Cultura e Società

Temple Grandin

25/02/12

Mick Jackson, USA, 2010, 103 min.

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Commenti di Stefania Uccelli, Francesco Barale e Paolo Meucci

Primo commento: Stefania Ucelli e Francesco Barale

Come commentare in poche parole questo film, così bello ed emozionante? Proveremo a farlo dal punto di vista di ciò che ci insegna sull’autismo.

Intanto, occorre dire che, proprio perché descrive una esperienza eccezionale, si tratta di un film esemplare.
Nel senso che proprio l’altissimo  funzionamento di Temple Grandin rende chiaramente riconoscibili caratteristiche che, in misura diversa, appartengono non solo a questa straordinaria persona ma, in generale, ai modi di funzionamento mentale dell’autismo. Moltissime cose ancora non si sanno riguardo all’autismo o meglio agli “autismi”, dato che questa categoria diagnostica comprende condizioni diversissime fra loro. Tuttavia, non è proprio vero che non si sappia “nulla” o quasi sull’autismo. La ricerca in quest’ambito (in cui velocemente e tumultuosamente le conoscenze nell’ambito delle neuroscienze si stanno evolvendo)  negli ultimi due – tre  decenni ha invece cominciato a chiarire sia alcune caratteristiche neuropsicologiche del funzionamento della mente autistica (di quegli aspetti “nucleari” in qualche misura comuni a tutti gli autismi e che accomunano i diversi “autismi”) sia, in parte almeno, i loro fondamenti neurobiologici. Le eccezionali capacità “visuo-spaziali” di Temple Grandin, il suo “pensare per immagini” (così come il talento matematico di Rain Man, per fare un altro esempio filmico) da questo punto di vista non sono solo delle “curiosità”, ma aspetti estremi che, nella loro eccezionalità,  mettono bene in luce il funzionamento della mente autistica illustrato da uno dei grandi modelli post-psicoanalitici dell’autismo, quello della “coerenza centrale”. Questo modello, attraverso una imponente mole di dati sia clinici sia empirici, ha indicato le particolari modalità di elaborazione e integrazione dell’esperienza che spesso sono presenti nell’autismo. Peculiarità che sono alla base insieme delle difficoltà autistiche, degli “isolotti di capacità” e dei “talenti speciali”.
Ma deve essere chiaro che la grande maggioranza delle persone con autismo non è ad altissimo funzionamento come Temple Grandin e purtroppo non ha neppure il suo destino.

Cominceremmo allora proprio dalla dichiarazione con cui Temple Grandin apre il film e che poi ritorna più volte: “Mi chiamo Temple Grandin…non sono come le altre persone…sono una persona diversa, non inferiore…”.
Non è solo una dichiarazione “politicamente corretta”, che riguarda genericamente la pari dignità di ogni persona umana. E’ anche (o innanzi tutto) una verità scientifica.
L’autismo è stato oggetto di un colossale e drammatico fraintendimento, durato decenni: l’idea che si trattasse di una condizione di origine “psicologica”, una sorta di arresto o regressione difensiva ad una presunta “fase autistica” dello sviluppo (fase che peraltro non esiste proprio), dovuta a qualcosa che era andato storto nella relazione con la madre o comunque a un eccesso di angosce più o meno catastrofiche. Questo antico fraintendimento è rappresentato, nel film, nella scena della “diagnosi”: scena che in realtà è tratta dalle pagine di una scrittrice americana, Clara Claiborn Park, madre di una bambina autistica, autrice di uno dei libri più belli mai scritti sull’argomento (il libro, che nel titolo evoca la famigerata “Fortezza vuota” di Bettelheim, si intitola L’assedio  e fu tradotto in Italia da Astrolabio una trentina di anni fa). E’ la scena di quando lo psichiatra  accenna alle ipotesi etiologiche che hanno dominato fino agli anni ’70 del secolo scorso: forse Temple è così per un difetto di ambiente affettivo (la “mamma frigorifero”) o per un eccesso di angosce o comunque per qualcosa che le ha impedito l’evoluzione psicologica. Quest’idea si accompagnava a due conseguenze, solo apparentemente contraddittorie: da un lato una prognosi decisamente negativa (non c’è niente da fare), dall’altro, comunque, l’indicazione di interminabili terapie psicoanalitiche nella speranza che, attraverso di esse, il bambino autistico elaborasse e mitigasse a poco a poco le angosce che gli impedivano lo sviluppo e acquisisse una maggiore confidenza nella relazionalità umana.

Se ancora molto deve essere conosciuto, al riguardo dei diversi autismi, almeno una certezza l’abbiamo: sappiamo cosa l’autismo “non” è.  Trenta anni di ricerca, infatti, e una infinità di dati e di evidenze convergenti da diversi piani di indagine, hanno dimostrato in modo definitivo che quello psicogenetista era un colossale abbaglio; che le mamme non c’entrano proprio nulla e che le persone autistiche in realtà fin dall’inizio incontrano il mondo, sia quello fisico sia quello interumano, attraverso modalità assolutamente peculiari, a partire dalla stessa organizzazione percettiva, dalla processazione e integrazione degli stimoli sensoriali, dalla atipicità (o, in alcuni casi, dall’assenza) dei fenomeni di imitazione primaria (la prima, rudimentale, forma di intersoggettività, o meglio di “intercorporeità”, che testimonia attraverso la riproduzione “in eco” della mimica del caregiver della “taratura” dei sistemi mirror). Lo sviluppo autistico avviene in sostanza, per ragioni neurobiologiche sulle quali la ricerca contemporanea sta progressivamente gettando luce, in condizioni che rendono assai difficili la normale reciprocità e interattività, in condizioni in cui la decifrazione stessa della mimica, la comprensione delle intenzioni, la creazione di “modelli anticipatori dell’esperienza” è alterata. Provate a immaginare di crescere in un mondo che non ha l’ “evidenza naturale” che ha invece per le persone non autistiche, che ci crescono dentro come pesci nell’acqua, ma che è oscuro, incomprensibile, oppure viceversa inondante. Un mondo la cui “coerenza” e prevedibilità non sono dei dati immediati, ma qualcosa di faticosissimo da conquistare e costantemente minacciato.

Temple Grandin ha definito questa condizione quella di un “antropologo su marte” e Terese Jollife, un’altra celebre persona autistica ad alto funzionamento, l’ha così descritta: “La realtà per una persona autistica è una massa interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi e segnali. Niente sembra avere limiti netti, ordine o significato. Gran parte della mia vita è stata dedicata al tentativo di scoprire il disegno nascosto di ogni cosa. La routine, scadenze predeterminate, percorsi e rituali aiutano ad introdurre un ordine in una situazione inesorabilmente caotica”.

Se si volesse dare una definizione generale dell’autismo, che unifichi tutti gli autismi (ce ne sono tantissimi e differenti tra loro) si potrebbe dire che l’autismo è una forma di vita che si sviluppa a partire dalla debolezza e atipia di quei dispositivi innati che consentono al neonato e al bambino umano di crescere all’interno di una “evidenza naturale” del mondo.

Questo film può svolgere una salutare funzione nel promuovere e nel diffondere quelle che per la comunità scientifica sono sono evidenze oramai assodate da decenni. Funzione importante, perché c’è ancora una discrepanza stupefacente tra queste evidenze e quanto invece di questo sapere è passato nell’opinione pubblica generale e nel variegato mondo dei professionisti della “psiche”. Solo per dare un’idea: nella comunità scientifica che si occupa seriamente di autismo chiunque sostenesse una qualunque “psicogenesi” del disturbo sarebbe immediatamente visto come un ciarlatano che non sa di cosa sta parlando, in modo non diverso da chi, tra i biologi, si facesse sostenitore di tesi “creazioniste” contro l’evoluzionismo post-darwiniano. Eppure (può sembrare sconcertante) sono molte le persone, non solo tra i “profani” ma anche tra gli “addetti ai lavori”, che ancora sostengono (con argomenti che ricordano talvolta quelli opposti nel ‘600 alle tesi di Galileo) che non esiste nessuna prova della natura biologica dell’autismo. Sono molti coloro che ignorano i risultati della ricerca degli ultimi tre decenni  e continuano ad innalzare, come stendardi identitari, gli stereotipi tradizionali. Solo pochi anni fa organizzammo sulle “opinioni” degli “addetti” (neuropsichiatri infantili, psichiatri, psicologi…) un’indagine che testimoniò la perdurante ignoranza sul tema. Per fare solo un esempio, la grande maggioranza degli intervistati ancora riteneva (a dispetto delle evidenze  provenienti da tempo da tutte le indagini epidemiologiche e dagli studi di popolazione) che l’autismo fosse una condizione “infantile”, destinata a cambiare in qualcosa d’altro nell’età adulta (ritardo mentale, psicosi, disturbi di personalità…) nei casi in cui adeguate “terapie psicologiche” non l’avessero invece “sbloccato”. Che dire? Eppure è ben noto e accertato da molti anni che l’autismo, radicato com’è nella biologia della persona, è tipicamente una condizione che dura tutta la vita, indipendentemente dal tipo di “terapie” effettuate (il che non significa affatto che non ci sia nulla da fare: anzi, proprio conoscerne le specifiche caratteristiche consente di mettere in atto strategie adeguate che permettono non di uscire dall’autismo, ma almeno di modificare sostanzialmente la qualità delle traiettorie di vita).
 
Nella schiera di questi incompetenti ci sono purtroppo probabilmente anche diversi  psicoanalisti; essi, inconsapevolmente, fanno molto male alla residua credibilità della Psicoanalisi, del cui drammatico isolamento dal corpus della discipline limitrofe che si occupano di sofferenza mentale sono peraltro essi stessi involontari testimoni. Ma soprattutto, attraverso la squalifica del punto di vista psicoanalitico che le loro dichiarazioni improvvide suscitano, fanno molto male indirettamente proprio anche al compito di re-introdurre nelle concezioni attuali, nelle pratiche e nei contesti abilitativi dell’autismo la indispensabile attenzione per gli aspetti relazionali, il mondo degli affetti, la soggettività.
 
Tornando al film, vi sono in esso numerosi altri aspetti “esemplari”. Tra di essi, visto che il ciclo in cui questo film si inserisce riguarda la solitudine, ci sembra degno di menzione il seguente. L’autismo comporta ovviamente un rischio di solitudine radicale. Non è facile essere un “antropologo su Marte” nel mondo interumano, laddove gli altri sono pesci nell’acqua . E’ certo una esperienza terribile. Ma il film illustra, a questo proposito, una verità importante: nel caso dell’autismo nessuna generica “immissione nel sociale” in quanto tale funziona e fa bene. Qui infatti sono i fondamenti stessi della socialità ad essere in questione, ad essere fragili alle radici. L’incompetenza originaria alla socialità produce vulnerabilità sociale: “non dovresti evitare il contatto con le persone”, dice qualcuno ad un certo punto a Temple Grandin; e lei risponde: “ma lo sai che mi fanno male”…. E i modi di funzionamento della mente autistica, con le loro peculiarità, sono spesso incompatibili con una generica “inclusione”. Le drammatiche esperienze “inclusive” di TG in contesti non adatti stanno, nel film, a testimoniarlo. Temple Grandin, poi, con la sua straordinaria determinazione e con la sua altrettanto straordinaria genialità, riesce in qualche modo a forzare le incomprensioni dei contesti.  Purtroppo non avviene così per la maggior parte delle persone autistiche, assai più deboli, spesso con un ritardo mentale associato, non altrettanto dotate di talenti e determinazione, magari con gravi deficit o assenza del linguaggio. In generale: qualunque “inclusione” delle persone con autismo che non voglia essere solo ideologica (e produrre di fatto solo danni) deve tener conto delle caratteristiche specifiche della mente autistica. Richiede che i contesti siano organizzati in modo da rispettare quelle caratteristiche.
Chiedere alle persone autistiche di non essere autistiche è chiedere un adattamento impossibile. E perché mai? Nessuno si sognerebbe di chiedere ad una persona che soffre di una distrofia muscolare  o di un deficit motorio di “adattarsi”,  lui,  al mondo “normale”, pieno di barriere! Perché mai lo stesso principio non dovrebbe valere per le caratteristiche precipue della mente autistica?
Ma proprio qui sta il paradosso: perché se smettiamo di prendere fischi per fiaschi, se la finiamo di interpretare l’autismo come una “difesa” o come un “ritiro” provocato da dinamiche “psicologiche” intervenute a inceppare la costruzione delle relazioni oggettuali, se cerchiamo invece di capirne (e di rispettarne) le precipue caratteristiche, proprio allora creiamo le condizioni per un autentica condivisione (almeno parziale) di mondi e di esperienze, le premesse  per il riconoscimento e la valorizzazione dell’umanità delle persone con autismo e, talvolta, anche delle loro singolari attitudini.
 
Ci avviciniamo qui ad un ulteriore grande insegnamento di questo film. Oltre alla antica “psicogenesi”, vi sono infatti altri due grandi errori che solitamente si fanno nei confronti dell’autismo, quasi altrettanto perniciosi della vecchia indifendibile psicogenesi. Il primo, opposto se vogliamo all’errore psicogenetista  (ma fino ad un certo punto, perché semplicemente di un riduzionismo speculare si tratta)  è quello di pensare l’autismo  in termini puramente deficitari, come se fosse un insieme di comportamenti disadattativi e insensati secreti da cervelli rotti o mal programmati.
Il secondo, è di pensare i modi e le peculiarità del funzionamento autistico secondo un rudimentale algoritmo  statico “tutto o nulla” (c’è oppure semplicemente non c’è una certa funzione, ci sono oppure non ci sono capacità di “teoria della mente”, di “funzioni esecutive”, di “chaining intenzionale”, di empatia, riconoscimento affettivo e interesse sociale e così via). Algoritmo che è esso stesso conseguenza di una visione puramente “deficitaria” del funzionamento mentale autistico,  che trasforma in “cose” , in assetti deficitari statici e immutabili, quei modi di funzionamento della mente autistica che i grandi modelli post-psicoanalitici hanno descritto e che sono invece assetti funzionali (e neuro-funzionali) prevalenti ma esposti a importanti oscillazioni contestuali: non “buchi nella testa”.

Anche su questi aspetti il film è davvero esemplare e ci mostra cose importanti, che potremmo riassumere così:

1.    a partire dalle peculiarità autistiche, che determinano una debolezza originaria dei dispositivi sociali innati e dello sviluppo delle capacità e competenze sociali, comunque dei “mondi” si organizzano, anche intensi e complessi; mondi che innanzitutto si tratta di comprendere nelle loro specificità (è ciò che in un nostro saggio, qualche anno fa, facendo anche noi riferimento a Bettelheim, chiamammo “la debolezza piena”);
2.    dalle atipie all’origine dello sviluppo autistico  non originano solo problemi, talvolta terribili (l’aspetto deficitario), ma anche di aspetti di originalità o, in alcuni rari casi,  di genialità.Quest’ultimo fu già un rilievo di Kanner che nel 1943 descrisse gli “isolotti di capacità” come una caratteristica nucleare dell’autismo. Caratteristica ben rappresentata dalla geniale “mente fotografica” di Temple Grandin, dalle sue straordinarie capacità e memoria visuo-spaziali. Non tutte le persone autistiche hanno queste capacità straordinarie, ma molte hanno comunque degli isolotti di capacità particolare; spesso nell’area visuo-spaziale, in altri casi  musicali o matematiche. Come prima abbiamo accennato, c’è tutto un filone della ricerca contemporanea, che ampiamente si avvale delle tecniche di neuroimaging, che ha messo in luce come questi funzionamenti siano espressione di pattern di connessioni atipici, talvolta con iperfocalizzazione locale e/o debole coerenza centrale. Fiorente è poi attualmente la ricerca su diversi fattori del neurosviluppo che intervengono sull’organizzazione sinaptica, sui sistemi di connessione locale e a lunga distanza e sul bilanciamento tra fenomeni eccitatori ed inibitori che sembrano responsabili sia di questi pattern di organizzazione atipica (dimostrabili e dimostrati già in epoca precocissima) sia di numerosi altri aspetti clinici dell’autismo (non ultimo la prevalenza elevatissima di epilessia nell’autismo). Ma non è certo questa la sede per entrare in dettagli scientifici. Ciò che qui importa  è ricordare come quelli che da un certo punto di vista sono dei deficit, da altri punti di vista possono alimentare degli “special gifts”. Non è un caso, del resto, che nel film la persona che subito meglio capisce Temple Grandin, che non si stupisce affatto delle sue capacità, è la compagna di stanza cieca, la quale ha imparato anche lei, a partire dalla sua disabilità, a organizzare in altri modi il suo mondo, a “vedere attraverso i suoni”.

       3. Le disabilità autistiche, pur così radicate nell’organizzazione psicobiologica, non sono comunque mai “né statiche né globali”, come scrisse una volta una celebre studiosa dell’autismo, Uta Frith, ma presentano oscillazioni importanti.  Nei contesti in cui le caratteristiche del disturbo sono comprese e rispettate, è possibile così incontrare, nelle persone con autismo, capacità e sensibilità inaspettate, che testimoniano la presenza di tutti gli ingredienti dell’umano, sia pure in forme e combinazioni diverse. Compresa una vita affettiva spesso ricchissima; compresi intensi bisogni relazionali ,sia pure peculiari.
Questo mix talvolta straordinario di ingenuità, incompetenza sociale e bizzarra finezza relazionale è ben espresso dalla sequenza del discorso di laurea di Temple Grandin. Chi ha consuetudine vera ed “ecologica” con le persone autistiche, quando incontra questi mix continua a commuoversene; ma certo non se ne stupisce.  Chi legga le descrizioni della vita a Cascina Rossago, nel nostro saggio, potrà riconoscere molte situazioni simili.

Come evitare dunque il tristo destino di solitudine delle persone autistiche, destino che sembrerebbe obbligato dalla natura stessa della loro disabilità?
Partendo proprio dalle considerazioni che questo film suggerisce.
Intanto, appunto, facendo piazza pulita della enorme quantità di sciocchezze che sono state dette in passato, chinandosi con pazienza e umiltà su queste forme di vita singolari, per cercare di capire davvero come funzionino, quali principi organizzativi e peculiarità le reggano. Non per organizzare contesti di integrazione “forzata” (il primo college cui Temple Grandin è costretta) ma  autentiche condivisione di mondi.
Certo, come dice Temple Grandin, occorrono cuore e speranza (“col cuore e la speranza mai sola tu sarai…”) i quali tuttavia da soli non bastano, se non sono accompagnati da conoscenze vere.
A queste condizioni però molte cose possono succedere; e, come nel film dice la protagonista, è possibile vedere “un filo che si ricongiunge, qualcosa che si aggiusta”. E’ possibile.
 
Nel finale del film torna la frase “Mi chiamo Temple Grandin: io penso per immagini”; frase che diventa una scultorea affermazione della sua unicità, della sua dignità e peculiarità umana.
Ci ha molto colpito questa sequenza, anche per un ricordo personale. Quando uno di noi  una quindicina di anni fa girò un po’ il mondo, al di fuori dei circuiti ufficiali, per studiare le “farm community” per persone adulte autistiche e per vedere quali contesti davvero funzionavano e quali no, riportò dalla comunità tedesca di Hof Meyerwiede, vicino a Brema, un film che si apriva con una sequenza pressochè identica. Con la stessa identica prosodia, con la stessa identica intonazione, con la stessa identica scultorea affermazione identitaria, un giovane uomo,orgoglioso falegname, scandiva:

“Ich bin Martin, Ich bin Martin Schiele, Ich bin einer Tischler”

A Temple, a Martin, a tutte le centinaia di persone con autismo che abbiamo conosciuto e che hanno arricchito la nostra vita.

ISOLE. Riflessi di solitudine nel cinema.
Buio in sala.
Firenze, 21 ottobre 2011
 

Secondo Commento: Paolo Meucci

Una donna straordinaria

“La solitudine è dimensione fondativa dell’esperienza umana, profondamente intrecciata al rapporto con l’altro. Non si può essere uno se non si è stati in due e non si può essere in due se non si è uno”: la considerazione contenuta nel depliant della rassegna “Isole”, rassegna che si apre questa sera con la proiezione di “Una donna straordinaria”, è vera. Ma non in assoluto, non per le persone autistiche.
La solitudine della persona autistica non riesce a intrecciarsi al rapporto con l’altro. La particolarità di questa persona è appunto quella di essere uno senza essere stati in due: è la condizione di chi non ha potuto vivere esperienze fondative legate all’intersoggettività, al senso di piena condivisione con un altro da sé.
Sembra infatti che il deficit psicologico originario della condizione autistica risieda nell’impossibilità di vivere esperienze di consonanza con lo stato intenzionale e affettivo dell’altro.
Da tale mancanza si origina un vissuto di incommensurabilità tra sé e l’altro: non c’è nostalgia o mancanza ma solitudine radicale.
La persona autistica si trova immersa in un  mondo sociale incomprensibile, imprevedibile e minaccioso che sollecita senso di confusione e di costante allarme.
La solitudine rischia di diventare un rifugio, algido ma sicuro nell’avviluppamento auto-sensoriale. Per fortuna, come ci mostra Temple Gardin, esistono anche altre possibilità. La Temple bambina sulle scale che non riesce a stabilire un contatto comunicativo con la propria madre, mentre è tutta catturata dallo scintillio del lampadario, diventa la conferenziera che parla a platee di tutto il mondo.

Il taglio narrativo del film -in linea con le modalità di stare al mondo della Temple adulta- pone il fuoco sulla forza di reagire, sulla capacità di tramutare in ricchezza le proprie difficoltà. È un film sulla possibilità di vivere appassionatamente e trovare un adattamento funzionale grazie all’accettazione del disturbo e alla conversione delle difficoltà in punti di forza: “Avevo un dono, vedevo il mondo da un’altra prospettiva, invisibile agli occhi degli altri” dichiara Temple alla fine.

Che cosa vuol dire emotivamente vivere in questa maniera? Al riguardo il film non dice molto. Mentre il sentire sensoriale viene ampiamente descritto, non abbiamo accesso al sentire emotivo. E’ difficile calarci nei panni di Temple Gardin: la osserviamo, ci è molto simpatica, ci fa tenerezza, ma cosa prova?  Cosa  comporta internamente non capire gli esseri umani vivendo in un mondo di esseri umani? Cosa vuol dire stare in una condizione di estrema solitudine?
Forse possiamo intuire qualcosa se la nostra attenzione si sposta sugli animali presenti nel film, se proviamo a immedesimarci nella loro condizione, come fa appunto la protagonista. Grazie agli animali, Temple può vivere emotivamente, in contatto con un altro essere vivo. Grazie agli animali, noi possiamo avvicinare il mondo interno di Temple.

Le mucche nella loro staticità evocano uno stato di sospensione dal mondo sociale, sospensione dal pensiero: c’è solo da brucare, scivolando semmai in un’autarchica ruminazione mentale.
Quando invece le osserviamo creare in branco quelle onde viventi, possiamo  fantasticare sul desiderio di immergersi in un mondo indifferenziato e vitale che sollevi dal peso di essere inesorabilmente uno.
Mentre le vediamo muoversi nel tunnel che conduce alla morte, possiamo pensare al non-senso dello stare al mondo, quando questo non-senso coincide con il procedere in solitudine verso una fine senza uno scopo comprensibile. Possiamo capire tutto il lavoro di Temple con le mucche per accompagnarle a una dolce morte, farle sentire prese dal piacevole movimento che spinge sempre avanti, una porta dopo l’altra, creando un senso di confortevole flusso continuo che aiuta a non pensare i pensieri che la mente non riuscirebbe a sopportare. Pensieri che come le pallottole del macello trapassano la testa.

Paolo Meucci
Buio in sala
Isole. Riflessi di solitudine nel cinema.
Firenze, 21 ottobre 2011

 

 

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