La Ricerca

N.2/2023: Finimondo. Editoriale di S. Nicasi

1/01/23
Psiche 23

Editoriale

Stefania Nicasi

Oggi, dopo che la grande tormenta lo ha spazzato via,

sappiamo per certo che quel mondo della sicurezza

altro non era che un castello di sogni

(Stefan Zweig, Il mondo di ieri)

Eredità

Perché ho lasciato che la vigna di mio padre andasse in rovina?

Ci sono tornata dopo trent’anni, eppure era a un passo dal bosco dove andavo a piedi con il nonno che camminava appoggiandosi al bastone.

Il bosco quasi impenetrabile, crollato uno dei tre altissimi pini sotto ai quali facevamo merenda, la vigna piena di rovi e di spine.

La stessa pena che prende a entrare nello studio di un collega scomparso: pile di riviste, libri datati, le opere di Freud dalle copertine scolorite, i classici Guaraldi, montagne di fotocopie, atti di congressi, dattiloscritti sui quali il collega aveva speso tanti fine settimana invece di andare in gita con la famiglia, sostenendo in vista di un convegno scientifico ipotesi alle quali non crediamo più – lo sviluppo infantile per fasi in sequenza, l’autismo primario, la neutralità dell’analista, l’invidia del pene. Il collega ha lasciato detto ai figli che la biblioteca va donata al suo Centro, ma le biblioteche dei Centri non hanno posto, sono troppe le donazioni e bisogna fare spazio ai nuovi libri.

La piccola vigna del babbo era frutto di un sogno tardivo e solitario, forse già un poco amaro. Assai più grande e acceso invece era stato il sogno di un’intera generazione di ragazzi, la sua, che aveva combattuto il nazifascismo per un mondo libero e più giusto. È il mondo nel quale siamo cresciuti, sottoponendolo a una critica serrata e furibonda, e sono cresciuti figli e nipoti, nativi digitali: anche a loro non abbiamo risparmiato le critiche. Improvvisamente però ci assale il dubbio di avere sistematicamente sbagliato bersaglio e che adesso sia tardi: sentiamo la terra tremare, abbiamo paura.

Psiche

Psiche, in ascolto del presente, è tornata a più riprese sul tema della paura che come un fiume carsico scorre dentro alle nostre vite per manifestarsi in terrori notturni e in orrori diurni. Un sentimento che dobbiamo costantemente tenere a bada, che richiede un considerevole lavoro psichico impossibile da svolgere tutto in solitario. Delle paure abbiamo bisogno di parlare: ma questo parlare porta sempre sollievo? È sempre utile? Dipende. A volte l’altro, o gli altri, ne restano contagiati o funzionano da amplificatore e diffusore di una paura che è anche la loro e che non sono capaci di trasformare in pensiero e in risposta organizzata. Oppure parlare ha un effetto evacuativo che rimette tranquilli mentre consente di liberarsi della paura – che non è sempre irragionevole anche se minaccia la capacità di ragionare – con un’alzata di spalle: mal comune, mezzo gaudio. Al posto di azioni sensate, si producono discorsi sensazionali che si traducono in slogan allarmanti: ripetuti come mantra sortiscono però un effetto calmante.

Finimondo si apre con l’intervista di Davide D’Alessandro a Tebaldo Galli che ha diretto Psiche dal 1997 al 2002 insieme a Nicoletta Bonanome e Anna Ferruta che fungevano da vicedirettrici. In apertura del terzo millennio il numero 1, gennaio – giugno 2000, è dedicato a La paura. Vale la pena di rileggerlo non solo perché è un numero eccellente e attualissimo – basta scorrere l’Indice per rendersene conto – ma perché è attraversato da una riflessione sulla responsabilità sociale degli psicoanalisti. Scrive per esempio Paolo Fonda in La paura dell’immagine di sé dopo la guerra:

Il contributo che noi possiamo dare non è solo quello di diecimila formichine (tanti sembrano essere su per giù gli analisti sul pianeta) che masticano concreto e secernono simbolico, ognuno dietro al proprio divano. Credo proprio che per la nostra particolare sensibilità ed attenzione ai contenuti scissi o rimossi possiamo proporre – più o meno direttamente – alla cultura dei gruppi ai quali apparteniamo più adeguate modalità di approccio ai contenuti pregni di angosce (139).

E Luigi Boccanegra:

Ci si potrebbe chiedere, fatte le dovute proporzioni, perché la psicoanalisi oggi non tenti più di scrivere sul destino umano, come Freud (1915) è riuscito a fare nello scritto sulla «Caducità» o la Klein (1959) nel suo ultimo lavoro sul «Senso di solitudine»? Si può parlare della paura se non si nomina il coraggio che permette di uscirne? O lo stupore che permette di entrarci? (234).

Tirando le fila nell’Editoriale, Tebaldo Galli suggerisce che il contributo degli psicoanalisti non sia dogmatico e invadente e che coniughi il rigore scientifico con la meditazione sulle passioni:

Forse (…) anche gli psicoanalisti debbono ritrarsi, lasciando nel campo sociale una sottile tela di fondo, le loro conoscenze specifiche, continuamente alimentate e rinnovate con le paure che popolano la stanza della cura, la loro partecipazione agli eventi in cui tale specificità può permettere ad altri soggetti di non essere accecati dalla paura, che induce comportamenti meccanici e preformati, o ripetitivi (22).

Individua una speranza:

Può essere questa la speranza che la psicoanalisi è in grado di fornire al mondo di oggi: una piccola salvaguardia dell’umano, un polo di attrazione per quanti seguono altre vie di ricerca e di operatività (22).

Io penso che la psicoanalisi possa costituire una salvaguardia del senso, fino a che continua a cercarlo.

Anche per questo, non si può che deplorare l’affrettata chiusura dell’Istituto Psicoanalitico per l’Est Europa che ha lasciato analisti e candidati senza una casa né un gruppo di riferimento (1) in paesi lacerati da vecchi e nuovi conflitti. A questa chiusura tristemente fa eco la soppressione di Memorial nella Russia di Putin con una sentenza della Corte suprema di Mosca entrata in vigore il 28 febbraio 2022, a pochi giorni dall’aggressione all’Ucraina (2).

Finimondo

I lettori forse ricorderanno che nel prendere la conduzione di Psiche abbiamo dedicato il primo numero al Segreto (giugno-dicembre 2019), animati anche dal desiderio di scoprire con quali intenti e arte i predecessori avessero guidato la rivista. Non abbiamo smesso di  esserne curiosi: con l’aiuto di D’Alessandro li intervisteremo tutti.

Dopo Il segreto avevamo messo in cantiere Vulnerabilità, senza sapere che di lì a pochi mesi, mentre il numero era in lavorazione, il Covid-19 avrebbe sconvolto il mondo e dato corpo e contenuto specifico a quel senso di precarietà, insicurezza, timore che è sempre sottotraccia.

La riflessione sulla fragilità, sulla paura che ne abbiamo, sulle risorse per fronteggiarla o sui modi per negarla, sui discorsi che le girano attorno, sugli atteggiamenti che l’accompagnano è proseguita, variamente declinata, nei numeri successivi: Noi Altri, Responsabilità, Censura, Distanza, Rischio, Guarire.

Con Guarire, forse si ricorderà anche questo, eravamo pronti a passare la mano ma poi è arrivata una proroga con l’invito a mettere in cantiere altri quattro numeri. Così, per parafrasare la mamma di Lorena Preta le cui parole aprono il testo Calma piatta, non ci è caduta la penna o meglio non ci è caduta ancora e cercheremo di tenerla stretta fino al 2025. Però il senso della fine ormai ci aveva pervasi e il primo tema che è venuto in mente è stata l’apocalisse: esagerato se riferito alla nostra modestissima vicenda, ma in forte risonanza con l’aria che tira e con una nuova sciagura, la guerra all’Ucraina, che ha riportato in Europa il conflitto armato.

Tuttavia la parola apocalisse ci pareva abusata e non volevamo produrre l’ennesima geremiade attorno ai disastri che in tumultuoso e rapido susseguirsi hanno contrassegnato i primi vent’anni del terzo millennio e del ventunesimo secolo: pandemia, guerra in Ucraina, minaccia nucleare, impennata del riscaldamento globale. Ci pareva anche una parola sporca, abitata da foschi cavalieri e angeli sterminatori, da profeti, maghi, sacerdoti, messaggeri di morte e di resurrezione.

Meglio cercare un titolo più descrittivo, come Fine del mondo che però è demartiniano e che comunque, con o senza il punto interrogativo, suonava ancora terribilmente minaccioso mentre noi volevamo, già dal titolo, introdurre quel senso di coraggio, di speranza e di stupore che sempre dovrebbe accompagnare – come dicono Boccanegra e Galli – chi si affaccia sull’abisso, sull’ignoto, sulla paura. Un titolo per giocare quel tanto di cui abbiamo bisogno per non arretrare. Ecco allora Finimondo dal sapore d’antan, iperbole che può sciogliere la tragedia in commedia, metafora di un’inedita, inimmaginabile epifania ai confini del possibile. E poi c’era la canzone di Edoardo Vianello, «Che finimondo per un capello biondo volato sul gilé» a ricordarci che a volte facciamo un dramma per nulla, oppure che sbagliamo catastrofe: ne paventiamo una ma ne arriva un’altra.

Sulle occorrenze di finimondo interviene Adelino Cattani percorrendo uno spettro di significati che vanno da un’accezione ansiogenanegativa a un’accezione idiomatica-colloquiale-positiva, concludendo che il significato di questa parola è nel suo uso. Così per De Martino due sono le modalità di rappresentare culturalmente la fine del mondo: una puramente distruttiva e una preparatoria alla conquista di un nuovo ordine, di un mondo nuovo. Sull’onda del linguaggio colloquiale, Vittorio Emanuele Parsi rispolvera il Quarantotto, espressione in voga fra i nonni che non sempre ne ricordavano l’origine. Mentre Bruno Mastroianni si richiama all’etimologia di apocalisse e al relativo significato letterale: disvelamento, rivelazione.

Finimondo: sono grata a questo titolo che oggi, ottobre 2023, mi aiuta a scrivere, bloccata in un’estate che non accenna a svanire, all’indomani della strage di Hamas in Israele – ci eravamo illusi che i pogrom fossero storia passata – senza abbandonarmi alla disperazione.

Mi sembra che Finimondo sia un bel numero, con una varietà di contributi originali e ariosi, nonostante l’asprezza dei temi sviluppati in profondità. Non è stato difficile comporre l’Indice: una volta trovate le parole guida – Mondo, Macchine, Smarrimenti, Senza veli, Ri-nascite, Passaggi, Fini– i testi si sono disposti naturalmente, quasi da sé, racchiusi fra le La parola, le voci, la nuova rubrica curata da Alessia Fusilli De Camillis, e Storie della psicoanalisi, curata come sempre da Rita Corsa.

E mi sembra che, così organizzati, i testi non abbiano bisogno di essere introdotti sia perché il fascicolo è in continuità con i precedenti e con i relativi Editoriali, in particolare con Vulnerabilità (1, 2020) e con Rischio (2, 2022), sia perché parlano da sé e io non vedo l’ora di lasciarli parlare da quanto sono ben riusciti, combattuta fra il desiderio di allontanarmi in punta di piedi lasciando libero il lettore e la tentazione di tirarlo per la manica, leggi questo e leggi quello, attaccando post-it come facevo con i libri che depositavo sulla scrivania dei figli i quali poi non leggevano più.

Cercherò una soluzione di compromesso, accennando soltanto ad alcune delle molte questioni trattate, e ricordando che conviene per quanto possibile distinguere l’esperienza dalle parole. Se immaginiamo una struttura a carciofo, incontriamo nel cuore l’esperienza della fine, la muta esperienza del crollo, l’indicibile senso di catastrofe, la solitudine assoluta, senza appello, che possiamo immaginare nell’infante non sostenuto dalle braccia psichiche della madre, nell’esordio di una psicosi, nel morente: Smarrimenti. Attorno, incontriamo le parole che il soggetto o un altro soccorrevole può aver trovato per mettere in forma l’esperienza e, via via, procedendo a strati verso la superficie, le parole per comunicare, i discorsi sulla fine del mondo e i meta discorsi, cioè i discorsi sui discorsi sulla fine del mondo. Per quanto i discorsi possano essere allarmanti, spaventosi, fuorvianti, contagiosi e destabilizzanti, la parola, o anche soltanto il pensiero della sua possibilità, possiede almeno un granello di umanità e come tale arreca sollievo, reimmette nella vita e nel consorzio dei fratelli. «L’unico problema con la fine del mondo è che non la si potrà raccontare ai propri nipoti»(3): fine del mondo e fine della parola coincidono nel collasso dell’orizzonte umano. Una delle ragioni per le quali è terribile morire dimenticati – si muore due volte – e per le quali la pietas comprende la custodia delle memorie: «A chi raccontiamo ciò che è accaduto sulla terra, per chi sistemiamo ovunque specchi enormi, nella speranza che riflettano qualcosa e non svanisca?»(4) .

Rovi e rovine

Nel saggio Catastrofi e catastrofismi, pubblicato in Rischio, Roberto Bondì tornava a fare chiarezza su un punto: è indubbio che il genere umano da due secoli a questa parte (tale è l’estensione attribuita al tempo chiamato Antropocene) sia diventato capace di produrre catastrofi planetarie e che sia in parte responsabile dei gravi cambiamenti climatici in atto, ma il rischio riguarda noi, non la Terra sulla quale la nostra comparsa è un fenomeno recentissimo e sulla quale si è già estinto il 99 per cento delle specie che sono esistite.

Per quanto questo punto sia chiarissimo agli scienziati, agli astrofisici come ai paleontologi, spesso si tende a fare confusione: si lanciano appelli e si promuovono crociate per la difesa del pianeta che stiamo danneggiando (vero in parte) e che possiamo salvare (vero in piccolissima parte). Una difesa che a tratti assume toni parossistici: l’idea che il cosiddetto ambiente vada protetto per proteggere l’umanità che lo abita viene offuscata, o del tutto smarrita, in favore di una protezione assoluta, a prescindere dagli umani, abusivi tafanatori(5) dell’armonia primigenia e di una bellezza incontaminata che potrebbe ristabilirsi se soltanto scomparissimo, noi e il nostro dannato disordine.

Idee di questo tenore sono circolate in maniera più o meno esplicita durante la pandemia, in versioni più o meno raffinate e nei luoghi più disparati facendo leva ed enorme presa sul senso di colpa degli occidentali(6).

Ricordo per esempio una poesia di Mariangela Gualtieri intitolata Nove marzo duemilaventi che imperversava nelle chat insieme alle foto dei pesci nei canali di Venezia tornati azzurri o dei tassi e dei cinghiali a spasso per le strade di città deserte (a proposito di cinghiali, va detto che numerosi esemplari frequentano allegramente le rive del Tevere anche adesso che Roma è tornata alla normalità). La pandemia è salutata come provvidenziale occasione per rinsavire dalla folle corsa, fermarsi, meditare sui crimini ambientali «come bambini che l’hanno fatta grossa», ritrovare gesti semplici (e perciò buoni), come «fare per la prima volta il pane» o «tingere d’ocra un morto». La Terra personificata o deificata: «È potente la terra. Viva per davvero. Io la sento pensante d’un pensiero che noi non conosciamo». L’universo «ben guidato» da una legge alla quale siamo soggetti come «ogni stella – ogni particella del cosmo». La morte «la spazzina» che «viene a equilibrare ogni specie».

Una visione capovolta dove la malattia degli uomini è il toccasana dell’universo. La trovavo aberrante, nonostante un mio amore per la poetessa: eppure ha avuto largo seguito. Vanta più di diciottomila visualizzazioni il video di Mariangela Gualtieri. E quasi undicimila quello fatto in casa – come il pane – del professor Enrico Galiano che recita il componimento per i suoi studenti. Alle spalle del professore, in precario equilibrio su una pila di libri, una lavagnetta reca la scritta «Caro virus». Il tutto si conclude con l’invito a scrivere una lettera al virus elencando le cose belle che grazie a lui avremmo imparato.

Due fermo immagine a questo punto.

Nella versione cinematografica di Walt Disney de Il libro della giungla: le scimmie che ballano sfrenate fra le rovine di un tempio invaso dalla vegetazione dove hanno stabilito il loro regno. Re Luigi è invidioso del segreto degli uomini, il fuoco.

Nel romanzo di Roth La marcia di Radetzky: le ultime pagine. Francesco Giuseppe sta morendo, e l’Austria con lui. L’anziano sottoprefetto Trotta, figlio dell’eroe di Solferino, veglia in piedi a capo scoperto nel parco del castello di Schönbrunn, avvolto dalla pioggia. La pioggia è sottile, incessante, cade instancabilmente, lentamente, gli alberi sussurrano, stormiscono. Quando l’imperatore muore, il sottoprefetto rientra nella sua città. Piove anche lì. Si mette a letto di giorno, comportamento eccezionale e inaudito. Fa chiamare il medico e si fa portare il canarino: che gli si dia un pezzetto di zucchero. «Cara bestiolina!» dice, «Sopravvivrà a tutti noi!». Chiede anche il ritratto dell’eroe di Solferino, ma quando il medico glielo porta, non è più in grado di vederlo.

La pioggia tamburella piano contro i vetri della finestra. Il medico chiude gli occhi del morto.

Rovi e rovine: quando la civiltà recede, la natura riprende il sopravvento.

Selvaggia e violenta nella giungla di Kipling, livellante, inesorabile e compassionevole nel diluvio di Roth, giusta dispensatrice di morte negli acclamati versi di Gualtieri.

Quale mondo?

Quando diciamo finimondo, a quale mondo pensiamo?

Antropologi, psicologi, psicoanalisti, fenomenologi tendono a credere che il mondo sia tale per qualcuno: è il mondo al quale il soggetto si relaziona in un rapporto di reciproca interdipendenza, l’uno non esiste senza l’altro. Da questo punto di vista ciascuno è portatore di un mondo. Poiché fin dall’inizio della vita siamo immersi in una relazione di cura, senza la quale moriremmo, e poi via via in tante relazioni, il mondo personale è intessuto di alterità, di linguaggio, di memoria, di storia: non esiste un grado zero. Questo vale sia per il singolo sia per le comunità sia per le generazioni.

A metà degli anni Sessanta, in pieno miracolo economico, in acque agitate dalla contestazione, Ernesto De Martino lavora a La fine del mondo, un’opera che resterà incompiuta, che verrà pubblicata postuma e che non ha perso di attualità, tanto che nel 2019 è uscita in Italia e in Francia in una nuova edizione(7). Fabio Dei conversa con Marcello Massenzio, uno dei curatori. Richiamo passaggi salienti:

1. Il mondo è innanzitutto l’orizzonte dei segni del lavoro umano, è la storia vivente degli altri in noi.

2. La fine del mondo è sempre, a ben vedere, la fine di un mondo, il proprio. In questo senso, c’è sempre stata(8).

3. Pur mantenendo uno sguardo allargato, comprensivo di altri mondi, è del nostro che siamo responsabili. De Martino coglieva preoccupanti segnali di disaffezione, dissolvimento del senso di appartenenza alla civiltà occidentale nella quale si è nati e cresciuti.

4. Il rischio della fine affonda le sue radici negli animi(9).

L’insegnamento di De Martino ci invita a «vivificare, attraverso l’esercizio del pensiero critico, il rapporto con la civiltà occidentale che, lungi dall’essere perfetta, è sempre perfettibile» (Massenzio, infra, 370-371). Perfettibile certo, ma fondata su principi irrinunciabili – autonomia della persona, democrazia, parità dei cittadini di fronte alla legge e nell’esercizio dei diritti – gli stessi, non andrebbe dimenticato, che ci consentono di metterla in discussione e di provare a migliorarla, diversamente da quanto accade nei regimi totalitari e fondamentalisti (a questo ultimo proposito rinvio alla sezione Senza veli). Ma adesso sembra soprattutto il momento di difenderla. Come?

I contributi di Gianluca Falanga e Guido Crainz, di Vittorio Emanuele Parsi, di Elena Dundovich cercano di misurarsi con la crisi suggerendo da un lato un buon uso delle memorie e dall’altro la messa in campo di analisi che provano a descrivere i problemi nella loro complessità schivando prediche nebulose e toni apocalittici. Mentre Falanga e Crainz si concentrano sulle tensioni provocate dall’adesione all’Europa dei paesi dell’est, qualcosa di simile al motto mazziniano pensiero e azione rie-cheggia nelle pagine di Parsi: in un sistema politico caratterizzato dalla volatilità permanente ci è richiesto un costante arbitraggio del tempo e dello spazio. È necessario individuare velocemente gli errori, adattarsi e reagire, oltre che prevedere e pianificare, sfruttando le spinte all’improvvisazione creativa che circolano nelle società aperte: nella tempesta, «Andare al vento, guardando l’onda fissa negli occhi» (Parsi, infra, 404).

Noi siamo contro la vita comoda!(10)

Nella sezione Macchine abbiamo raggruppato contributi relativi al rapporto con la scienza e la tecnica. Laura Colombi, analista infantile, esprime preoccupazione per le ricadute del virtuale sullo sviluppo dei bambini che crescono nella società dell’accelerazione, con adulti che hanno sempre meno tempo per stare in loro compagnia e svolgere l’indispensabile funzione di filtro, condivisione,

commento, reinterpretazione dei contenuti offerti dal web. Adulti che a loro volta sono inseparabili dagli schermi dei cellulari: li vediamo tutti all’uscita della scuola, ai giardini pubblici, alle partite dei figli questi genitori e nonni con un occhio sempre sul telefono.

Qualcuno si ricorda di Ernesto Calindri che in un Carosello anni Sessanta beveva Cynar seduto a un tavolino in mezzo al traffico? «Contro il logorio della vita moderna» recitava il fortunato slogan. Oggi quella scena, a paragone del caos metropolitano, ci appare quasi bucolica.

Il timore, comparso negli ultimi decenni dell’Ottocento, della fine della centralità dell’essere umano in un mondo dominato sempre di più dalla tecnica e dalle macchine è un filo rosso che ha tenuto unito dal punto di vista culturale e politico – scrive Angelo Ventrone – l’intero Novecento. Mescolato all’antica diffidenza verso la scienza e alla paura delle scoperte scientifiche(11) e variamente intrecciato con la denuncia del consumismo come deteriore prodotto del capitalismo borghese, questo timore non si è affatto sopito, anzi continua in versioni differenti a occupare un posto di rilievo negli scenari apocalittici.

Un tema affascinante nella storia delle idee, affascinante e scivoloso, che esigerebbe una discussione molto articolata (12). Ventrone ne offre un assaggio ricco di spunti con il pregio di mostrare come il filo rosso veramente «tenga unito», cucia insieme, il Novecento – ma direi anche questi primi vent’anni del Duemila – dal punto di vista culturale e politico: nel senso che questi discorsi sono ubiquitari, spuntano e circolano a destra e a sinistra, da Morel a Wallace (13), da Mussolini a Pasolini, dai brigatisti ai no vax, da Calvino, spaventato dall’abbondanza dei beni che genera l’ansia del consumo forzato, all’anarchico Bianciardi, che vede gli operai alla domenica travestirsi da ceto medio, fino a Mariangela Gualtieri commossa dal pane fatto in casa, e fino ad autori come Ceruti e Bellusci che, in ottima e insospettabile compagnia, contrappongono alla modernità razionalista una modernità umanizzata.

Dopo le automobili, le armi e l’energia nucleare, gli elettrodomestici, la televisione, i pesticidi e insieme ai cibi geneticamente modificati, ai farmaci, ai vaccini e alle diavolerie della medicina, è il rivoluzionario avvento del virtuale con il profilarsi dell’intelligenza artificiale che suscita angosce catastrofiche. Il contributo di Bruno Mastroianni è un esempio di come si possano accogliere legittime preoccupazioni riconducendole all’interno della responsabilità e fragilità umana. Siamo noi, non le macchine.

È finita l’estate

Così annunciava la mamma al primo temporale provocando negli astanti un’ondata di lutto anticipatorio. L’estate finiva, o si rompeva, invariabilmente intorno a ferragosto. Mi capita spesso di ripensare a quella frase, non solo perché le estati da qualche anno sembrano non finire mai, ma perché descrive bene il momento del passaggio alla vecchiaia che avviene nel preciso istante in cui si realizza che la vita avrà fine per davvero: un insight dopo il quale niente è come prima. Qualcuno può averlo molto presto, anche a vent’anni, ma in genere arriva molto più tardi, favorito da un evento significativo come un compleanno tondo, il pensionamento, una perdita. Può essere anche un cedimento piccolo, spesso del corpo come nel racconto di Slavenka Drakulić(14), un restare indietro, una stanchezza, un’attenzione altrui mancata, un volto sbiadito nella memoria che si sfolla, un oggetto caro che va in frantumi, oppure l’estate che, appunto, finisce, come in una poesia di Franco Fortini, sublime cantore della vecchiaia:

Molto chiare si vedono le cose.

Puoi contare ogni foglia dei platani.

Lungo il parco di settembre

l’autobus già ne porta via qualcuna.

Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,

il lavoro imperfetto e l’ansia,

le mattine, le attese e le piogge.

Lo sguardo è là ma non vede una storia

di sé o di altri. Non sa più chi sia

l’ostinato che a notte annera carte

coi segni di una lingua non più sua

e replica il suo errore.

È niente? È qualche cosa?

Una risposta a queste domande è dovuta.

La forza di luglio era grande.

Quando è passata, è passata l’estate.

Però l’estate non è tutto(15).

Non poteva mancare in Finimondo una riflessione sulla vecchiaia, dove più che mai la fine del mondo significa la fine di un mondo, il proprio, e di contro sulla vita, le nascite e le Rinascite. I lettori troveranno pregevoli contributi e testimonianze su questi temi nei quali, in chiusura di Editoriale, non mi addentro. Mi interessava però sottolineare l’idea del passaggio, segnato dalla presa d’atto della caducità(16), perché penso che in fondo sia questo a fare la differenza, non gli anni, non le rughe, non la prestanza fisica, non la capacità cognitiva. Sei vecchio quando hai visto la tua morte. Però l’estate non è tutto. Come vivrai dipende adesso da cosa ne farai.

Firenze, 15 ottobre 2023

Note:

(1) Cfr. Paolo Fonda, L’istituto Psicoanalitico per l’Est Europa ha chiuso (infra, pp. 689-693).

(2) Nel 2022 Memorial ha ricevuto il Nobel per la pace. Cfr. Elena Dundovich, La rielaborazione del passato sovietico nell’attività dell’Istituto Memorial (infra, pp. 673-687).

(3) L’aforisma è di Arnaud Cotrel, citato da Adelino Cattani, infra, p. 365.

(4) I versi di Czeslaw Milosz fanno da esergo al saggio di Elena Dundovich, infra, p. 673.

(5) Tafanatori è un neologismo coniato da Luciano Bianciardi per indicare gli scocciatori.

(6)Per una rassegna critica di una parte di quella massa di discorsi, rimando al saggio di Martino Rossi Monti In the Name of the Virus. Intellectuals and the Pandemic, in Lares, 86, 3 (2020), pp. 407-439.

(7) In quell’occasione, Alfredo Lombardozzi (2020) ha scritto un saggio per Psiche, pubblicato in Vulnerabilità: La fine del mondo. Attualità di Ernesto De Martino.

(8) «Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistatori spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?» (infra, p. 370).

(9) «Il rischio della fine, molto prima di diventare possibilità di autodistruzione materiale mediante l’impiego della potenza tecnica dell’uomo, affonda le sue radici negli animi, accennando a una catastrofe molto più segreta, profonda e invisibile di quella di cui il fungo di Hiroshima ha offerto in scala ridottissima l’immagine reale» (infra, p. 370).

(10) Il motto è di Benito Mussolini: cfr. Ventrone, infra, p. 425.

(11) Nel citato fascicolo di Psiche, La paura, Anna Ferruta scrive sulla paura delle scoperte scientifiche un saggio dove ripercorre la tormentata vicenda di Pasteur al quale si deve l’inizio delle pratiche di disinfezione e di vaccinazione. Avremmo dovuto ripubblicarlo mentre infuriava la polemica sui vaccini durante la pandemia.

(12) Su questi temi ha dato un contributo fondamentale Michela Nacci. Si vedano almeno l’antologia a sua cura Tecnica e cultura della crisi (1914-1939) del 1982 e i volumi La barbarie del comfort. Il modello di vita americana nella cultura francese del ’900 (1996) e Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni (2000).

(13) Interessantissimo il dibattito attorno alla degenerazione che si animò nella seconda metà dell’Ottocento: Daniel Pick ne dà conto in Volti della degenerazione. Una sindrome europea 1848-1918. Sosteneva per esempio nel 1880 Alfred Russel Wallace «L’assoluta necessità del lavoro e della fatica, della lotta e della difficoltà, del disagio e del dolore, quale condizione per un qualunque progresso, sia esso fisico o mentale» (Pick, 1989/1999, 297).

(14) Slavenka Drakulić, infra, pp. 667-672.

(15) Franco Fortini, Paesaggio con serpente, 1984: ringrazio Floriana d’Amely per avermi spedito un giorno questa poesia. Sulla vecchiaia si veda in particolare l’ultima raccolta Composita solvantur, 1994.

(16) Riprendo la calzante citazione di Lorena Preta dal celebre scritto di Freud: «Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio» (Freud, 1915, 174). Cfr. Lorena Preta, infra, p. 361.

Riferimenti bibliografici

Boccanegra L. (2000), La rondine di Ulisse, in Psiche, La paura, 1/2000, pp. 225-235.

Fonda P. (2000), La paura dell’immagine di sé dopo la guerra, in Psiche, La paura, 1/2000, pp. 129-141.

Bondì R. (2022), Catastrofi e catastrofismi, in Psiche, Rischio, 2/2022, pp. 599-610.

De Martino E. (2019), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Torino, Einaudi.

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Fortini F. (1984), Paesaggio con serpente, Torino, Einaudi.

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Lombardozzi A. (2020), La fine del mondo. Attualità di Ernesto De Martino, in Psiche, Vulnerabilità, 1/2020, pp. 149-163.

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Nacci M. La barbarie del comfort. Il modello di vita americano nella cultura francese del ‘900, Milano, Guerrini, 1996.

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