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Intervista a Giuseppe Pellizzari. A cura di Nelly Cappelli

23/10/08

Intervista a Giuseppe Pellizzari

a cura di Nelly Cappelli

D.: Nel libro “L’apprendista terapeuta” poni il quesito del “se e come” il “mestiere” di terapeuta possa essere appreso. In particolare descrivi una posizione mentale e affettiva peculiare del terapeuta nei confronti del paziente…

R.: Nell’insegnamento della psicoanalisi vi è, secondo me, una pericolosa tendenza all’accademismo.Il “training”, (il termine di per sé dovrebbe evocare l’idea di un addestramento pratico), ha assunto sempre di più, specialmente  dopo il malaugurato riconoscimento statale che lo equipara ad una scuola di psicoterapia sottoposta a parametri didattico-accademici, una struttura di stampo universitario, dove, salvo in parte le supervisioni, prevale l’insegnamento articolato per materie di un sapere piuttosto che la trasmissione di un “mestiere”; come se diventare psicoanalisti assomigliasse di più al catecumenato di un ordine sacerdotale, che all’apprendimento di un mestiere, di un’”arte”, come si diceva nelle botteghe artigiane del Rinascimento, termine ripreso recentemente da Ogden.Sono dell’idea che la psicoanalisi sia una scienza eminentemente pratica, vale a dire una “clinica”, piuttosto che una “tecnica” e che solo a partire da questa sua peculiarità debba essere sia pensata che insegnata. Le teorie, da considerarsi come portolani orientativi e non certo come ideologie metafisiche, dovrebbero essere conosciute attraverso situazioni cliniche come “vertici” capaci, più o meno, di illuminarne il processo e la struttura e non come sistemi filosofici ai quali appendere la propria identità professionale.

Ferradini sosteneva che lo psicoanalista è un po’ scienziato, un po’ filosofo e un po’ artista.

Ciò che tiene insieme queste caratteristiche è, secondo me, un “mestiere”, la métis dei Greci, quella qualità specifica che consentiva all’auriga di guidare i cavalli senza ricorrere alla frusta, alla forza fisica, alla violenza o alla tecnica, ma con la leggerezza della sua mano sapiente, mano esperta, che ha cioè appreso un’arte che non si può definire né codificare nelle sue regole in formule fisse che si possano imparare come si impara una lezione, ma solo, per riprendere Bion, apprendere dall’esperienza, saggiandone volta per volta l’ignoto. L’insegnamento dovrebbe avere il compito di favorire tale esperienza, che per essere tale ha da essere personale e originale e non imitativa. Spesso al contrario finisce con l’ostacolarla.Un pittore impara l’arte  frequentando gli atelier, uno scienziato frequentando i laboratori di ricerca. Gli studi e i laboratori sono, devono essere, diversi tra loro. La ricerca a tutti i costi di una uniformità, di un common ground, di una koiné psicoanalitica è, a mio parere, sintomo di decadenza. Meglio il dibatto e il conflitto, la convivenza delle diversità che consentano di costruire il proprio mestiere in un territorio vivo e accidentato che non l’adeguamento scolastico a dei modelli, vale a dire il conseguimento di un falso sé psicoanalitico. D.: L’esperienza con i pazienti che si rivolgono ai Servizi Territoriali per essere curati è rilevante nella trasmissione di questo “sapere”? R.: Nella formazione di uno psicoanalista, o comunque di uno psicoterapeuta, è importantissima l’esperienza con la realtà delle persone che soffrono nella loro varietà e peculiarità. Non ci si può permettere, sia per motivi storici ed economici, sia, secondo me, per motivi etici e culturali, di “selezionare” i pazienti sullo spettro, ormai assai striminzito, della psicoanalisi classica, onde non contaminarne l’”oro puro”. Ritengo che il mestiere dello psicoanalista sia essenzialmente un mestiere “impuro”, dove la contaminazione non rappresenta una forma di degrado, ma una forma di creatività e di ricerca. Siamo più dalla parte dei “cerusici” medioevali che da quella dei teologi che insegnavano nelle università come era fatto il corpo umano.Il contatto con la sofferenza che esula dai canoni e quindi con i pazienti che non rientrano nel novero degli eletti “analizzabili”, per motivi sociali, economici e clinici, è il futuro della psicoanalisi. E’ lì che si imparano cose nuove, è lì che maturano invenzioni interessanti.La psicoanalisi deve andare ad imparare anche al di fuori dai suoi territori familiari, ritrovare uno spirito di avventura, altrimenti rischia di chiudersi in una pericolosa autoreferenzialità.E’ significativo a questo proposito osservare come vi sia una prevalenza di pazienti “chierici” (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili etc.) rispetto ai “laici”. Viene il sospetto che vi sia una diffusione e una moltiplicazione tutta interna a un movimento “psi” che cresce a dismisura perdendo contatto col resto del mondo. D.: La notevole esperienza con gli adolescenti ha cambiato il tuo modo di concepire il tuo lavoro come psicoanalista? R.: Il lavoro terapeutico con gli adolescenti mi ha soprattutto insegnato a diffidare di ogni rigidità. Sia teorica che tecnica. Con gli adolescenti infatti è necessario reinventare la psicoanalisi ogni volta, senza mai dare nulla per scontato. Non solo, come è noto, le categorie diagnostiche tradizionali vanno tenute sospese di fronte alla mobilità fisiologica del soggetto adolescente, ma anche concetti basilari come quelli di setting e di transfert vanno riscoperti volta per volta. Se l’analista, sia per gli adulti, che in modo diverso per i bambini, risulta essere l’ “analista supposto sapere”, fantasma che organizza il transfert, per gli adolescenti invece è l’ “analista supposto non sapere”, equiparato all’adulto che “non può capire”. Occorre conquistarsi sul campo la fiducia e il ruolo terapeutico. Ciò risulta faticoso ed è per questo che per molto tempo la psicoanalisi degli adolescenti è stata poco praticata e guardata con diffidenza, ma è tuttavia affascinante perché promuove di necessità una continua messa in discussione della propria competenza e del proprio sapere, messa in discussione che svolge una funzione disentropica rispetto al metodo psicoanalitico stesso.La parola “metodo” deriva dal greco “metà odòs”, che significa “lungo la strada”, “attraverso il percorso”, qualcosa cioè che si genera strada facendo. Non un canone di dogmi non negoziabili che fonda l’identità dello psicoanalista come il Credo quella dei dottori della Chiesa, ma un “atteggiamento”, un modo di disporsi verso l’esperienza della conoscenza dell’altro, un vertice relativamente mobile capace di rinnovarsi inesauribilmente lungo la strada che genera e dalla quale è rigenerato. Tutto ciò con gli adolescenti è di una evidenza paradigmatica poiché loro stessi sono alla ricerca di un vertice siffatto. D.: La psicoanalisi degli adolescenti (come quella dei bambini e dei casi gravi) è stata a lungo considerata la “Cenerentola” della psicoanalisi. Invece, dall’analisi degli adolescenti sono derivati arricchimenti e l’assunzione, oserei dire, di nuovi paradigmi. Cosa insegna l’analisi degli adolescenti alla psicoanalisi degli adulti? R.: Freud riteneva che le condizioni essenziali per un trattamento psicoanalitico fossero sostanzialmente un “Io normale” e le capacità di questi di sviluppare una “nevrosi di transfert”. Per questo motivo non credeva possibile una psicoanalisi dei bambini, ma solo una “applicazione” di essa alla pedagogia. La Klein e Winnicott hanno dimostrato il contrario. E questo ha comportato un rinnovamento dei parametri della cura psicoanalitica. Accanto al parametro storico-ricostruttivo (Trauma infantile rimosso-sintomo come “secondo tempo del trauma”-nevrosi di transfert-interpretazione- risoluzione del sintomo) si è affermato un parametro che potremmo definire linguistico-relazionale, dove l’accento viene posto sull’accesso alla pensabilità del vissuto nella sua attualità relazionale. Da qui l’importanza dell’hic et nunc, della relazione di contenimento e di rêverie, etc.

Penso che la psicoanalisi degli adolescenti sia stata a lungo trascurata perché l’adolescente rappresenta un oggetto instabile per sua natura che si presta poco ad un inquadramento non solo diagnostico, ma anche terapeutico. Oggi non a caso è invece diventata di interesse primario dal momento che viviamo un periodo storico caratterizzato proprio da quella instabilità e precarietà narcisistica che ha fino ad ora visto l’adolescente come un oggetto poco affidabile scientificamente.

La questione dell’instabilità e dell’incertezza introducono, a mio avviso, nuovi parametri che mi sento di riassumere come narcisistici-esperienziali. L’adolescente presenta fisiologicamente una sofferenza narcisistica come espressione di una drammatica incompletezza e frammentarietà di se stesso; una situazione, generata dalla spinta pulsionale puberale e dalla maturazione delle sue capacità di pensiero astratto, che ripropone “in seconda battuta” i traumi del passato infantile in un nuovo contesto. Ciò può comportare una sofferenza e uno smarrimento narcisistico che vanno alla ricerca di un “compagno di viaggio” capace di testimoniare nella relazione di transfert quella funzione che Käes ha chiamato di “garante metapsichico” del mutamento in atto nel soggetto.L’aspetto di novità può essere indicato nel fatto che, mentre il modello infantile che ha dominato la storia della psicoanalisi, esprime la necessità scientifica di un modello deterministico che fondi la teoria, come per le scienze naturali, sulla predittività e sulla spiegazione causale e strutturale dei fenomeni osservati (anche se attualmente le stesse scienze naturali si sono allontanate da tale impostazione neopositivista), il modello adolescenziale introduce per sua natura un fattore di imprevedibilità non deterministica che perturba la teoria e la mette in discussione. Il limite teorico della teoria psicoanalitica, come di qualsiasi teoria “psi”, è costituito dal mistero personale del soggetto, ciò di cui non si può dare scienza dal momento che esso è l’origine della scienza medesima. Non vi è età dove il mistero della persona “in stato nascente” si mostra con maggiore evidenza dell’adolescenza. Penso che questo modo di vedere possieda una valenza capace di rinnovare le modalità della cura psicoanalitica in generale e quindi anche quella degli adulti. D.: Ne “L’apprendista terapeuta” parli di “terapeuta” appunto. Come definisci la peculiarità della psicoanalisi rispetto alla psicoterapia psicoanalitica? R.: Devo confessare che non ho mai capito la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica.La psicoanalisi è, come ovvio, una forma di psicoterapia e non solo una teoria. La specificità della cura psicoanalitica, come ha chiaramente sottolineato Freud, si fonda essenzialmente sul transfert, sul fatto che sia possibile una relazione di transfert, e sulla sua interpretazione e utilizzo a scopo terapeutico attraverso le libere associazioni e l’attenzione liberamente fluttuante. Tutto ciò che costituisce il complesso apparato costruito nel tempo su queste basi è, a mio parere, transitorio, storicamente connotato, opinabile e discutibile all’infinito, e pur tuttavia indispensabile. Per Freud, vedere quotidianamente il paziente sdraiato su un sofà mentre se ne stava comodamente seduto sulla sua poltrona alle sue spalle era una opportunità che facilitava il suo lavoro di analista e nulla di più. Il feticismo del Setting non era ancora nato. Se tale opportunità non risulta possibile, il lavoro dell’analista diventa più difficile e faticoso e, forse, anche meno efficace. Questo non significa automaticamente che la psicoanalisi non sia più possibile.Se un chirurgo deve operare un paziente, è certamente auspicabile che l’intervento avvenga in una sala operatoria attrezzata e sterile; ma se queste condizioni sono per necessità impossibili e di fronte a situazioni di emergenza, come in zone di guerra o di catastrofi umanitarie, un chirurgo opera ugualmente ricorrendo alle risorse che trova o che si inventa. Si può forse affermare che non eserciti la chirurgia? Non solo, l’esperienza di queste situazioni estreme ha insegnato moltissimo alla tecnica chirurgica e ha orientato la ricerca utile. Lo stesso, a mio parere, deve valere per la cura psicoanalitica.Ormai quasi tutti gli psicoanalisti si guadagnano da vivere facendo le cosiddette “psicoterapie”, vale a dire trattamenti a meno di tre sedute settimanali, magari anche vis a vis, come fossero analisi di serie B, “pronta beva”, invece del vino “da meditazione”, che fanno inorridire i grandi sommelier.

Perché gli psicoanalisti quasi se ne vergognano e non considerano invece quest’area di esperienza un territorio di ricerca, di sperimentazione, di riflessione teorica che molto probabilmente rappresenta il futuro della psicoanalisi? La psicoanalisi è un metodo di cura e di ricerca che deve imparare a piegarsi alla diversità storica dei contesti, riscoprendo in questo la propria identità come ascolto dell’altro nel suo mutare e nel suo sorprenderci, e non la celebrazione di un rito che qualche Concilio (o Congresso) ha stabilito o corretto.

D.: In “Come cura la psicoanalisi”, a cura di Berti Ceroni (Milano,Franco Angeli, 2005, pagg.384), è pubblicato un tuo lavoro: “L’esperienza della temporalità come fattore terapeutico”. Puoi accennare al tuo concetto di temporalità? R.: La cosiddetta atemporalità dell’inconscio ha rischiato di fuorviare la riflessione psicoanalitica. C’è stato il rischio di vedere nell’inconscio una struttura deterministica in senso ideologico. Un algoritmo responsabile dei suoi “derivati” in modo meccanico e riduttivo, secondo una causalità lineare e rigida. Una sorta di freudismo fondamentalista che naturalmente non ha nulla a che fare con la complessità del pensiero di Freud. A ben vedere, infatti, lo stesso concetto di “censura onirica” testimonia un’area di attività dell’Io che, attraverso condensazioni, spostamenti e simbolizzazioni, non si limita a mascherare la verità dell’inconscio, la quale in se stessa senza tale attività di trasformazione linguistica non ha statuto di esistenza psichica, (è pura Cosa, nell’accezione lacaniana del termine), ma per l’appunto la fa parlare, le dà la parola. Ora, l’acquisizione del linguaggio coincide con l’ingresso nella temporalità. Il linguaggio come atto trasformativo e comunicativo non solo accade nel tempo, ma genera il tempo come ritmo significante tra un prima e un poi, tra un uno e un altro, inaugura la dimensione dell’alterità come referenza, come un riferirsi a: riferirsi a un oggetto (pensiamo all’indicazione dei bambini), riferirsi a un altro soggetto, l’interlocutore.L’inconscio, ci insegna Freud, “tende” per sua natura all’espressione linguistica. Se è “il capitalista” del sogno, è anche il movente del linguaggio inteso come “tensione” e non come codice atemporale. L’ossessione strutturalistica del codice rimuove l’aspetto “sporco” della tensione, il suo carattere temporale, non ingabbiabile in una struttura ideale. L’inconscio è pensabile solo nella sua polarità dialettica con l’ignoto, cioè con l’altro che solo può significarlo, il “già” in relazione con il “non ancora”. Altrimenti, come la “cosa in sé” di Kant, rimane un oggetto virtuale sul quale si possono fare tutte le congetture teoriche possibili, che possono anche essere scambiate per verità scientifiche, e non una cosa viva con cui interagire nel tempo facendone esperienza.Il tempo sembra possedere due requisiti che lo caratterizzano: da un lato è ritmo (pensiamo ai ritmi biologici che segnalano la vita fin dal suo apparire), dall’altro è apertura verso l’ignoto. Coazione a ripetere, che è propria di ogni ritmo, e trasformazione, che è conseguenza dell’incompletezza propria di ogni organismo vivente nell’interazione con l’ambiente fisico e sociale. Del resto, un ritmo diviene musica, e quindi linguaggio, nel momento in cui contiene una infinita possibilità di variazioni e articolazioni secondo sequenze temporali, altrimenti non è ritmo, ma cosa.Scopo del lavoro analitico è quello di introdurre un ritmo trasformativo nelle aree silenti, incistate, ripetitive. Si potrebbe dire di rimettere in funzione il lavoro del tempo là dove si è bloccato (il “tempo ucciso” di cui parla Green). In particolare il tempo analitico organizzato nel Setting, ma anche dimensione riflessiva dell’esperienza come ascolto dell’altro e incontro con l’ignoto, possiede una peculiarità originale che lo differenzia dalle altre espressioni della temporalità (i tempi “tecnici” dell’efficienza produttiva, della performance, intervallati ai tempi “morti” della stasi, dell’evasione o del divertimento) e che lo caratterizza come vettore mobile di quel luogo per esistere e pensare nella propria totalità di esseri umani che definiamo “spazio analitico”. Uno spazio dinamico che muta e si trasforma nel tempo della sua esplorazione.

L’espressione, solo apparentemente banale «vediamo un po’ che cosa accade qui tra noi» è il senso della regola fondamentale e inaugura il tempo della cura (termine che ha la medesima radice di “curiosità”). Accanto all’inconscio come referente interno che si dà a conoscere attraverso i suoi derivati nel corso del tempo, vi è l’ignoto. Se l’inconscio è “conosciuto non pensato”, già lì, l’ignoto è  pensiero del non conosciuto, non ancora. Inconscio, che è il lascito del passato, e ignoto, che è lo sconosciuto futuro, si incontrano quotidianamente nell’esperienza e il tempo è la loro origine inesauribile.

 

 

BIBLIOGRAFIA dell’AUTORE

GIACONIA G., PELLIZZARI G., ROSSI P. Nuovi fondamenti per la tecnica psicoanalitica. Roma, Borla, 1997 PELLIZZARI G. L’ apprendista terapeuta. Riflessioni sul “mestiere” della psicoterapia.  Torino, Bollati Boringhieri, 2002  PELLIZZARI G. L’esperienza della temporalità come fattore terapeutico. In (a cura di G. Berti Ceroni) Come cura la psicoanalisi? Milano, Franco Angeli Editore,  2005

Relazione presentata al 5° Convegno Nazionale di Psicoterapia dell’adolescenza: L’adolescente tra contesti naturali e contesti terapeutici, Novembre 2002, Firenze. www.psicomedia.it

 

 

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