La Grande Guerra e la psicoanalisi

La Grande Guerra e la psicoanalisi

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21/01/14

Il Congresso di Budapest. La psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi di guerra.

Rita Corsa e Giuseppe Zanda

grande guerraLa Grande Guerra fu la prima guerra totale. Un’«orribile devastazione che ha sommerso il mondo» (Tausk, 1916, p. 113). Per Zaretsky, ciò che sconvolse la mente collettiva non fu solo la scala senza precedenti della tragedia, ma, specialmente, «lo stallo difensivo che trovò il suo simbolo nella trincea. Ne risultò un nuovo paesaggio psichico oltre che geografico: cunicoli, esplosione di mine, paura di essere sepolti vivi, rumori e vibrazioni assordanti, l’insidia del gas, disorientamento, frammentazione, mancanza di riferimenti visivi, cancellazione della differenza tra notte e giorno, identificazione con il nemico, riduzione della coscienza» (2004, p. 137). La psicopatologia bellica è stata, inevitabilmente, il capitolo clinico e teorico impostosi con prepotenza allo studio degli psichiatri e degli psicoanalisti nel primo ventennio del secolo scorso. Il termine shock da granata o da esplosione (shell shock) venne usato per la prima volta in un articolo sul Lancet nel 1915 dallo psicologo medico Charles Myers, che combatté nella British Expeditionary Force in Francia nella Prima Guerra Mondiale, per indicare i disturbi psicologici che causarono il rimpatrio di molti militari fin dal dicembre 1914. In precedenza, i disturbi psichici che si verificavano in battaglia erano stati chiamati in vari modi, tra cui “cuore del soldato” (o “Sindrome di Da Costa”, dal nome del medico che la descrisse nel corso della Guerra Civile Americana) e “shock nervoso generale” (Shorter, 2005).

Durante il conflitto mondiale, i soldati si trovarono esposti a un’ampia gamma di danni da esplosione, soprattutto prima dell’introduzione dell’elmetto di metallo nei primi mesi del 1916: il 60% delle morti nel corso della Grande Guerra fu causato dalle granate shrapnel. All’inizio la comunità scientifica considerò lo shock da granata dal punto di vista “organico”, cioè come espressione di una lesione neurologica, conseguente all’urto di potenti agenti esterni. Ben presto, però, si dovette fare i conti con il numero crescente di soldati che, essendo stati vicini o avendo assistito a un’esplosione, senza aver subito alcuna ferita al capo, presentavano comunque una serie di sintomi di difficile interpretazione: amnesia, scarsa concentrazione, mal di testa, ronzii, vertigini e tremore, che non guarivano con le cure ospedaliere.  Fu evidente che non sempre poteva essere sostenuta sul piano eziopatogenetico la relazione tra lo shock da granata e il traumatismo cerebrale diretto e si cominciò ad avanzare l’ipotesi che i sintomi fossero di origine psicologica piuttosto che organica, fino a considerarli in definitiva una “nevrosi traumatica”.

La psicopatologia bellica divenne, dunque, un’area d’intersezione tra la neurologia e la psicoanalisi talmente potente, da far dichiarare a Ferenczi  che «(…) le esperienze acquisite con i nevrotici di guerra (…) hanno condotto i neurologi oltre la scoperta della psiche, li hanno condotti (…) a scoprire la psicoanalisi » (Ferenczi, 1919, p. 18).

Il V Congresso Internazionale di Psicoanalisi (28 e 29 settembre 1918), tenutosi a Budapest poche settimane prima della fine delle ostilità, fu ampiamente consacrato ai traumi psichici dovuti alla guerra. Mentre la relazione di Freud, Vie della terapia psicoanalitica (1918), risentiva dei problemi sollevati dall’ “analisi attiva”, proposta da Ferenczi, e della questione dell’estensione della psicoanalisi a fasce sempre più ampie della popolazione – tanto da fargli dichiarare che «il povero ha diritto all’assistenza psicologica né più e né meno come ha diritto (…) all’intervento chirurgico (…) Saranno allora create delle case di cura o degli ambulatori dove lavoreranno un certo numero di medici con preparazione psicoanalitica (…) Questi trattamenti saranno gratuiti. (…)  è un traguardo a cui prima o dopo si dovrà arrivare» (1918, p. 27) – gli altri psicoanalisti polarizzarono i loro interventi sulla sentitissima materia inerente alla psicopatologia traumatica di guerra. Fu il primo meeting analitico al quale partecipassero rappresentanti ufficiali di tutti i governi, in ragione della crescente attenzione che si dava alle “nevrosi belliche”. Spiegava Jones che diversi psicoanalisti stavano svolgendo attività di ufficiale medico al fronte (Abraham, Eitingon, Tausk e Ferenczi), acquisendo una vastissima competenza clinica sull’argomento, che consentiva loro di proporre modalità inedite di cura. Un approccio alle nevrosi e psicosi belliche di matrice psicologico/psicoanalitica si distingueva recisamente dai consueti trattamenti psichiatrici, come la semplice custodia e la somministrazione di terapie aggressive, quali la faradizzazione elettrica, l’isolamento, le diete forzate e l’inganno, a loro volta, fortemente traumatiche.

Léon GimpelLéon GimpelNon dimentichiamo, invero, che nei tragici anni della Grande Guerra si sono consumate tra le pagine più oscure della cronaca psichiatrica. Per tutte ricordiamo l’applicazione punitiva di elettrodi sottocutanei alle estremità, attraverso i quali veniva trasmessa corrente elettrica a basso voltaggio. Si trattava della famigerata “pratica elettrica”, usata come un vero e proprio strumento di tortura cui venivano sottoposti i soldati, reduci dal fronte, accusati di “simulazione”. La psicoanalisi offriva un’opportunità di cura inedita, più umana e gravida di speranze. Nel 1918, il giovane Ernst Simmel, psichiatra e psicoanalista fedelissimo a Freud, pubblicò il  libro  “Le nevrosi di guerra e trauma psichico” – presentato e discusso anche al Congresso di Budapest -, dove suggeriva una nuova terapia, caratterizzata dalla combinazione del metodo analitico-catartico-ipnotico con il colloquio analitico. Ebbe uno straordinario successo e, insieme all’eccellente lavoro pratico svolto dagli altri colleghi analisti impegnati al fronte, impressionò «gli ufficiali medici superiori dell’esercito, e si parlava di erigere in vari centri cliniche di psicoanalisi per il trattamento delle nevrosi di guerra» (Jones, 1953, vol. 2, pp. 244-245).

La prima clinica psicoanalitica doveva sorgere proprio nella capitale ungherese, sotto la direzione di Ferenczi. Al Congresso di Budapest fu lo stesso Ferenczi ad aprire i lavori sulle patologie mentali da trauma bellico. La sua relazione, dopo aver riassunto la bibliografia neurologica sull’argomento, offriva una ricca esposizione clinica che si concludeva con delle considerazioni teoriche, che collocavano la nevrosi traumatica nella vasta categoria delle nevrosi narcisistiche. I successivi interventi di Abraham, Tausk e Jones non si discostavano dall’impianto teorico disegnato da Ferenczi, che riprendeva il concetto di narcisismo sviluppato da Freud in Introduzione al narcisismo (1914). In estrema sintesi, le nevrosi belliche sarebbero delle nevrosi traumatiche che andrebbero studiate attraverso l’esplorazione delle dinamiche narcisistiche. Non sarebbero, quindi, delle nevrosi autonome e, al pari delle altre nevrosi narcisistiche (dementia praecox, paranoia e melanconia), risulterebbero di ostica analizzabilità (Freud, 1919, p. 74).

Colpisce, tuttavia, che «questi eccezionali scritti dei pionieri della psicoanalisi, che hanno perlustrato i territori psichici annientati dalla guerra, paradossalmente non si siano imbattuti nelle più profonde pulsioni di morte. Nessuno ne parla, anche se l’idea di istinto distruttivo circolava già da qualche anno nella comunità psicoanalitica» (Corsa, 2013, p. 121). Il prodigioso impulso alla diffusione della psicoanalisi offerto dallo studio delle patologie post-traumatiche belliche è doviziosamente testimoniato pure dal carteggio tra Freud e Jones. Jones informava con entusiasmo il Maestro: «La Aufschwung [fioritura]» della psicoanalisi «in Inghilterra è straordinaria; la psicoanalisi è in prima linea negli interessi medici (…). Gli ospedali specializzati in “Shellshock” (psicosi traumatica da bombardamenti) hanno società psicoanalitiche, vengono tenute conferenze nelle facoltà di medicina» (Jones a Freud, 27 gennaio 1919; 1993, vol. 1, p. 420). Il primo numero dell’Internationaler Psychoanalytischer Verlag venne completamente destinato alla psicoanalisi delle nevrosi di guerra, con un capitolo introduttivo di Freud. Nel 1921 uscì la traduzione inglese, curata da Jones.

Le sorti della psicoanalisi risentirono pesantemente degli esiti della conflagrazione mondiale: al Congresso di Budapest «nessuno percepiva ancora l’imminente sconfitta, avvenimento che ovviamente mutò completamente la situazione» (Jones, 1953, vol. 2, p. 245). E così i fastosi progetti di apertura di cliniche eroganti prestazioni psicoanalitiche gratuite svanirono per sempre.

Alcuni anni dopo il Congresso di Budapest (dalla fine del 1921 all’inizio del 1922), il giovane psichiatra americano Abram Kardiner andò a Vienna per fare la propria analisi con Freud. Al suo rientro a New York, Kardiner accettò «con gioia un lavoro presso il Veterans Bureau (Ente di assistenza agli ex combattenti), dove ebb[e] la possibilità di lavorare con ex soldati sofferenti a causa di “shock da granata” (…)» (Kardiner, 1977, p. 100). Nel bel libricino autobiografico, nel quale rammenta i sei mesi di analisi con Freud, Kardiner alla fine confessava che i suoi ripetuti «tentativi di creare una teoria delle nevrosi di guerra si rivelarono impossibili» (ibid. pp. 102). Allora come oggi.

Dal secondo dopoguerra, gli Stati Uniti hanno soppiantato i paesi europei nella leadership della psichiatria mondiale e il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) sembra essere divenuto la bussola con la quale orientarsi nei territori delle malattie mentali. Durante e dopo la Guerra del Vietnam molti soldati manifestarono gravi alterazioni psichiche in seguito all’esposizione a traumi bellici: nacque così il termine “Sindrome post-Vietnam”, in sostituzione di quello più comprensivo di “Disturbo da stress da catastrofe” (DSM-II, 1968).

La task force dell’APA (American Psychiatric Association) per il DSM-III (1980), incaricata di studiare i Disturbi Reattivi, riconoscendo che il “Disturbo da stress da catastrofe” poteva originare anche da traumi non bellici, suggerì la locuzione di “Disturbo da stress post-traumatico” (PTSD). Nel DSM-5 (maggio 2013) è stata apportata una significativa revisione dei criteri diagnostici del PTSD, che non viene più considerato un disturbo d’ansia basato sulla paura, ma entra a far parte di  una nuova categoria diagnostica, denominata “Disturbi correlati a traumi e agenti stressanti”, nei quali l’esordio è preceduto dall’esposizione a un evento ambientale traumatico o, comunque, avverso. Anche se la diagnosi di PTSD è stata considerata “erede” delle diverse diagnosi psichiatriche e psicologiche che, a partire da quasi cento anni fa, sono state utilizzate per indicare il multiforme gruppo di disturbi correlati ai traumi bellici, da molti decenni la guerra è “solo una” delle possibili situazioni, nelle quali eventi traumatici possono essere causa di un PTSD.

Al Congresso di Budapest, Sigmund Freud e i suoi primi discepoli ancora una volta precorsero i tempi. Già allora, infatti, ritenevano riduttivo ed errato, sia sul piano clinico/nosografico sia su quello metodologico/teorico, limitare al teatro della guerra certe modalità patologiche di reazione psichica al trauma violento che, invece, frequentemente e per ragioni diverse, si possono manifestare anche in tempo di pace.

Gennaio 2014

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