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“Il diritto di esistere” Recensione di L. Porzio Giusto

11/05/23
"Il diritto di esistere" Recensione di L. Porzio Giusto

Parole chiave: Psicoanalisi, Pallier, Soavi, simbiosi, fusionalità

Il diritto di esistere

Scritti sulla ricerca psicoanalitica di Lydia Pallier

Recensione a cura di Laura Porzio Giusto

Scritti di Lidya Pallier e Nota biografica a cura dei figli Antonio e Alessandra

A cura di Maria Grazia Chiavegatti e Giancarlo Di Luzio

Prefazione di Stefano Bolognini. Autori: Carla Busato Barbaglio,Maria Grazia Chiavegatti, Giancarlo Di Luzio, Gianfranco Giordo, Alfredo Lombardozzi, Cristiana Pirrongelli

La nostra vita si espande o si restringe

in proporzione al nostro coraggio.

Anaïs Nin

Questo volume, come espresso dai curatori, nasce “da un’Onda Emotiva” (p. 20), subito dopo la morte di Pallier, “sotto la spinta e il desiderio di mantenere vivo il suo ricordo” (p. 17).

È da questa morte, dalla sua assenza, che prende vita la narrazione di Pallier, della sua persona, della sua storia, delle sue teorizzazioni, del suo essere analista.

Una narrazione come processo vitale per far fronte ai sentimenti di perdita, attraverso una messa in circolo di affetti, pensieri, suoi lasciti e rielaborazioni soggettive, non solo del bagaglio teorico-clinico, ma di quello esperienziale vissuto nella relazione con lei.

Trama, ordito, stoffa, tessuto, sono parole che ricorrono nel corso dei capitoli, metafore che mi sembrano rappresentare quello straordinario processo di tessitura relazionale di cui Pallier era capace e che si coglie in tutte le voci che ascoltiamo nel corso delle pagine. Non solo gli Autori dei diversi capitoli e la voce di Pallier attraverso i suoi articoli riportati, ma figli, allievi, pazienti, pazienti di suoi analizzati e supervisionati e, presenza solida sullo sfondo, il suo gruppo di ricerca (Neri, Petacchi, Tagliacozzo, Soavi).

Tutti confluiscono nella tessitura della sua storia, delle sue teorizzazioni, delle sue qualità umane, del suo modo di “essere psicoanalista” diverso dal “fare la psicoanalista” (p. 213), della “continuità e coerenza profonda fra il suo essere psicoanalista ed il suo essere donna, madre, nonna… il suo essere Lydia nella vita” (p. 226). Un modo di essere psicoanalista “non solo intelligente e originale ma soprattutto autentico”, connotato da “un esercizio della sincerità” (p.121). Si potrebbe forse dire che facesse uso di una funzione analitica della mente sostenuta e sostanziata da affetti veri e autentica curiosità per i propri pazienti. Ritrovo questo connubio espresso con parole diverse in tutte le voci del volume, nonché nella mia personale esperienza con lei.

Una collega da lei supervisionata, racconta, in una testimonianza, di essere rimasta spiazzata quando la dottoressa prima di iniziare a leggere il caso clinico aveva voluto sapere di lei: “al centro del suo interesse c’era ‘la stoffa del mio sé!” (p. 231).

La nota biografica, scritta dai figli Antonio e Alessandra, mostra la stoffa del suo Sé a partire dalla sua giovane età. Una storia straordinaria, in cui vengono narrati “gli elementi chiave del suo percorso e la determinazione del suo carattere” (p.24).

Lidya Pallier riesce a sopravvivere a due regimi totalitari, in cui la sua vita è più volte messa seriamente e drammaticamente a rischio. Ma “lei non avrebbe mai accettato di morire o convivere con continue minacce di morte” (p.27), dicono i suoi figli, sintetizzando, a mio parere, l’essenza più caratteristica e profonda di Pallier, quella spinta psicobiologica che costituisce il diritto alla vita e all’esistenza psichica.

Questo il grande tema che dà titolo e attraversa il volume, che trae dunque le sue origini da esperienze vissute da Pallier, e che ha costituito il terreno delle sue osservazioni cliniche, delle sue teorizzazioni e del suo modo di essere psicoanalista.

“La vita è più forte di tutto” (p.215), come da me testimoniato, è il lascito più prezioso che conservo.

Così anche Stefano Bolognini, nella sua Prefazione, esordisce esprimendo di essere sempre rimasto colpito “dalla impressionante diversità di ogni analista – inteso come persona – […]” (p.9). Considerazione che, quando dobbiamo inviare un/a paziente ad un/a collega, ci fa intimamente porre alcuni interrogativi con cui “andiamo al nocciolo e cerchiamo di percepire la natura ultima della presenza altrui” (ibidem).

E ancora, si legge nel proseguo dei capitoli, descrivendo il concetto di fusionalità, “la Pallier chiamava tessuto questo elemento psichico che si può immaginare come una metaforica trama reticolare pluiridimensionale di un plasma vitale, il cui stato di coesione o di frammentazione consente od ostacola la manifestazione pulsionale e il funzionamento mentale” (p. 185).

È interessante l’apparire di queste sintonie dal momento che chi scriveva non sapeva, in quel momento, che altri avrebbero utilizzato o stavano utilizzando le stesse metafore. Eppure la sensazione che si ha nella lettura complessiva, non è quella di una ripetizione, di pensieri e contenuti identici, ma di una base di sentire comune, sulla quale, o a partire dalla quale, confluiscono soggettività tra loro diverse.

Considerazione che mi fa pensare alla distinzione, che Pallier in tempi recenti aveva chiarito in modo netto e preciso, tra simbiosi e fusionalità. Se la simbiosi fa riferimento a “una relazione primaria denotata da aspetti parassitari e compromettenti il processo di individuazione” (p. 125), in cui vi è confusione tra i due soggetti, ciò che avviene quando la madre non riesce a tollerare la specifica soggettività del bambino, la fusionalità fa riferimento a uno stato arcaico del Sé, tra il biologico e il mentale, che si caratterizza per «tranquillità, assenza di persecuzione, assenza di manipolazione, eventualmente estasi, assenza di falsificazione ed anzi chiarezza di pensiero una sana capacità di fondersi con l’oggetto, accanto all’elaborazione del rapporto con gli oggetti separati dal Sé»[1]. Non una fase che viene superata, ma uno stato che comincia all’inizio dell’esistenza e permane per l’interno arco della vita.

Secondo Pallier una buona esperienza fusionale primaria è condizione che permette il poter vivere questa esperienza con altri oggetti esterni nel corso della propria vita, persone, ma anche natura, arte, studio. “Si potrebbe pensare che uno dei compiti dell’analisi sia quello di ristabilire una sana modalità di vivere il continuo, una sana capacità di fondersi con l’oggetto, accanto all’elaborazione del rapporto con gli altri oggetti separati dal Sé” (p. 45).

Di contro, “la rottura del contenitore fusionale espone a sentimenti e fantasie di perdita catastrofica e di frammentazione” (p.71), che possono portare all’identificazione con un bambino mostruoso rifiutato e all’insorgere del fenomeno del “sentirsi un bluff”, espressione da lei alternata nel tempo con sindrome del millantatore o sindrome dell’impostore (p. 151). Condizioni queste, che non permettono di accedere ad un diritto all’esistenza ostacolando fino ad impedire l’aspirazione ad una propria crescita personale, e dunque la realizzazione di propri progetti e desideri. In queste situazioni il perseguimento del proprio progetto vitale porta con sé una pena, quella di “pagare il pizzo”, pizzo che può prendere la forma di forti sensi di colpa per propri successi o profonda vergogna per essere stati scoperti nei propri aspetti mostruosi o di millanteria.

I diversi Autori mettono in luce il richiamarci di Pallier a una riflessione su come “Lavorare sul diritto all’esistenza” (p.95) e di come “essere noi per primi ‘vivi’ e capaci di trasmettere vita” (p.236). Una ricerca continua, un interrogativo che non trova risposte definitive, ma che il lavoro dei colleghi che hanno costruito il dialogo di questo volume fornisce moltissimi spunti e riflessioni che aprono a possibilità trasformative di quei profondi sentimenti di non aver diritto all’esistenza su cui tanto si è fondato il pensiero e il lavoro clinico di Pallier.

Durante la lettura di questo libro mi è capitato di incontrare la citazione che ho posto in esergo, citazione riportata all’inizio di una storia per bambini in cui un Grande Granchio accompagna un impaurito Piccolo Granchio a immergersi nel mare e a conoscerne le sue profondità e meraviglie. Le onde, all’inizio spaventose, diventano veicolo del loro viaggio insieme che porterà Piccolo Granchio a scoprire un mondo che sarebbe rimasto sconosciuto se i due, con coraggio, non si fossero fatti travolgere dalle onde per immergersi nel mare. Mi ha fatto pensare non solo al viaggio dell’analisi, ma al coraggio di Pallier, coraggio con cui ha potuto espandere la propria vita e che ha costituito una delle cifre più significative della sua libertà di pensiero, del suo lavoro clinico e del suo stare in relazione con gli altri, comunicando vita.


[1] R. Tagliacozzo, Angosce fusionalità: mondo concreto e mondo pensabile, Borla, Città di

Castello, 1990, pp. 81, 93, 95.

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