La Ricerca

Intervista a Domenico Chianese

17/11/08

R. Mi trova d’accordo. Sono due libri scritti con stili molto diversi. Mi riferisco soprattutto alla prima parte di Costruzioni e campo analitico, che tra l’altro è stato tradotto in spagnolo e in questi giorni viene pubblicato in inglese. Nell’ultima parte invece è rintracciabile un possibile aggancio, in particolare il saggio intitolato Il Chiasma è molto vicino allo stile di Un lungo sogno. Non è un caso perché il chiasma è ciò che segna la fine di un percorso e allo stesso tempo è un punto di passaggio. Costruzioni e campo analitico era il mio primo libro e molto probabilmente dovevo dimostrare a me stesso la serietà di una ricerca culturale e teorica, mentre questo secondo lavoro, più vicino a me nel tempo, esprime maggiormente la genuinità di un percorso personale.

 

Mi sembra tuttavia importante sottolineare che ho potuto scrivere Un lungo sogno proprio perché ci sono state le premesse del primo lavoro, a partire dalla mia ricerca su Freud. Oggi posso attingere da questo bagaglio di conoscenze con maggiore libertà.

 

In questo secondo libro, da un certo punto di vista, sono più me stesso, più tranquillo. Ho trovato un mio stile personale. Questo è molto probabile.

 

 

 

 

 

D. La scrittura quindi come traccia da cui si può partire, ma anche lasciare o ripercorrere. A proposito di tracce mi viene in mente una seconda domanda riguardante la Metapsicologia uno dei cardini della teoria freudiana. Lei dedica diverse pagine a questa delicata e controversa questione sottolineando, con una certa ironia, che della metapsicologia è meglio non parlarne perché si rischia di fare brutta figura nei salotti alla moda della psicoanalisi “moderna”. Del resto la critica alla metapsicologia viene da lontano. Nel Suo saggio, mentre ribadisce la Sua fedeltà al testo freudiano e quindi alle origini della Sua formazione, propone di lasciare aperto i discorsi.

 

 

 

 

 

R. Mi fa piacere che leggendo Lei abbia notato che per me la metapsicologia è un riferimento fondamentale né lo tradisco, però non voglio farne una specie di “oggetto feticcio” e del resto sono convinto che Freud avrebbe sottoscritto quest’idea e cioè che la metapsicologia è un’opera aperta e tale deve rimanere.

 

In effetti, la prima metapsicologia – quella del 1915 – Freud non ha finito di scriverla, è stata forse l’unica volta nella sua vita in cui ha buttato via qualcosa. Stava per concluderla però ha incontrato delle difficoltà: era il dopoguerra, mancava la carta, si avvicinavano gli anni ’20 e sopraggiungevano altre idee. Sentiva che la prima teorizzazione doveva essere, almeno in parte, sostituita dalla seconda. Questo ci permette di capire la sua impostazione metodologica. Ritenere la metapsicologia un’opera chiusa equivale a tradire l’originario spirito freudiano. D’altra parte, come ho detto a Milano, io credo che noi facciamo metapsicologia senza accorgercene addirittura quando il paziente si sdraia sul lettino: le libere associazioni, la struttura stessa del setting, ci riconducono a quel modo di procedere. Si ricorderà però che ad un certo punto ho tenuto moltissimo a citare J. B. Pontalis, indiscutibile conoscitore della metapsicolgia, il quale se da un lato esprime la sua grande ammirazione e il suo debito nei confronti di J. Lacan, dall’altro ravvisa nel suo insegnamento un eccesso d’astrazione e di teorizzazione. A mio parere quanto dice Pontalis può essere esteso ad altri discorsi quando si esagera in astrazioni di primo, secondo, terzo grado. Certo ne restiamo affascinati, ci seducono e ci catturano, però ci allontanano dall’esperienza viva della clinica e comunque hanno una scarsa incidenza sulla sofferenza.

 

Nel mio libro ricordo quando Pontalis seguiva le lezioni tenute da Lacan all’interno dell’Ospedale psichiatrico e riporto le sue riflessioni “[…] non erano i camici bianchi che ci separavano da quegli infelici ma i nostri discorsi”.

 

Questo detto da una persona molto colta che ha scritto l’Enciclopedia della psicanalisi e che tuttavia ci mette in guardia dall’eccedere in discorsi troppo teorizzanti anche di natura metapsicologica in quanto possono essere loro stessi ciò che ci allontanano, non ci fanno comprendere, né ci permettono di aiutare certe vite. E’ senza dubbio un punto saliente, una sfida per noi analisti che ci dobbiamo porre innanzi tutto la questione etica della cura.

 

Stefano Bolognini ha usato un’espressione davvero simpatica che riassume il mio capitolo sulla metapsicologia: “ Edipo davanti alla Sfinge”. Io sarei Edipo che interroga la Sfinge- metapsicologia.

 

 

 

 

 

 

 

D. Mi sembra dunque fondamentale per l’ascolto analitico non incorrere in dogmatismi concettuali, o anche ricorrere a teorie troppo “sature”…

 

 

 

 

 

R. Certo. Pontalis ha scritto “un’enciclopedia” di concetti, ma ci esorta a stare attenti: se è vero che essi permettono di dare un nome ad una determinata esperienza, a lungo andare rischiano di occludere quella stessa esperienza. Ci invita in fondo all’inquietudine, a cercare di sentire senza mettere subito un concetto sopra un’esperienza, un dubbio, un’incertezza. Ecco, occorre evitare l’occlusione di senso.

 

 

 

 

 

D. Ha ricordato l’Edipo. Il mito e il sogno, scrive nel Suo libro, hanno la stessa natura. Un altro punto fondamentale nonché fondante il pensiero freudiano è appunto l’Edipo inteso come struttura simbolica preesistente al soggetto. Il soggetto è immerso nel simbolico. Di fronte alle nuove patologie in cui sembra predominare il pre-edipico o l’Edipo precoce, la teoria freudiana è da “rivedere”?

 

 

 

 

 

R. Potremmo dire così. Come Lei ha sottolineato la mia lettura dell’Edipo è una lettura in chiave antropologica e faccio riferimento a Lévi-Strauss. Ci sono delle strutture come quelle del linguaggio, dei legami di parentela, dei divieti, che l’uomo deve incontrare nel suo cammino. In realtà l’Edipo è ciò che segna il passaggio dal pre-soggettivo alla soggettività. In questo senso l’Edipo rimane valido sempre, in particolare nelle situazioni nevrotiche è un elemento fondamentale. Per quanto riguarda le strutture psicotiche, prendiamo un esempio emblematico, quello del Presidente Schreber il quale ha un delirio di tipo psicotico. In questo caso possiamo parlare di delirio edipico (per Schreber un padre persecutorio diventato Dio) ma si tratta di una sorta d’ingigantimento, di distorsione psicotica della struttura edipica. Però, per rispondere alla Sua domanda che mi sembra molto attenta e ci ricollega peraltro alla metapsicologia, io penso che sia la questione dell’Edipo che della metapsicologia debbano andare in crisi rispetto alle nuove esperienze. Di fronte alle situazioni borderline A. Green già diversi anni fa sosteneva che la metapsicologia cui noi facciamo riferimento non ci permette di comprendere a fondo la sindrome borderline e anche lo stesso Edipo. A me sembra che per approcciare tali patologie sia importante cercare di capire e poi come fare (in questo ambito gli operatori e gli stessi analistihanno delle modalità e degli approcci diversi) per strutturare e ricucire questa sorta di buco, di falla originaria, presente in alcune strutture di personalità pensando ad interventi più a livello del sensoriale che del simbolico.

 

David Hume nel suo Trattato sulla natura umana a un certo punto scriveva: “Per curarmi dalle nubi della filosofia o dal delirio filosofico pranzo, gioco una partita di backgammon, festeggio con gli amici e confido su una base sicura”. Ecco io ho l’impressione che in alcuni soggetti questa base sicura sia continuamente attentata oppure non si è costituita ancor prima di poter accedere a un livello di simbolizzazione e rappresentazione. Sono persone che ci trasmettono una grande angoscia perché questi “fondamentali” che noi diamo per assodati mancano. In questo senso parlare dell’Edipo diventa anche un errore metodologico. Certezze inalienabili, difficili anche da nominare io non so quali siano tuttavia ho l’impressione di averle. Quando vediamo l’ansia psicotica che è un’ansia sull’Essere io penso “A questa persona manca una cosa fondamentale: non ha certezze inalienabili, non può rilassarsi e giocare a backgammon”.

 

 

 

 

 

 

 

D. Per restare sulle tracce di Freud. La Traumdeutung è intimamente legata all’autoanalisi di Freud. Nel Suo saggio ad un certo punto fa un collegamento tra controtransfert e autoanalisi quali funzioni della mente dell’analista. Del controtransfert se ne parla molto, mentre l’autoanalisi sembra rimanere più in ombra…

 

 

 

 

 

R. Io posso dare una lettura personale perché se ci atteniamo alla letteratura ci sono autori che pongono delle distinzioni. Bollas ad esempio afferma una cosa molto interessante “La rivalutazione dell’importanza del controtransfert è una rivalutazione in realtà dell’autoanalisi che era caduta in disuso perché ritenuta un’irregolarità di Freud (perché a Freud mancava l’analista) ”. Quindi caduta in disuso, sì, ma noi la vediamo risorgere sotto la voce controtransfert Personalmente trovo molto difficile distinguere le aeree autoanalitiche dal controtransfert. Se provo un’emozione profonda e nel libro lo testimonio, ad esempio per quanta riguarda le perdite, i lutti, che vanno a toccare la sfera dei miei ricordi, certo si riattiva l’operazione autoanalitica a volte cosciente a volte preconscia. A mio avviso se attribuiamo al controtransfert un senso vitale, emotivo e significativo e non lo utilizziamo come uno strumento tecnico e automatico, non possiamo che ricollegarlo al processo autoanalitico.

 

La riflessione autoanalitica, però, deve portare a comprendere un’area comune con l’analizzando e soprattutto può essere utile per capire qual è il campo in cui l’analisi si sta muovendo, quali sono i simboli che lo stanno attraversando. Nel libro parlo di una seduta in cui il paziente, dopo anni d’analisi riesce a “rievocare” la morte del padre, oppure il caso di una paziente che ricorda l’abbandono da parte del padre quando aveva 18 anni, età significativa, di passaggio. A quel punto non era tanto importante chel’Analista rintracciasse nella propria memoria il ricordo del suo lutto personale, o delle sue esperienze di separazione,

 

questi sono elementi storici. L’autoanalisi è servita all’analista perché in quel momento si stava celebrando la perdita del Padre.caso la perdita del padre. Perché è un simbolo non in quanto legato alla storia dell’uno o dell’altro: la perdita del padre può essere un elemento diverso storicamente ma è un elemento di passaggio fondamentale nella vita di un soggetto. Quindi l’autoanalisi serve, come il controtransfert, a cercare di capire quali sono i simboli che si stanno muovendo e stanno promuovendo il campo analitico in quel momento, altrimenti diventa un incontro dell’intimismo dell’uno con l’intimismo dell’altro. Si deve procedere per comprendere, in quel

 

 

 

 

 

D. Senza enfatizzare l’aspetto empatico della relazione, che pone problemi di confini e questo mi fa pensare al Suo costante richiamo all’etica dello psicoanalista e al rispetto per l’identità del paziente…

 

 

 

R. Certamente, esiste anche l’aspetto empatico, ma affermare che l’analista guarda le cose attraverso gli occhi del paziente … non è qualcosa “che ci diciamo tra noi”, ma qualcosa che ci diciamo tra singolarità e questo è importante.

 

 

 

D. Alla luce degli attuali scenari socio-culturali, dei nuovi disagi della civiltà post-moderna e delle inquietudini che attraversano lo stesso mondo psicoanalitico, quali possono essere a Suo avviso le prospettive per la psicoanalisi del futuro?

 

 

 

R. Penso che questo interrogativo ce lo dobbiamo porre tutti e soprattutto gli analisti della mia generazione. Ma facciamo un salto. Ho letto quel bel libro di Mario Rigoni Stern “ Stagioni” nel quale l’Autore rievoca gli anni giovanili. A quel tempo è un giovane scrittore, i suoi amici sono Vittorini, Primo Levi, ecc. verso i quali nutre grande stima e ammirazione. Scrive loro una lettera per invitarli e a un certo punto gli viene il dubbio di aver commesso un errore incredibile e cioè di aver scritto “connifere” anziché conifere. Si consulta con un amico

 

letterato dal quale riceve una risposta che io trovo bellissima: “Non temere, la lingua è una

 

cosa viva e quindi bisogna difenderla anche dai pedanti”. Io penso alla psicoanalisi come ad un’esperienza viva e per questo è importante difenderla dagli eccessi di dogmatismo o di chiusure, siano esse chiusure “interne” in strutture iperteoriche (abbiamo visto i rischi della metapsicologia), o anche chiusure verso l’esterno caratteristiche di molti circoli analitici. Ma proprio perché confido che nel futuro la psicoanalisi resti viva ritengo che nel tempo debba evolversi e trasformarsi. Mantenere un rigore, questo sì, ma perché è importante questo rigore? Perché ci troviamo a vivere in una dimensione “fluida”, veloce, in continuo cambiamento e quindi diventa sempre più difficile circoscrivere e delimitare lo spazio psichico.

 

 

 

Mi trovo ad assistere ad un fatto: le persone che chiedono un’analisi, non quelle “addestrate”, ma quelle che vengono a chiedere aiuto, ebbene vedo che queste persone indubbiamente angosciate ma suscettibili di cambiamento, lentamente vanno a costituire un proprio recinto non invalicabile (con il filo spinato tanto per intenderci), ma un proprio confine e quindi anche la costruzione di uno spazio psichico che rientra nello spazio analitico. Sto cercando di dire che l’umanità, proprio in questo momento necessita di trovare un proprio recinto, uno spazio, una propria interiorità e temporalità e sono tutti punti fermi ed essenziali della psicoanalisi.

 

La questione è come la psicoanalisi può andare incontro a questi nuovi bisogni. Per esempio mi diceva uno psichiatra, competente ed esperto in dati epidemiologici, che oltre ad un disagio grave esiste un disagio che potrebbe essere trattato con un approccio psicoterapeutico. Sono aumentate le forme depressive, le forme ansiose soprattutto nelle fasce giovanili. Paradossalmente proprio in questo momento in cui parliamo di crisi della professione, ci sarebbe invece l’esigenza di andare incontro a questa domanda, forse non esprimibile direttamente in termini di analisi, ma a cui noi potremmo rispondere. Questo però implica rivedere una serie di condizioni e di limiti (esiste ad esempio un problema a livello economico) rispetto ad un percorso analitico in senso stretto.

 

 

 

 

 

D. Quanto dice può riguardare anche lo psicoanalista che lavora all’interno dell’istituzione psichiatrica in una posizione “di frontiera”?

 

 

 

R. Certamente. E’ una riflessione sul metodo, ma anche sulla questione istituzionale e dobbiamo domandarci che cosa può fare l’istituzione, senza tradire se stessa e la propria tradizione, al fine di promuovere una cultura psicoanalitica in grado di rispondere al nuovo disagio.

 

E’ un discorso che si articola a vari livelli e tutti molto interessanti. Bella sfida culturale e terapeutica per il futuro!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

CHIANESE D., Costruzioni e campo analitico, Roma, Edizioni Borla, 1997

 

CHIANESE D., Un lungo sogno, Milano, Franco Angeli, 2006

 

BOLLAS C., La funzione multipla dello psicoanalista: la regressione del controtransfert. Lavoro letto il 24/6/88 presso la II Cattedra di Neuropsichiatria Infantile di Roma.

 

PONTALIS J.B., L’amore degli inizi, Roma, Borla, 1990

RIGONI STERN M., Stagioni, Torino, Giulio Einaudi, 2006

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