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Parliamo di … Censura con F. Dei

14/01/22
Parliamo di ... Censura con Fabio Dei

Fabio Dei

PARLIAMO DI… CENSURA

PSICHE INCONTRA FABIO DEI

“La cancel culture come subcultura politica”, di  Fabio Dei

in “Censura”, numero 2/2021 della rivista Psiche

a cura di Anatolia Salone

 “La cancel culture, nozione affermatasi nel dibattito politico-culturale in anni recenti, ma che ha acquisito risonanza soprattutto con le azioni del movimento Black Lives Matters nel 2020, si è concentrata sulla lotta verso elementi simbolici dello spazio pubblico che conservano la memoria delle basi schiaviste e razziste della società americana, ma si è estesa a coprire l’azione anche di altri movimenti, come quello nominato #MeToo che si batte contro gli abusi sessuali e la violenza sulle donne”.

Fabio Dei, professore di Antropologia Culturale all’Università di Pisa,torna a fornire un prezioso contributo, dopo altri articoli pubblicati per Psiche, affrontando un argomento tanto attuale, quanto, apprendiamo grazie all’autore, profondamente radicato nelle logiche e nelle dinamiche della cultura anglosassone. La domanda che fa da filo conduttore è: “Cosa c’è di interessante nella cancel culture dal punto di vista socio antropologico?”

Chiediamo a Fabio Dei di farci da guida nella lettura attraverso alcuni punti:

Cosa si intende quando parliamo di cancel culture e di politiche della memoria?

Grazie, intanto si può dire che il recente dibattito sulla cancel culture articola in modi parzialmente nuovi problemi e questioni che nuove non sono affatto ed hanno a che fare con le più generali politiche della memoria. È scontato precisare che la memoria non è mai neutrale o “oggettiva”: quello che gli individui, i gruppi sociali e le istituzioni ricordano del passato risponde sempre a esigenze pragmatiche del presente. Produrre e rendere pubbliche certe rappresentazioni del passato, oppure condannarne altri aspetti all’oblio, è una scelta che in modo più o meno consapevole rimanda al nostro contesto attuale di relazioni, valori, progetti. Negli ultimi decenni le scienze sociali e la storia hanno studiato a fondo questi aspetti della “memoria culturale”, come si manifestano su tre fondamentali piani o aspetti: primo, il racconto (detto o scritto); secondo, i luoghi e gli oggetti della memoria (ad esempio i monumenti, la toponomastica, ma anche i più apparentemente banali oggetti d’affezione che stanno nelle nostre case); terzo, le celebrazioni (riti, commemorazioni, messe in scena performative del passato). Tra Ottocento e Novecento, nelle società occidentali è lo Stato-nazione che ha avuto un ruolo determinante e quasi monopolistico nel costruire queste forme di memoria. Negli ultimi decenni, però, per motivi che sarebbe troppo lungo discutere, il ruolo dello Stato si è indebolito; e altri soggetti collettivi della società civile si sono affacciati sull’arena memoriale, dando spesso luogo a “conflitti” o “frizioni” memoriali. Si è in particolare sviluppato quello che è stato chiamato un “paradigma vittimario”: rivendicare per il proprio gruppo sociale (o etnico, politico, etc.) un passato di oppressione e di violenze subite, quindi uno statuto di vittime (laddove in precedenza si tendeva a costruire un passato da eroi, da vincitori).  Bene, la cosiddetta cancel culture è un’articolazione specifica delle politiche della memoria che si pone al culmine di questo processo: e che trova nella politica identitaria radicale degli Stati Uniti il suo terreno di coltura. Gruppi sociali, di genere, etniche (o di razza, come proprio i militanti antirazzisti preferiscono paradossalmente dire) si identificano in termini di minoranze marginalizzate e caratterizzate da un passato di ingiustizia e discriminazione. La loro lotta sociale utilizza dunque la strategia simbolica della distruzione dei simboli di quel passato  razzista, maschilista, omofobo. Spingendo però questa denuncia e questa volontà di cancellazione verso esiti maniacali e del tutto antistoricisti  – in una caccia che finisce per rappresentare in sé un puro segno d’appartenenza.  

Citare i termini cancel culture e politically correct evoca subito una contrapposizione politica, quella tra destra neoconservatrice e movimenti attivisti radicali: quanto la libertà di parola in questo specifico ambito lambisce pericolosamente il territorio della censura?

Per i motivi suddetti, in effetti, negli Stati Uniti e più in generale nel mondo anglofono la cancel culture e il campo del politicamente corretto (di cui essa è un aspetto) sono al centro di feroci “guerre culturali”. Le nozioni stesse (Cancel Culture e Politically Correct) sono usate prevalentemente in senso polemico dalla destra repubblicana e conservatrice, per denunciare il tentativo dei movimenti progressisti e radicali di distruggere la tradizione e la cosiddetta identità americana, occidentale o moderna che dir si voglia; e di minare al tempo stesso la libertà di parola, requisito essenziale di ogni democrazia.  I militanti radicali – come il movimento Black Lives Matter – sostengono a loro volta che dietro la difesa della tradizione del free speech si nasconde in realtà la pretesa (bianca, maschile, egemone, normativa) di mantenere intatte le disuguaglianze e i privilegi. In realtà, questo scontro ormai ritualizzato si fonda su una essenzializzazione delle identità e delle appartenenze – quella “occidentale” come quelle “marginalizzate” – che non ha nessuna base sociologica o antropologica. Per questo, non mi pare interessante prender parte per l’una o l’altra posizione – con l’assurda alternativa fra il difendere le “minoranze” o il difendere la libertà di parola. È invece importante capire in quale nuovo universo morale ci portino questi dibattiti, e quale sia la sua genealogia storica.  Questo però richiede uno sforzo critico dal punto di vista delle scienze sociali e della cultura “progressista”. Noi diamo per scontata la critica alle posizioni conservatrici, che assolutizzano e naturalizzano una identità “occidentale” in difesa di privilegi acquisiti. Ma non riusciamo sempre ad essere altrettanto  critici verso quei discorsi che si arrogano la rappresentanza di “minoranze oppresse”, agendo in realtà da una prospettiva egemonica. Il paradosso delle politiche identitarie attuali  (la razza, il genere etc. come fulcro della lotta politica)  è che la loro strategia consiste nel rivendicare lo status di vittima. Si usano gli strumenti dell’egemonia culturale per rappresentarsi come vinti, come oppressi. Vince, per così dire, chi è più in grado di rappresentarsi come vinto. Si mobilita allora il passato, e tutte le sue tracce nel presente, con questa finalità. La distruzione dei monumenti degli “oppressori” è il passo più evidente (del resto, come ricordo nell’articolo di Psiche, questa è una pratica comune a molte rivoluzioni o cambiamenti di regime); ma tale logica si estende poi a una specie di caccia ai simboli anche più nascosti e inconsapevoli di quel “cattivo potere” che non di rado sconfina in una forma di ossessivo panico morale. È il caso ad esempio del dibattito sulle “microaggressioni”: modi di parlare o gestualità quotidiana apparentemente innocenti, che possono nascondere forme subdole di discriminazione. Nell’articolo di Psiche ne propongo un esempio letterario, tratto da un romanzo di Jonathan Coe; una giovane docente universitaria che viene sospesa dal lavoro e indagata da una commissione per aver detto “Non ti sai decidere” a una ragazza che (senza che lei lo sapesse) era transgender. Ma ancora più interessante è il fatto che le Università anglofone stanno producendo documenti ufficiali per elencare le espressioni tubù in quanto microaggressive: fra questa (Università di Cambridge) il chiedere a qualcuno di dov’è (perché può implicare una assunzione di alterità sulla base dell’aspetto), e persino il sostenere che “esiste una sola razza, la razza umana”, perché implica color-blindness, cioè l’arrogante rifiuto da parte dei bianchi di riconoscere il peso delle diversità razziali. Il che è un buon esempio di come alcuni tentativi di combattere il razzismo finiscono per reintrodurlo.

Se dal punto di vista storico la cancel culture non appare molto diversa dalla damnatio memoriae della Roma repubblicana, quale può essere l’interesse attuale nello studio di questi nuovi gruppi sociali?

Ecco, nell’articolo di Psiche sostengo che queste pratiche legate alla cancel culture e a tutta la sensibilità cosiddetta woke funzionano come una subcultura politica: nata e cresciuta nell’ambiente protetto e separato dei college, caratterizzata da un gergo e da pratiche autoreferenziali, che servono più a identificare e distinguere coloro che le adottano che non  come si pretenderebbe – a cambiare il mondo. Perché è interessante studiarle e tentare di comprenderne le dinamiche? Per due essenziali motivi, secondo me. Il primo è che si tratta di un laboratorio, in costante movimento sotto i nostri occhi, di come funzionano i movimenti sociali e le rispettive ideologie di riferimento, nel loro rapporto con le istituzioni, con il mondo dei media, con l’opinione pubblica. Che rapporto c’è ad esempio fra questo tipo di lotta politica e quella che storicamente conosciamo meglio, legata alle classi sociali, alle categorie gramsciane di egemonia e subalternità e così via? E ancora, come potremmo raffrontare il movimento woke con quelli giovanili e studenteschi degli anni ’60 e ’70? Il secondo motivo di interesse consiste nel clima morale che le pratiche di cancel culture e politicamente corretto : un clima di accuse e di sospetti generalizzati che è stato accostato – non solo come metafora – alla caccia alle streghe. La caccia alle streghe dell’età moderna era promossa da gruppi sociali riformatori, mossi da forti ideologie di progresso che intendevano sradicare dalla società un male profondo e nascosto: e che a tal scopo si dotavano di apparati dogmatici per scoprire quel male o quel peccato, e di pratiche istituzionali volte al riconoscimento, all’esclusione e al castigo dei colpevoli.    Naturalmente i contesti non potrebbero esser più diversi. L’analogia tuttavia ci indica almeno le direzioni in cui indagare per comprendere meglio il fenomeno: la strutturazione sociologica dei gruppi coinvolti e la creazione di un peculiare clima morale fatto di accuse e confessioni. È questo il punto che cerco di approfondire nell’articolo di Psiche.  

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