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“Nello spazio del lutto” di L. Ambrosiano. Recensione a cura di S. Fassone

4/05/22
"Nello spazio del lutto" di L. Ambrosiano. Recensione a cura di S. Fassone

Parole chiave: Lutto; Melanconia; Psicoanalisi; Violenza; Tenerezza;

NELLO SPAZIO DEL LUTTO. MELANCONIA, VIOLENZA, TENEREZZA

di Laura Ambrosiano

(Mimesis ed., 2021)

Recensione a cura di Simona Fassone

Questo libro, tanto maneggevole e leggero quanto denso e significativo, riesce a parlarci di aspetti frequentati sovente dalla psicoanalisi ma con una prospettiva inedita, intrecciando temi apparentemente appartenenti a regni diversi, per costruire un discorso corposo e corale, spaziando dalla dimensione politica a quella etica a quella clinica. Riesce a coniugare, in un unico canto appassionato, riflessioni su temi dell’attualità, sul grande malessere di questa specifica epoca caratterizzata da momenti storici drammatici, con lo sguardo dello psicoanalista capace di grande contatto con aspetti semplicemente umani, appartenenti alla nostra quotidianità.

Laura Ambrosiano risulta, come sempre, lucidamente appassionata: pur nel suo stile liscio, ordinato, quasi minimalista, senza fronzoli, eccessi, stecche di nessun genere, sa toccare nel profondo, e a volte commuove. Ci si sente la grande umanità di un’analista di lunga esperienza che non ha smesso di crederci, mantenendo vivo costantemente un pensiero critico, lucido, pensiero che sembra far di tutto per non lasciarsi mai ingabbiare da un’ideologia, per non essere troppo facilmente etichettabile, un pensiero che strenuamente vuole restare “libero”.

Ambrosiano ci tiene a sottolineare, fin dalla prima riga, che il suo non è “un libro di psicoanalisi”. Vuole essere un reportage di pensieri.                                                                                                              Ed i suoi pensieri contemplano, sempre, la dimensione sociale. Cultura e società sono dentro la stanza d’analisi. Si accosta alla concezione di una mente estesa oltre i confini della propria pelle e del proprio cervello. “Esiste nella mente uno spazio psichico (inconscio) in cui il singolo non esiste in quanto tale, ma in quanto parte di una mentalità che lo modella, un gruppo-massa” (pag 65). Da ciò discende la necessità che noi analisti ci muoviamo “sui margini tra dentro e fuori, né immersi solo nella realtà interna né a caccia di elementi del mondo esterno, addirittura concreti, come quando annusiamo situazioni traumatiche” (pag 83). Ambrosiano fa ampie e interessanti incursioni nel pensiero di Kaes (“Il suo punto di partenza, per noi interessante, è che la pulsione non è solo intrapsichica, cioè non è solo emissaria di bisogni biologici radicati nel corpo, essa si iscrive nei legami intersoggettivi, nelle appartenenze gruppali, nel sociale e nella cultura” (pag 86); e di Puget, che descrive come adattarsi sia incamerare la gerarchia di rimossi propria di ogni gruppo e famiglia.

Il tema centrale che percorre tutto il libro e si declina nei vari capitoli attraverso le sue diverse sfaccettature, è quello del rapporto dell’uomo con ciò che Ambrosiano chiama “la realtà vitamorte”. “Guardare in faccia la realtà significa guardare la caducità” (pag 21). La realtà si impone all’individuo nei suoi aspetti “rocciosi”, come già Freud scriveva (1927) a proposito della natura, il corpo, ciò che non ci dà spiegazioni né significati. “La realtà ad un certo punto ci salta addosso, con una indifferenza al nostro desiderio che ci frastorna” (pag 18). E noi abbiamo bisogno di difenderci, di proteggerci da ciò. “La patologia è uno sforzo disperato per ignorare o negare questo aspetto della condizione umana. Si rimane malati per non dover affrontare la realtà della morte” (pag 20).

E qui Ambrosiano entra in una interessante critica di quella che chiama la cultura del traumatico, il “traumatismo” della psicoanalisi dagli anni ‘90 ad oggi: “La tendenza a dare la colpa al trauma […] ci soccorre come terapeuti, e ci protegge dal prendere pienamente coscienza della dimensione tragica della vita, la nostra e quella dei pazienti”. “Osservare il bambino sofferente nel paziente non è sbagliato in sé, ma è parziale, può significare non essere in grado di andare aldilà del qui ed ora e del rapporto con l’analista, per cogliere se e come il trauma viene elaborato” […] “Il transfert è il punto di accesso a turbolenze psichiche e zone di dolore, ma non ne esaurisce il senso […] può risultare semplificante e lasciare solo il paziente con aspetti per lui davvero drammatici” (pag 105). Lungi dal voler sottovalutare l’importanza del trauma, Ambrosiano lo pone in dialettica con un’altra fondante dimensione della clinica: “Nel ricondurre il trauma e l’angoscia all’interno della relazione di cura, ci accingiamo al lavoro del lutto, ma, nel farlo, non dobbiamo dimenticare che la relazione non è pienamente in grado di saturare- modulare l’angoscia, una quota di questa la travalica […] Il nostro dare parole è un addomesticare il trauma: raccontare una storia su di esso lo lenisce, ma non ne esaurisce la portata. […] Occorre allargare lo sguardo al di là della vita del singolo, verso le vicende dell’umanità” (pag 36).                                                                                                                                                   Qui viene introdotto il tema del lavoro del lutto, che compare già nel bel titolo del libro, ma che Ambrosiano trasla su un piano più ampio, di respiro alto e complesso. Ci parla del lutto come alternativa unica e imprescindibile sia allo stallo malinconico e vittimistico sia alla violenza. Ci parla di soste come necessità che oggi si impongono, in una cultura che ha preso ritmi quasi disumani, in cui il pensiero è lasciato fuori perché non c’è tempo. La scarica, l’azione è tutto ciò che l’uomo di oggi rischia di limitarsi a cercare, se non trova una sponda, uno spazio, appunto, quello del lutto. La relazione analitica non è certo l’unico momento o luogo possibile per questo, ma può essere letta come un’elettiva situazione di cui l’individuo può aver bisogno per sostare, e uscire dall’apparente ineludibilità del bivio malinconia/violenza.

La sua trattazione della melanconia è ricca, passa attraverso le varie vicissitudini di questo concetto che da sempre ha affascinato l’uomo. Approda al pensiero di Servadio, che osserva che il bambino ha un anelito verso l’indistinto, verso quel sentimento oceanico in cui ci vorremmo uniti con il mondo e le cose. L’angoscia malinconica è nel dover rinunciare a questa indistinzione per procedere nella direzione di una definizione di sé e dell’altro

Essa è inscritta nella vita, è il corollario dell’amore, la precognizione della perdita.

Ma lo stallo malinconico è quando l’individuo non riesce ad andare oltre il trauma della sua indipendenza dall’oggetto amato, ed oltre la sua ambivalenza verso di esso: allora implode in un umore che lo porta ad uccidere di nascosto, tra accuse e colpe che non trovano mai quiete.

E’ così che la melanconia segnala il fallimento del lavoro del lutto: “la scissione che elude l’ambivalenza ottunde le risorse per elaborare il lutto” (pag 43).

Se invece del riconoscimento e dell’elaborazione della propria ambivalenza e della polarità attivo/passivo, l’individuo non accoglie in sé queste complessità, finisce per irrigidirsi nella direzione di una dinamica dominato/dominatore, in una scena sadomasochistica. “Il tentativo di padroneggiare le esperienze di mancanza, di mortificazione e lutto corre dall’impulso di dominare con violenza le cose interne ed esterne a quello di sottomettersi e trarre un qualche godimento dal dolore (erotizzato)” (pag 49).

Quella che io leggo come una delle forme in cui si esprime l’originalità del pensiero di Ambrosiano è che lei prosegue osservando che il masochismo ha una sua “faccia” positiva, utile, necessaria: serve per inserire una pausa là dove l’eccitazione cerca la sua scarica immediata, perché è in grado di mescolare piacere e dispiacere, consentendo il differimento del piacere.  Questo consente l’ingresso del ritmo, un tempo per il soddisfacimento ed uno per il differimento.

Inoltre l’investimento appassionato dell’attesa consente di tollerare la non corrispondenza, le sfasature nell’incontro con l’oggetto estraneo. Da qui l’importanza della possibilità di accostare questa modulazione tra sadismo e masochismo, in assenza della quale il soggetto (ed anche il gruppo!) è in stallo. Senza mezzi psichici di elaborazione del lutto ci si sente inermi e dunque rabbiosi, si organizzano sintomi anti-passività.

Particolarmente significativo è il capitolo conclusivo sulla tenerezza: essa viene definita come “un protendersi verso l’altro nella sua alterità riconoscendola e gustandola in quanto tale” (pag 137).

L’alterità ci spaventa perché legata alla continua potenzialità della perdita: se l’altro non mi appartiene, lo posso perdere in ogni momento; non solo, Ambrosiano aggiunge che anche se l’altro torna, non è più lo stesso: fin dalla prima volta in cui il bambino vede allontanarsi la madre, al suo ritorno ella è diversa perché lui ha intuito che c’è altro nell’orizzonte materno oltre a lui stesso. Il mondo intero cambia: non combacia più alla perfezione con le proprie aspettative; “la preconcezione di corrispondenza è ferita ed incrinata” (pag 138). Non resta che farsi carico del lavoro del lutto a questo punto. Ma, osserva Ambrosiano – mi vien da dire con tenerezza-, se riusciamo a fare una sosta, a dilazionare la scarica del nostro malumore perplesso, e ad investire il dolore dell’attesa di qualche connotazione positiva, ecco che può sgorgare la corrente della tenerezza. Essa diventa in questa elaborazione semplicemente l’incontro con l’oggetto, con la realtà come essa è.

Sia il genitore sia l’analista osservano amorevolmente le nascenti differenze del bambino o del paziente. Si distaccano da preconcetti, aspettative culturali, e con tenerezza guardano a cosa davvero c’è, di unico, irripetibile, vero.

Un aspetto affascinante è che la tenerezza può declinarsi fortunatamente anche verso aspetti di sé: aspetti disconosciuti, mai nati, che finalmente possono essere accolti ed integrarsi con altri Sé già al mondo.

Concluderei questo tentativo di rendere il pensiero dell’Autrice citando la sua ultima definizione della tenerezza, come l’emozione che sostanzia la reverie. “Per lasciare prevalere la sua spinta ad esistere, il bambino ha bisogno di trovare conferma (realizzazioni) alla sua aspettativa (preconcezione) di avere un contatto specifico con un ambiente specifico e capace di reverie”. Da ciò deriva che la reverie equivale alla disponibilità del caregiver a lasciarsi innescare dalle emozioni dell’altro, attingendo alle proprie personali esperienze emotive, simili a quelle che sembra sperimentare il bambino, o il paziente in analisi, mai identiche.

Per far ciò, per lasciarsi innescare dalle emozioni dell’altro, occorre una certa capacità di passività (come tornano e si intricano i concetti in questo libro…): accettare di essere modificati ed eccitati dall’azione dell’altro, e farsi carico della propria responsabilità dinanzi alla sua fragilità.

Bibliografia

Freud, S., 1927, L’avvenire di un’illusione, OSF, 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1992

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