La Ricerca

Intervista ad Armando B. Ferrari

17/11/08

D.: Pro Ferrari, da cosa prende spunto il singolare titolo del suo ultimo lavoro: “Il pulviscolo di Giotto”1?

 

R.: Negli anni l’esperienza analitica con pazienti pervasi dall’angoscia, perché segnati da una prognosi infausta che li obbliga ad affrontare la propria morte come dato reale, ha messo drammaticamente in evidenza la precarietà del linguaggio e delle modalità di approccio tecnico-cliniche consuete e l’inadeguatezza di un setting tradizionalmente inteso.

La richiesta di queste persone che, sempre più numerose, si rivolgono alla psicoanalisi mi ha indotto ad affrontare il problema, e a proporlo a numerosi colleghi.

L’esperienza clinica ha ribadito e ribadisce che la specificità del lavoro con questi analizzandi è determinata proprio dalla realistica conoscenza del limite temporale imposto dalla malattia alla loro vita; e che il problema saturante, disperante è quello di un tempo che ha un termine.

L’ipotesi tecnico-clinica nata da queste considerazioni si riferisce alla possibilità di riuscire a vivere la propria vita con intensità – e a far promuovere questa possibilità – nell’unico tempo, quello presente, quel riempire ogni istante anche di cose minute, indipendentemente dal tempo che ci resta da vivere.

L’aspetto che qualifica questa mia proposta di lavoro clinico consiste nel modo e nella forma con cui viene trattato nella relazione analitica il tema delle coordinate spazio temporali.

Nella relazione analitica con ammalati terminali ci troviamo immersi in una dimensione alterata per l’assenza di uno dei fondamentali parametri, il tempo. Non rimane allora che assolutizzare il tempo, “frantumandolo” così da dilatarlo in modo tale che ogni momento contenga in sé tutto il tempo vivibile. Il tempo si può dilatare sino a perdere le sue riconoscibili caratteristiche per avvicinarsi a qualcosa che potremmo definire ”spazio”; o può accelerare in modo tale che passato, presente e futuro divengano un “tempo” indistinto e, in un certo senso confuso.

Il modello di cui mi sono servito per queste indicazioni, utilizza metaforicamente la modalità nell’opera di restauro in corso nella Chiesa di S. Francesco ad Assisi, dove attenti restauratori, infatti, sono riusciti a ricostruire una parte dello stupendo ciclo di affreschi di Giotto, polverizzato dal catastrofico terremoto, servendosi di minuscoli frammenti recuperati. Visitando il cantiere definii quell’insieme di frammenti “il pulviscolo” di Giotto.

Per analogia, dunque, il protocollo che ho proposto vuole aiutare l’analizzando – che vive la catastrofe che polverizza la sua vita e che sta per morire – a vivere il tempo che gli resta, prendendo in considerazione segmenti minutissimi di tempo così da concedersi di vivere tutto ciò che è possibile vivere nelle condizioni attuali e nell’unico momento in cui è possibile vivere: il presente. Un tempo, quindi, che si costruisce sul fare, sul vivere, sull’essere dentro ogni frammento di esperienza, privo ormai della possibilità di nutrirsi di speranze o di promesse.

 

D.: E come si pone rispetto ai suoi precedenti lavori (“L’eclissi del corpo”, “Adolescenza. La seconda sfida”, “L’alba del pensiero”)? Quali sono i temi in esso trattati?

 

R.: Il Pulviscolo di Giotto ripercorre i temi sviluppati nei miei precedenti lavori. Vi ritroviamo il continuo intreccio tra la corporeità ed il funzionamento psichico come vertice privilegiato per osservare e comprendere le vicissitudini dell’umano essere. Tuttavia, l’impronta peculiare di quest’opera è costituita dall’enfasi data alla dimensione tempo, all’interno della quale corpo e mente – che si articolano in maniera più o meno armonica nel corso della vita – incontrano inequivocabilmente il limite posto dal vivere stesso e cioè il morire.

Avere scelto il tempo come variabile irreversibile che connota e denota il vivere di ciascun individuo, mi ha permesso di avvicinare esperienze particolari – quali quelle relative al lavoro analitico con i malati terminali o con pazienti anziani – e di effettuare alcune considerazioni su svariati aspetti del lavoro clinico. Mi riferisco, in particolare, alla tecnica analitica nel lavoro con bambini ed adolescenti, ed alla possibilità di prendere in considerazione il lavoro analitico rivolto ad analisti (comunemente indicato come “rianalisi”), per il quale io propongo un modello di lavoro che ho chiamato “autoanalisi con testimone”.

Il Pulviscolo di Giotto è un libro sulla vita e sul tempo che scandisce la vita; non solo un tempo naturale, ma soprattutto un tempo relativo, soggettivo che vede nella corporeità un indicatore inequivocabile del suo scorrere. È sempre l’esperienza clinica che si pone come base delle riflessioni e la misura di questa non è data dalla inesorabilità del limite ma dalla qualità del vivere entro i limiti posti dal tempo della corporeità.

 

D.: In ambiente analitico, le sembra che le sue ipotesi siano state ben accolte e valorizzate? E proporre il Corpo, come fa lei, comporta sconcerto tra gli analisti?

Se osservo il lungo tempo che mi separa dai primi lavori, circa 30 anni, in cui ho iniziato a proporre questo tema, devo convenire che alcune delle mie ipotesi sono state particolarmente ben accolte in alcuni gruppi di colleghi e in certi paesi. Quanto alla valorizzazione: non possiedo precise informazioni sul modo e sulla forma con i quali i miei colleghi se ne possono essere serviti se non attraverso i commenti, generalmente positivi, di riviste o lavori che ho avuto l’opportunità di leggere a commento di mie pubblicazioni. Non credo alla possibilità che le mie ipotesi creino sconcerto, per la semplice ragione che già Freud ebbe tra le sue prime e importanti intuizioni quella che “l’Io è corporeità”.

Si ha oggi come l’impressione che la psicoanalisi si senta talvolta inadeguata rispetto alla filosofia… fino a che punto il dialogo tra psicoanalisi e filosofia può davvero risultare fertile?

 

R.: Questa domanda meriterebbe uno spazio proprio, poiché coinvolge e chiama in causa un tema attualissimo. Non ho competenza per rispondere alla complessità che questo argomento presenta. Non credo però che la psicoanalisi si senta inadeguata rispetto alla filosofia. Sono scienze entrambi, e aree differenti di specifica competenza. Direi piuttosto che molti filosofi giudicano la psicoanalisi inadeguata con una serie di argomenti che non ritengo opportuno discutere in questa intervista. Il dialogo tra queste discipline è a mio modesto avviso non solo fertile ma necessario. La mia personale esperienza è contrassegnata dal rispetto, dall’accoglienza e dall’interesse che ho trovato presso i filosofi.

Limitandomi al solo periodo italiano, penso sia sufficiente considerare gli scritti che ho potuto realizzare con la collaborazione e il decisivo contributo del filosofo e amico prof. Emilio Garroni.

 

D.: Bioniani, Kleiniani, Winnicottiani, Kohuttiani… non è un po’ come tifare per delle squadre di calcio? E come si può evitare di cristallizzare il pensiero di tanti originali autori?

 

R.: Non credo che un autore sia responsabile dell’uso che altri fanno delle sue ipotesi. La gratitudine per i maestri non può essere confusa con l’uso o l’abuso che molti epigoni commettono, proteggendosi goffamente dietro lo schermo della creatività dei maestri.

Il termine ….iani può essere facilmente usato o applicato, ma comporta solo confusione sciupando sia i concetti dell’Autore di cui ci si serve che la propria opinione.

È questa una delle possibilità, e per esemplificare uso una sua espressione con cui “si cristallizza” il pensiero di tanti originali autori.

 

D.: Secondo lei, il pensiero di un analista deve trasparire nel corso di un’analisi?

 

R.: Se con il termine pensiero si intende l’insieme del mondo di valori, credenze e idee dell’analista, va detto che tutto questo non riguarda in alcun modo il lavoro analitico.

L’obiettivo di una relazione analitica è infatti quello di consentire all’analizzando di migliorare il rapporto con se stesso, di rendere più fluido e funzionale il suo dialogo con se stesso. In questo contesto tutto ciò che appartiene al mondo dell’analista potrebbe costituire una pericolosa interferenza rispetto all’obbiettivo che si vuole raggiungere oltre che non essere di nessun aiuto.

In questo senso la massima potenzialità della relazione analitica deriva proprio dalla capacità dell’analista di accedere ad ogni incontro con ogni analizzando “senza memoria e senza desiderio”, come suggerisce Bion.

Nel contesto della relazione analitica, l’analista sintonizza la propria capacità di ascolto verso gli specifici e caratteristici modi di esprimersi da parte dell’analizzando, in modo da poter parlare il suo linguaggio e permettergli così di accedere a risorse e ad aspetti ai quali la situazione disarmonica del suo sistema non permette accesso.

Per questo egli deve essere anche in grado di porgere ascolto a quanto si va mobilitando all’interno di se stesso, del proprio sistema per poterlo utilizzare nella costruzione della proposizione analitica.

Dunque nella relazione analitica si realizza quella che ho definito una “costante dinamica”, costituita dal duplice movimento dell’analizzando che per la prima volta “va verso se stesso” e dell’analista che, sollecitato dal dire dell’analizzando, “torna verso se stesso”. In questo specifico senso trattasi di un sistema ” autointerpretante “.

In sintesi, analista ed analizzando sono ugualmente responsabili e competenti, ciascuno verso il proprio mondo, ma mentre si suppone che l’analista sia allenato al dialogo con se stesso, l’analizzando necessita per la prima volta di essere aiutato ad accedere al proprio mondo di significati dei quali egli soltanto possiede la chiave.

 

D.: Quand’è che un atteggiamento di uno psicoanalista può diventare, suo malgrado, seduttivo e paralizzante?

 

R.: Questa domanda in sé non merita risposta. Ma qualcosa di pertinente si può aggiungere concludendo la risposta precedente: “Se l’analista pone particolare attenzione nell’attivare la responsabilità dell’analizzando verso se stesso e cioè lo sollecita e lo sostiene nel riconoscere, sperimentare ed assumere aspetti del proprio sistema, si riduce di molto il rischio che l’analizzando usi l’analista come modello a cui adeguarsi passivamente”.

 

D.: C’è oggi una tendenza , abbastanza diffusa, che è quella di separare con una certa disinvoltura la dimensione teorica dalla clinica. Vorrei sapere cosa ne pensa…

 

R.: Per quanto mi riguarda considero l’aspetto clinico di primaria importanza per la formulazione delle mie ipotesi teoriche. Sottolineo ipotesi teoriche e non Teorie, in quanto piuttosto che a descrivere la realtà esse devono essere funzionali a poter entrare in rapporto con la realtà, rispettando in primo luogo il dato clinico e non viceversa. È quindi nel dato clinico che è possibile rintracciare il precursore di ciò che potrà diventare una ipotesi teorica da poter sottoporre a verifica nella Relazione Analitica con lo specifico paziente.

Il legame tra teoria e clinica è in tal senso fondamentale e solo mantenendo intimo questo legame è possibile considerare uno sviluppo delle nostre conoscenze psicoanalitiche.

 

D.: Quanto deve il suo pensiero a quello di Bion? E come nacque l’incontro con il filosofo Emilio Garroni?

 

R.: Il contatto con il Dott. Bion, subentrato ad un periodo di preparazione svoltosi lungo le linee classiche, era stato decisivo non solo per la mia formazione specifica ma per tutto il mio assetto interno, che da lui ha appreso e assunto la necessità di una costante attività di pensiero.

Proprio dalla sua frequentazione era maturata in me l’idea di una ricerca analitica ricondotta ai suoi fondamenti, che mi permettesse una collocazione nuova – o quanto meno l’uso di ipotesi nuove – nell’area della relazione analitica stessa. E fu proprio lo studio incentrato su quest’area a spingermi verso specialisti nel campo della linguistica e della semiotica in Europa.

La semiotica moderna, infatti, ha promosso larghe indagini sui cosiddetti “linguaggi non verbali” e la psicoanalisi, da parte sua, è sempre stata particolarmente incline a valutare positivamente ed accogliere in sé quegli sforzi. Basterebbe pensare al termine freudiano di “rappresentante psichico” che comporta – già nel quadro della teoria delle pulsioni – una considerazione semiotica. In un certo senso, dunque, l’incontro fra le due discipline poteva essere considerato già da tempo quasi inevitabile.

Problemi di lingua, forse, e, ancor più, di elezione inconscia mi fecero scartare alcuni paesi e le rispettive scuole per rivolgermi verso l’Italia e in particolare verso alcuni specialisti, liberi di poter dialogare e di mettere a disposizione i loro punti di vista, oltreché la loro area di competenza: tali, dunque, da potermi arricchire di una visione molto più ampia e più funzionale alle esigenze della mia ricerca.

Alla fine degli anni sessanta, durante il Congresso Psicoanalitico Internazionale tenutosi a Roma, ebbi modo di orientarmi verso alcuni studiosi italiani, uno dei quali era appunto il prof. Emilio Garroni.

In seguito, la lettura di alcune sue pubblicazioni, fra cui Progetto di semiotica e Pinocchio Uno e Bino mi convinsero a contattarlo durante un altro viaggio in Europa per esporgli le mie necessità e sondare il suo interesse e la sua disponibilità al mio progetto.

Lo conobbi nel 1971, a Roma; la sollecitazione ricevuta da alcuni suoi interventi mi confermò che era lui l’interlocutore più indicato per la mia ricerca: personalità di formazione strettamente filosofica, ma caratterizzata da forti interessi nel campo della semiotica, e animata dalla tensione verso una nuova e possibile modalità di lettura estetica. È certo riduttivo includere il prof. Garroni semplicemente nella categoria degli specialisti di semiologia e di estetica. Infatti l’obiettivo cui mira la spinta feconda che lo conduce attraverso queste esperienze è una nuova visione filosofica che includa i contributi della semiotica e della estetica.

Egli si disse disposto a collaborare. Il nostro incontro, fissato per l’anno 1976, si dipanò in dialoghi settimanali molto stimolanti, anzi creativi. Attraverso quella esperienza di scambio avvertii subito che la visione “garroniana” della semiotica, con le sue teorie e i suoi riferimenti specifici, diventava di importanza fondamentale per lo sviluppo delle mie ipotesi. Mi rendevo conto, infatti, che il problema che mi ero prefisso si delineava come una nuova, possibile sistematizzazione delle mie conoscenze e della mia stessa esperienza analitica e teorica. Si trattava in realtà di una revisione e riorganizzazione globale, già tentata a più riprese, di tutta la psicoanalisi nei suoi diversi aspetti, nelle sue implicazioni paradigmatiche, epistemologiche, logiche, nei suoi criteri applicativi, nelle sue finalità interpersonali, sociali e addirittura politiche. Per ciò che riguarda i miei rapporti con il Dott. W. Bion è presto detto: lo considero il mio maestro e devo al suo pensiero quello che nella mia attività psicoanalitica ho potuto sino ad oggi realizzare. Credo di aver in parte mostrato nel tempo la mia gratitudine, portando avanti ipotesi – e assumendone per intero la responsabilità – che sono scaturite dal mio intenso, anche se breve, convivio con questo uomo. Per molti suoi aspetti non esito a considerarlo, dopo Freud, la figura più importante del pantheon psicoanalitico.

 

D.: In occasione di un mio scritto, incluso in un numero speciale della rivista “Psicoterapia e Istituzioni” (Anno IV n. 1/1998) dedicato alla sua opera e al suo pensiero, raccolsi una testimonianza della Dottoressa Emiliana Mazzonis, la quale ricordava che il vostro primo incontro avvenne – tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 – a Buenos Aires (nell’Ospedale dei Bambini, durante lo svolgimento della propria attività professionale). Vi ritrovaste poi a Roma, a tenere insieme dei seminari clinici: “Ferrari si fermava sulle prime parole, sul primo comportamento che poi appariva in tutta la seduta e l’interpretazione data era subito chiarificante della situazione. Era focoso, era implacabile, non accettava contraddizioni, meno che con me con cui poteva litigare. Si litigava sulle diverse interpretazioni, ma il litigio si componeva subito. La sua grande vitalità psicofisica lo faceva sempre essere in uno stato di tensione che ogni tanto sfogava dandosi delle potenti pacche sulle cosce. Tensione che controllava non permettendosi mai di mangiare quel che della colazione veniva offerto ma chiedendo solo acqua. Questa vitalità si mutava in un’affettuosa amicizia, portando tra i componenti del seminario animazione e allegria. Le sue supervisioni erano veramente delle ottime lezioni”.

Lei che ricordo conserva di Emiliana Mazzonis?

 

R.: In una recente, ennesima sistemazione della mia biblioteca ho riscoperto con piacere un volumetto della Dottoressa Emiliana Mazzonis dal titolo Scritti sull’infanzia, l’adolescenza e oltre che credo ritragga non solo la generosa e acuta sensibilità della collega ma che ne dia anche una visione della serietà e della passione con la quale operava e insegnava. È noto a molti dello SPAZIO la non breve stagione di lavoro che svolsi per suo merito e nella sua accogliente abitazione di alcune delle mie ipotesi di lavoro, che destarono un vivissimo interesse nella sua ricerca di conoscenza e di sistematizzazione del pensiero psicoanalitico.

D.: “Il problema della vita e della morte esiste anche in psicoanalisi. Ci sono analisi vive e morte, pazienti vivi e morti, psicoanalisti vivi e morti. In noi ci sono, infatti, zone vive e morte. Anche quegli psicoanalisti che non hanno esperienza utilizzano strumenti morti. Morti vuol dire che non hanno imparato dal vivo, che hanno imparato in modo accademico; per cui, quando sono a contatto con il paziente, utilizzano strumenti non adatti alle circostanze, che sono già vecchi”: pensa di poter condividere queste parole di Salomon Resnik?

 

R.: Penso che quando il processo dinamico di comunicazione con se stessi diventa meno fluido ed in suo luogo si innalzano barriere di incomunicabilità, si possa avere l’impressione che aspetti mortiferi abbiano preso il posto di aspetti vitali.

In realtà quella che definisco area entropica, continuamente prodotta dal vivere e contenente sensazioni ed emozioni che ancora non hanno trovato espressione ed accesso al pensiero, costituisce una inesauribile fonte di emozioni e di pensieri, fino a che si è in vita.

Quando però le barriere – innalzate dall’individuo allo scopo di attenuare un eccesso di angoscia proveniente dall’area entropica o nell’impossibilità di trovare strumenti più flessibili ed idonei di espressione e contenimento -, si fanno rigide, il processo dinamico tende a bloccarsi e la situazione disarmonica tende a crescere con un andamento esponenziale. Ma la necessità stessa di ricercare condizioni più funzionali al vivere all’interno del sistema, può provocare punti di rottura della rigidità, ponendo in tal modo l’individuo nella necessità di richiedere altre modalità di funzionamento, ivi compresa la possibilità di desiderare aiuto.

Quanto detto riguarda anche l’analista che può, sollecitato dalla relazione analitica o dalle vicissitudini della vita, incontrare momenti di disarmonia nel proprio sistema, e può a sua volta rivolgersi ad un collega che lo aiuti, ove necessario, a ripristinare un dialogo più fluido con se stesso. In questi casi non è necessario ricorrere ad un assetto analitico comune, ma ci si può servire di particolari e più funzionali modalità analitiche e che ho definito, nel corso di una mia ricerca sull’argomento, “Autoanalisi con testimone”.

Si può evitare di incorrere, in questo modo, in quella condizione che già Freud aveva individuato e designato come Analisi interminabile e mantenere vivo e dinamico il processo di dicibilità all’interno del sistema dell’analista e di conseguenza anche dell’analizzando.

La relazione analitica mantiene così la sua funzione di costituire un contesto nel quale sia possibile creare esperienza: esperienza e conoscenza del proprio specifico modo di essere e delle proprie risorse per l’analizzando e per l’analista.

 

D.: In chi, nel corso del tempo, ha sentito di poter trovare una profonda intesa?

 

R.: Nel mio corpo.

 

(Ottobre 2005)

 

 

1 Ferrari, A.B. Il pulviscolo di Giotto, Milano, Franco Angeli, 2005

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