme eterogeneo di condizioni e configurazioni cliniche risultanti da cause e percorsi eziopatogenetici differenti, accomunate da una difficoltà variamente articolata nel comprendere e interagire con le altre persone. Ritieni che l’approccio psicoanalitico possa essere maggiormente indicato per alcune forme di autismo?

  Come dici, si tratta di quadri diversi che condividono dei sintomi: le difficoltà sociali e il rapporto con le emozioni che non hanno subito quella trasformazione che permette di modularne il carattere estremo. In certi casi l’autismo coesiste con altri livelli di sviluppo e altre patologie. L’autismo in ‘cultura pura’ è forse quello descritto da Leo Kanner nel 1943. In quelle accurate descrizioni possiamo osservare aspetti che rimandano a una fragilità costituzionale: bambini belli, armonici, eterei, con la pelle sottile. I bambini che ho seguito in psicoterapia psicoanalitica sono molto simili a quelli, ma ne ho conosciuti con caratteristiche diverse sia in consultazione, sia in psicoterapia quando lavoravo in Clinica Pediatrica.

 Per rispondere alla tua domanda, credo che il nostro intervento possa essere più efficace per i pazienti che non hanno una situazione deficitaria o una componente organica o genetica accertata, ma ciò non esclude che ognuno di loro possa essere aiutato. Lo sviluppo cognitivo e quello relazionale non sono mai disgiunti. Ogni paziente ha un divario da colmare perché fattori emotivi secondari intervengono ad aggravare la sua condizione. L’obiettivo resta sempre che il paziente possa diventare se stesso riducendo il suo gap evolutivo.  Egli può essere messo in condizione di intrattenere scambi affettivi e formativi con i suoi simili.

7- Quali sono, a tuo avviso, gli embrioni di capacità interattive che possiamo cogliere nell’incontro con un paziente e che potrebbero espandersi nel lavoro analitico?

  Nella consultazione cerco di orientarmi per capire se, col mio lavoro, potrei essere utile a quel paziente. Osservo micro-trasformazioni motorie e comportamentali, indicative di quell’embrione di capacità interattiva di cui parli, del fatto che il nuovo ambiente ha risvegliato aspettative nel bambino. L’attenzione marginale all’interazione, osservabile nei gesti, negli avvicinamenti o allontanamenti, negli incroci fugaci dello sguardo; la presenza dell’idea di spazio che si manifesta nell’esplorazione di cassetti/contenitori nei quali magari nascondere qualcosa (in contrasto col semplice aderire alle superfici); i segnali di aver percepito il clima contenitivo e nutritivo creato dall’attenzione congiunta mia e dei genitori, che cerchiamo di dare significato all’incontro. Questo iniziale movimento è prognosticamente favorevole, a mio avviso, per un trattamento orientato psicoanaliticamente, da coordinare con altri interventi utili educativi, logopedici, etc.

8- Tu sei anche pediatra. Immagina di rivolgerti a un giovane pediatra che incontri periodicamente i neonati e i loro genitori nel corso del primo anno di vita.  Quali indici precoci di rischio dovrebbe monitorare? E come spiegheresti il senso profondo di un eventuale invio per una consultazione svolta da uno psicoanalista infantile?

  Indicatori quali l’evitamento relazionale, i disturbi dello sguardo, dell’ascolto, posturo-motori, della prensione, non possono essere considerati isolatamente; dobbiamo osservare l’interazione nel suo insieme e ascoltare le fantasie dei genitori sul bambino. Il compito del pediatra, oltre a quello di monitorare senza allarmare e di sostenere la competenza materna, è anche quello di capire quando è il momento di inviare. Le proiezioni e le ansie materne fan si che la madre possa attribuire un significato allarmante a qualcosa che, una volta compreso, si risolve. Accade di incontrare genitori spaventati da alcuni segnali che rimandano all’autismo e mi è capitato di intervenire per aiutare madre e bambino ad interrompere circoli viziosi della loro relazione. Per una madre è profondamente frustrante e logorante non ricevere risposte chiare dal bambino alle sue cure. A volte le difficoltà di allattamento al seno creano un clima angosciante perché sembrano rimarcare una presunta incompetenza materna. Il pediatra deve saper attendere monitorando col suo ascolto e la sua osservazione, ma inviare quando più segnali convergono senza modificarsi in un certo arco di tempo, oppure quando, soggettivamente, non si sente in grado di contenere le ansie dei genitori.

9- Dunque è importante, data la complessità dell’autismo, lavorare in rete fidandosi di chi porta altre competenze?

  Se penso alla mia esperienza di neuropsichiatra infantile nel Dipartimento di Pediatria di Padova, posso dire di non aver mai lavorato da sola. Per ogni dubbio c’era un invio del bambino ai colleghi neurologi e genetisti, che a loro volta erano in grado di capire quali casi avrebbero tratto vantaggio dal lavoro psicodinamico; mi sentivo affiancata da colleghi competenti nel loro campo. C’era uno spirito di collaborazione basato su di una tradizione consolidata, ispirata dall’impostazione che il Prof. Franco Zacchello aveva dato ad una clinica intessuta con la ricerca. Mi rendo conto che quella è stata una situazione privilegiata, ma ripetibile.

10- Consideri valido il concetto di vulnerabilità di base? È stato osservato che vi sono bambini che acquisiscono le normali tappe evolutive, seppure stentatamente, per poi collassare per eventi di vita anche banali, come l’entrata in asilo o la nascita di un fratello. Puoi parlarci del senso dell’impatto dei cosiddetti fattori precipitanti che squilibrano tali condizioni di rischio?

  Il dato costituzionale che richiami col concetto di vulnerabilità di base è sempre presente e influenza il rischio.  Vorrei citare a tal proposito il libro curato da Delion – “Il bambino a rischio autistico “- tradotto in italiano da Marco Mastella (2004). Rischio non significa certezza di patologia, altrimenti sarebbe predizione; un’altra serie di fattori interviene per quel risultato. La precocità di certi fenomeni, che riguardano la perinatalità, ci obbliga a interrogarci sull’interazione dei tanti fattori che influenzano la dimensione psichica più precoce, legata al corpo. Le prime esperienze sensoriali condivise con la madre sono fondamentali. È a questo livello, infatti, che il neonato incomincia a percepire ciò che è fuori di lui, il non-me. Mi pare ipotizzabile che sia a questo livello che le cose possono andare male, perché il passaggio dall’esperienza sensoriale alla percezione non è scontato, è un punto cruciale che può deviare lo sviluppo verso la traiettoria autistica. Ma, come già detto, è talmente precoce che si mescola e si confonde col dato costituzionale e neurologico.

  L’intervento sulla relazione madre-bambino nel primo anno di vita offre le maggiori possibilità di successo rendendo reversibile una situazione che avrebbe potuto condurre all’autismo, ma non possiamo esserne certi prima che i fattori precipitanti intervengano ad evidenziare drammaticamente il fragile terreno sottostante.

11- Se l’intervento elettivo per queste condizioni ancora instabili è quello sulla relazione madre-bambino, puoi parlarci delle specifiche caratteristiche e potenzialità del setting congiunto madre-bambino o genitori-bambino che viene utilizzato in questi casi?

  La precocità dell’intervento può rendere reversibile, come dicevamo, qualche distorsione relazionale che il bambino può aver contribuito a creare. Quando un bambino è molto piccolo è necessario lavorare con i genitori in stanza. Il setting congiunto può essere una risorsa anche quando non possiamo fare un lavoro intensivo. Permette ai genitori di interiorizzare quel che condividono con noi e di creare un ambiente idoneo a recepire i messaggi, i cambiamenti, a risuonare emotivamente col proprio figlio. Ho visto trasformazioni straordinarie grazie al coinvolgimento dei genitori che, in questo modo, si sentono protagonisti e co-artefici delle trasformazioni. Il loro senso di efficacia come genitori e l’interesse per il mondo interno del bambino aumentano considerevolmente. Bisogna poi comprendere quando è il momento di passare a un lavoro individuale, prendendo in considerazione vari fattori.

12- Puoi dirci qualcosa sul come l’analista faciliti le condizioni per l’emergere della soggettività nascente del paziente e sul particolare tipo di contro-transfert che egli sperimenta in questi casi registrando anche le proprie micro-modificazioni corporee?

Sarebbe interessante vedere una sequenza che illustri questi aspetti.

   L’emergere della soggettività può essere un momento fugace. Molti di questi momenti si potranno in seguito coagulare nella costruzione di un Sé più coeso. Faccio un esempio di ciò che può avvenire nell’interazione con un bambino autistico di cinque anni in trattamento settimanale con i genitori: il bambino aveva tracciato sul foglio un segno verticale in alto a sinistra, poi un cerchio vicino che subito aveva coperto con il colore; più sotto dei cerchi, ciascuno circondato da altri piccoli semicerchi. Li aveva chiamati ‘ petali’ facendomi pensare a un sé fragile che, tuttavia, inizia a percepire un contenimento. Il segno verticale col cerchio accanto mi aveva fatto pensare a ‘IO’, ma mi ero astenuta dal commentare, comprendendo il bisogno di tenere ancora protetto e nascosto il suo Io.

   Aveva poi disegnato dei cerchi neri e, riempiendoli di colore, aveva detto ‘buio’. Il mio collegamento col buio dei giorni di assenza, tra una seduta e l’altra, pareva averlo colpito. Sollevando la testa mi aveva fissata intensamente così a lungo che avevo sentito difficile sostenere il suo sguardo. Al termine della seduta aveva chiesto ancora ‘cinque secondi’ per disegnare dei cerchi verdi. Erano esattamente sette, come i giorni che ci separavano dal prossimo incontro. Gli avevo concesso di concludere quello che aveva in mente, ben sapendo che, in caso contrario, sarebbe stato molto angosciato. I sette cerchi erano inanellati uno con l’altro, come potesse immaginare un ponte attraverso l’assenza, stabilendo, con quel filo, la continuità che ci avrebbe tenuti legati fino al prossimo incontro.

  Terminato il lavoro era stato colto da una grande emozione e aveva fatto tremare il foglio stretto tra le sue mani. Uscendo aveva detto ‘54’. Guardando l’orologio mi ero accorta, solo a quel punto, che aveva trasformato i 45 minuti in 54! Questa trasformazione lo aveva fatto diventare ‘agente’ di una separazione che poteva ora essere vissuta in maniera meno angosciante. Presa dall’interesse per il suo lavoro, mi ero lasciata sfuggire lo sforamento del tempo. A quel punto era uscito ridendo e io mi ero trovata a ridere insieme a lui[1].

13- Questa straordinaria sequenza clinica ci fa cogliere il tipo di adattamento richiesto all’analista rispetto ai ritmi del paziente per arrivare a costruire un’esperienza affettiva interattiva in una fase in cui tutto ruota intorno al going on being, alla sensazione del movimento insito nell’esperienza di esistere. Mi sembra che le intense emozioni in gioco, del bambino e tue, intessano una sincronia radicata nel corpo fino a dare una struttura ritmica alla vostra relazione?

  In questo esempio vediamo che l’Io è preso tra due tensioni opposte: desidera manifestarsi (esistere), ma ne ha anche paura. Possiamo osservare quanto descritto da Winnicott (1963) come ‘bisogno dicomunicare e di non comunicare’, di essere trovato e di rimanere nascosto; un paradosso espresso qui nella sua forma più estrema. Per iniziare ad esistere il bambino ha bisogno, prima di tutto, di rendere un po’ più me il non-me, di dare il suo contributo, ma senza scoprirsi. L’emergere della soggettività suscita un’intensa emozione, scaricata col movimento, ma forse anche in parte contenuta nella relazione (qui è il fremito, altre volte sono corsette sulle punte dei piedi, movimenti circolari etc). In questa sequenza l’emozione ha sicuramente coinvolto l’analista!

  Pensando al contro-transfert vediamo che è difficile lasciare il bambino al termine della seduta, a causa della qualità delle sue angosce. Ogni separazione giunge per lui improvvisa, prima che si sia stabilito il senso del ritmo con la capacità di immaginare cosa avverrà ‘dopo’.  Questo bambino, in realtà, incominciava a mostrare segnali di aver raggiunto questa tappa. Il problema dell’impreparazione alla discontinuità della relazione con l’oggetto (tanto quanto quello di usare l’angoscia come segnale) è centrale e per questo, come diceva Tustin, il paziente deve sentirsi tenuto saldamente e con continuità nella mente dell’analista. La difficoltà sta nel trovare un equilibrio tra l’essere troppo presenti, mettendo in ombra la debole intenzionalità del bambino, o troppo distanti lasciandosi cancellare. Per tornare alla tua domanda: sì, in queste fasi del lavoro si tende a un ritmo di regolazione e a una struttura che incominci ad avere la forma di un dialogo tra due.

14-   Pensando alla crescita, vorrei chiederti quali siano a tuo parere le difficoltà maggiori del passaggio adolescenziale dei giovani autistici, con particolare riferimento alla necessaria resignificazione dell’assetto sensoriale che i mutamenti corporei impongono e agli aspetti depressivi così evidenti negli adolescenti autistici.

  In adolescenza si ripropone con forza il problema dell’integrazione corporea a partire dalle sensazioni e dal loro legame con affetti e pensieri. Diventare consapevoli dei propri limiti e delle proprie difficoltà è un vantaggio, ma porta con sé molto dolore e spesso uno stato depressivo che va condiviso. Come per tutti gli adolescenti, c’è bisogno di trovare risposte a questioni fondamentali: chi sono? Qual è il mio posto nel mondo? Data la difficoltà di esprimersi, che persiste nonostante una buona evoluzione, è necessario un interlocutore che sappia tradurre stati di angoscia inarticolati in domande che possono essere formulate. Tra le principali difficoltà che può incontrare un ragazzo autistico vi è quella di non riuscire a immaginare la vicinanza e l’intimità, pur sentendone profondamente il bisogno. C’è un’enorme paura del rifiuto, che può concretizzarsi a causa della sua maldestrezza. L’aggressività può diventare esplosiva proprio a causa della difficoltà di esprimere vissuti e desideri e di trovare i canali per manifestarli con la parola. Un sollievo deriva, invece, dal poter comunicare tutto questo nella relazione analitica, dove si è riconosciuti come soggetti dei propri desideri e della propria storia. È comunque necessario aiutare l’ambiente a comprendere e ad accogliere delle manifestazioni che, apparendo inusuali, possono spaventare.

  C’è il rischio di un maggior ritiro, in particolare al termine della scuola, per la difficoltà persistente di questi ragazzi di prendere l’iniziativa. Andrebbero guidati a comprendere e a valorizzare le proprie competenze specifiche, nelle quali si sentono capaci e riconosciuti dagli altri (lettura, teatro, scrittura, musica etc). In ogni caso, per i pazienti che sono entrati in rapporto con se stessi e con l’altro e abitano il proprio corpo riconoscendo i segnali che invia, il transito adolescenziale può rappresentare una nuova opportunità di crescita, piuttosto che l’invasione di un’estraneità pulsionale devastante. L’intervento iniziato precocemente mostra la sua efficacia proprio nel passaggio adolescenziale.

15- Cosa ci insegna l’autismo infantile per gli stati autistici dell’adulto? Ne avevi parlato alla giornata di studio sull’autismo.  

   Ci insegna molto, perché possiamo riconoscerlo, in misura diversa, anche nei pazienti adulti come una parte della personalità. Nella mia introduzione a quella giornata di studio, sottolineavo che residui di autismo possono passare a lungo inosservati a causa di fenomeni adattativi che li ricoprono.  Sono responsabili tuttavia di fallimenti affettivi, intellettualizzazione, resistenza ai cambiamenti, analisi interminabili, problemi di identità di genere, ideazioni suicidarie. L’autismo, non riconosciuto, genera una grande disperazione, diffidenza e sfiducia nell’altro. Umiliazioni e fraintendimenti possono essersi accumulati fin dall’infanzia, dovuti all’impossibilità di immaginare cosa ci sia nella mente dell’altro, non capire contesto e metafore, non sentirsi mai pronti, incapaci di esprimere l’emozione, con la necessità di conformarsi su modelli per nascondere il vero sé sentito fragile e mutilato. Una parte autistica che non ha dato segno di sé può emergere in occasione di separazioni, passaggi della crescita, perdite e cambiamenti.

  In analisi, l’attenzione al proprio corpo e a quello del paziente può guidarci nel riconoscere stati di tensione, goffaggine, rigidità nel movimento, sensazioni autoconsolatorie, che parlano di una incompleta integrazione mente-corpo.

16- Come dicevi all’inizio di quest’intervista, l’autismo pone questioni radicali che, articolate in vario modo, riguardano la cura di tutti i pazienti. Cosa possiamo imparare dalla clinica delle condizioni autistiche sul senso della cura e sulla direzione dei processi analitici, anche al di là di queste specifiche condizioni?

  La psicoanalisi contemporanea ha prestato maggiore attenzione all’ascolto del corpo in seduta, allo stato di tensione nostro e del paziente, alla sensorialità e alle sue trasformazioni, come punto di partenza per la rappresentabilità.

L’autismo, che ci costringe ad un continuo allenamento su questo, pone questioni importanti per tutta la psicoanalisi: prima di tutte quella del processo di soggettivazione del paziente che, in questi casi, inizia dalla creazione di uno spazio di vita per un embrione di soggetto. Questo apre la questione del nostro modo di ‘essere in seduta’. Il lavoro con questi stati pone problemi radicali come quello dell’interiorizzazione che richiede attenzione non soltanto ai contenuti, ma anche ai modi coi quali gli stessi vengono offerti al paziente.

 L’autismo ci rende accorti sull’importanza del concetto di spazio, sia come spazio sé-altro che come spazio per pensare i pensieri e sentire presenze vive dentro di sé. Ciò implica la costruzione di una pelle psichica, di un confine intorno a un sé più coeso e di elementi di mediazione tra sé e il non sé. Questi concetti sono collegati al modo di separarsi che, in assenza di un confine del sé, assomiglia a una mutilazione. Siamo quindi obbligati a pensare alla differenza tra esistere e non esistere come individuo separato.

  Non da ultimo, ci insegna a costruire insieme al paziente un linguaggio fatto non solo di parole ma di gesti, di mimica, di suoni, di ritmi, in un apprendimento reciproco, ad usare tutto ciò che è a nostra disposizione per costruire una comunicazione che potrà essere basata sul transfert /contro-transfert. Ci insegna, quindi, ad imparare dal paziente e a tollerare di non sapere.

17- Tu hai avuto il privilegio di incontrare e lavorare in supervisione con Frances Tustin, seguendo l’evoluzione e le svolte del suo pensiero. Vorrei concludere questa intervista chiedendoti, a più di trenta anni dalla sua scomparsa, cosa rimane vivo per noi delle sue geniali intuizioni cliniche sull’uso autistico degli oggetti e, su un altro livello, della sua ‘lealtà verso la comprensione’, della sua apertura interdisciplinare, in definitiva della sua lezione epistemologica?

  I libri di Tustin, che ti fanno scoprire cose nuove ad ogni lettura, sono una testimonianza di quella sua capacità di rivedere gli errori e di far evolvere il pensiero, che sottolinei. Sarebbe meglio leggerli in lingua originale perché la scelta di certe parole, trattando di stati preverbali e proto-psichici, è molto importante. Tustin conosceva il rischio di attribuire arbitrariamente qualcosa e di non riuscire veramente a trasmettere l’esperienza vissuta con il paziente.

 Procedeva nella comprensione guidata da un doppio sguardo, rivolto alla poesia e al metodo della ricerca. Per questo parlava di una ‘scienza poetica’. La poesia evoca qualcosa di profondo e universale su quegli stati primitivi con i quali i poeti sono rimasti in contatto. Il metodo ci aiuta a orientarci quando ‘avanziamo nel buio’, in un mondo complesso e sconosciuto com’era allora l’autismo e come rimane, in buona parte, tuttora. Si confrontava col pensiero di biologi e scienziati, tra questi con Arnold Tustin, suo marito, che aveva fatto importanti scoperte nel campo della cibernetica. Era convinta che per procedere nella conoscenza bisognasse lasciarsi alle spalle teorie precostituite. Poggiando sulla sua solida formazione, che comprendeva l’osservazione psicoanalitica e la sua lunga analisi con Bion, è stata capace di differenziarsi dalle correnti dominanti del suo tempo, dal clima dogmatico dell’ambiente kleiniano. Si è aperta al dialogo con psicoanalisti di retroterra diverso dal suo e con autori provenienti da altre discipline. Soprattutto ha continuato ad imparare dai suoi pazienti.

  Grazie a Tustin possiamo contare su una descrizione dettagliata e unitaria del modo di funzionare di un certo tipo di autismo, centrata sul soggetto e non sulle manifestazioni esteriori. Parlando di forme e oggetti autistici Tustin ha dato un significato a quelle che erano considerate genericamente stereotipie, chiarendone la funzione. Ha mostrato come la nostra ‘empatia sensoriale’ ci permetta di comprendere il paziente passando attraverso noi stessi. Infatti, ha compreso la natura profonda dell’autismo diventando consapevole di qualcosa che le apparteneva, quella “spessa campana di vetro che copriva la ragazza perfettamente adattata”, che non poteva affrontare il dolore. La trasformazione nella ‘capacità di soffrire’, descritta da Bion, doveva passare, a suo dire, attraverso la rottura di quella campana.

 Con lei, alcune caratteristiche dell’autismo sono apparse più vicine a fenomeni comuni alla natura umana e sono diventate più comprensibili. Di questa condizione abbiamo potuto scorgere anche la potenziale originalità creativa, che segue percorsi alternativi e non convenzionali del pensiero. Nelle supervisioni Tustin creava una specie di teatro vivo con il suo corpo, dopo aver accolto il paziente dentro di sé. La sua voce saliva e scendeva con ampiezze diverse, mettendo l’accento sull’emozione. Coglieva i minimi segnali di vita e di intenzionalità intuendo, da proprie sensazioni e reazioni, la speranza del paziente di essere aiutato.Con i genitori era molto accogliente, empatizzava col loro dolore e la loro fatica, li sosteneva e valorizzava il loro punto di vista. Credeva nella cooperazione, che ha il suo modello nella relazione tra bocca e seno accomunati dallo scopo del nutrimento. L’esperienza di cooperazione riguarda il rapporto analista-paziente che cercano di trovare modi di comunicare e di stabilire quindi un legame, riguarda il rapporto con i genitori, che possono condividere il carico che grava su di loro e, infine, quello tra colleghi impegnati nello scopo comune della comprensione.

  Questo è stato anche il senso della giornata di studio ‘Menti psicoanalitiche al lavoro di fronte agli stati autistici’ del 1° febbraio 2025, che ricordavi all’inizio. Quella giornata, rivolta anche agli allievi, era frutto di un lavoro di gruppo e, pur senza “ambire ad offrire una visione più articolata e sistematica del vertice psicoanalitico nel confronto con altri vertici di osservazione, nell’approccio e nella cura di queste condizioni […], è stata proposta come un passo importante proprio in questa direzione”, come ricordava Raffaella Tancredi nel suo report dei lavori della giornata (SPIWEB, 2025).

L’autismo ci insegna ad accettare di non sapere, rendendo evidente la necessità di collaborare per creare alleanze di lavoro e ci stimola ad attingere a tutto ciò che riguarda l’umano per allargare la nostra capacità di comprensione.  


[1] La vignetta clinica riportata viene pubblicata previo consenso da parte dei genitori del paziente.

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