La Cura

Sul Metodo Psicoanalitico. F. Riolo

22/12/23
Sul Metodo Psicoanalitico. F. Riolo

G. PENONE, 2019

In occasione della pubblicazione sulla Rivista Italiana di Psicoanalisi (2021/4)  del lavoro, Teorie Psicoanalitiche a confronto, ripubblichiamo il lavoro che F. Riolo presentò nel 2016 dal titolo, Sul Metodo psicoanalitico.


Fernando Riolo
Il metodo psicoanalitico *

21/01/2016


Vi ricordate come si risolve un’equazione di primo grado? Se scrivo 2x = 8 posso trovare subito il valore della x, ovvero il numero che moltiplicato per due fa 8.
In realtà ho applicato in modo intuitivo una regola, che dice: l’incognita di un’equazione di primo grado è uguale al quoziente del termine noto per il coefficiente del termine incognito. Il vantaggio della regola è che questa ci permette di sostituire la prima espressione con una formula di valore generale:
ax = b → x = b/a
E questa formula vale qualunque sia il valore che assegniamo ad a e a b.
La regola ci consente cioè di risolvere qualsiasi equazione di primo grado, per quanto grandi e complessi siano i suoi fattori: a e b sono i fattori, la regola è il funtore della trasformazione; quello che consente il passaggio da x al valore di x. E mentre a e b sono variabili, la regola è invariante, è indipendente cioè da quali sono i contenuti della
trasformazione.
Oggi cercherò di rispondere alla seguente domanda: quali sono i funtori della trasformazione psicoanalitica, ovvero i suoi invarianti?
Sono state date molte risposte: il transfert, l’interpretazione, il setting, la relazione, l’hic et nunc, l’hunc et tunc, … e nella storia della psicoanalisi ciascuno di questi fattori è stato di volta in volta privilegiato e contrapposto a un altro, fino a costituire delle vere e proprie antinomie. Se perciò siete confusi su quale scegliere non so darvi torto.
Ma non preoccupatevi, quelle antinomie sono false antinomie, perché quegli elementi rappresentano i “fattori” della trasformazione psicoanalitica, non ne sono i “funtori”.
Quali sono allora i funtori?
Consideriamo il nostro lavoro: da un lato disponiamo di alcune teorie; dall’altro ci confrontiamo con una quantità di esperienze cliniche, in massima parte non ordinate e non spiegate. Dall’uso che facciamo di quelle teorie per ordinare e spiegare queste esperienze dipende la possibilità, sia di sviluppare le nostre conoscenze, sia di curare i nostri pazienti. Che vuol dire che conoscenze e esperienze non possono essere, come continuamente sentiamo fare, divise: le teorie senza le esperienze sono vuote; e le esperienze senza le teorie sono cieche.
Il rapporto tra le une e le altre richiede l’esercizio del metodo. Il metodo è ciò che le mette in relazione; è “la via che passa attraverso” (metha-odòs) le esperienze che facciamo in analisi collegandole alle teorie che ci consentono la loro comprensione.
Un processo non unidirezionale, né pacifico; perché il grado di corrispondenza delle teorie con le esperienze è sempre parziale – e sta proprio in questo la sua funzione euristica; poiché da quello scarto conseguono ulteriori richieste al lavoro della teoria, che a causa di ciò dovrà modificarsi in modo da raggiungere un grado di approssimazione migliore. Il rapporto tra osservazione e teoria è perciò circolare.
I dati osservativi e le teorie sui dati non esistono come due realtà separate; costituiscono un sistema solidale all’interno del quale si determinano reciprocamente.
Questo intese affermare Freud con la sua triplice definizione della psicoanalisi come teoria, metodo e cura, ponendo tra queste tre dimensioni uno Junktim. La psicoanalisi è un tripode: se togliamo un piede il tripode crolla.
Allo stesso modo sono necessari tre punti per definire uno spazio. Se volessimo perciò rappresentarci lo spazio dell’analisi, dovremmo raffigurarlo con un triangolo, del quale Metodo, Teoria e Clinica costituiscono i vertici. Dalla loro cooperazione si genera lo spazio all’interno del quale si producono le nostre osservazioni, le nostre interpretazioni
e le teorie che rendono possibile il passaggio dalle une alle altre. E come in un triangolo, la relazione tra i vertici è tale da non poter essere rimpiazzata dall’interazione tra coppie, pena il collasso del triangolo, dello spazio dell’analisi.

L’idea che la psicoanalisi è un sistema derivante dalla correlazione fra teoria, metodo e clinica è in linea di principio condivisa da tutti. Ma solo in linea di principio: perché se è facilmente accettata nelle premesse, lo è assai meno nelle conseguenze – che sono invece cogenti. In virtù di quella triplice interdipendenza dobbiamo assumere infatti che il metodo e le teorie non solo ci guidano nella comprensione delle osservazioni cliniche, ma anche determinano quali livelli e oggetti possiamo osservare; e che reciprocamente, questi livelli e oggetti determinano quali teorie si rendono
necessarie per la loro spiegazione. Ne consegue che il cambiamento di ciascuno dei vertici del campo analitico determina, che lo si voglia o no, il cambiamento degli altri: a livelli di osservazione diversi corrispondono oggetti diversi e descrizioni diverse.
Tutto ciò apparirebbe immediatamente evidente se facessimo riferimento a sistemi osservativi ben consolidati come quelli delle scienze fisiche. Il telescopio ottico è figlio delle leggi della meccanica classica e ci permette l’osservazione degli oggetti considerati da quella teoria – i pianeti, le comete, i corpi visibili. Ma fu necessaria l’invenzione del radiotelescopio per oltrepassare la banda delle radiazioni ottiche e poter osservare le stelle di neutroni e i quasar; analogamente, fu necessaria l’invenzione dell’acceleratore gravitazionale per poter osservare il nucleo dell’atomo e le particelle.
Ma l’acceleratore gravitazionale è, a sua volta, figlio della teoria quantistica, e non sarebbe mai stato pensato se quella teoria non l’avesse reso pensabile. Risulta così evidente che se cambiano la teoria e gli strumenti, cambiano anche gli “osservabili” e, reciprocamente, se cambia il campo osservato, dovremo cambiare corrispondentemente  le teorie e gli strumenti.
Che non vuol dire che non li possiamo cambiare. L’esempio delle scienze fisiche, cui ho appena fatto riferimento, dimostra l’utilità, e perfino la necessità, di cambiarli se vogliamo estendere il nostro dominio osservativo a nuovi fenomeni clinici e essere in grado di comprenderli. La psicoanalisi, come ogni scienza, deve evolvere e trasformarsi.
Il punto è “che cosa” deve trasformarsi e che cosa non – poiché una trasformazione è tale in quanto qualcosa cambia e qualcosa resta invariato; altrimenti non di una trasformazione si tratterebbe, ma di una cosa interamente nuova e diversa. Ciò che rende specifica una trasformazione è quali sono i suoi elementi invarianti.

Il che ci riporta alla differenza tra i fattori e i funtori della trasformazione psicoanalitica, ovvero agli elementi che non possono essere sottratti senza che essa cessi di essere una trasformazione psicoanalitica.
Freud aveva adoperato a questo proposito la metafora del coltello di Lichtenberg; un coltello fantomatico, la cui invenzione si deve a un singolare scienziato del Settecento, Christoph Lichtenberg. Tra i suoi scritti, c’è anche un trattatello umoristico sulle ipocrisie dell’animo umano; un inventario di oggetti paradossali: un barometro che ha
la proprietà di segnare sempre bel tempo; una fonderia tascabile per farsi in casa le palle da cannone; una maschera con lacrime incorporate da indossare per il lutto; e una macchina per la copulazione dell’anima col corpo. In una delle pagine non c’è niente; sotto c’è scritto: “un coltello senza lama al quale manca il manico”.
Questa afanisi del coltello fu utilizzata da Freud per esemplificare la sparizione della psicoanalisi a causa “della sottrazione di tutti quei punti in cui mi è stato possibile identificare la sua stessa essenza”. Che così elenca:
– l’abolizione del contenuto inconscio del sogno, rimpiazzato dal testo manifesto o dai pensieri latenti, donde le interpretazioni esclusivamente attuali e prospettiche;

– l’abolizione della pulsione sessuale rimpiazzata dalle motivazioni dell’Io;
– l’abolizione della nevrosi infantile rimpiazzata dai conflitti che attengono al presente;
– l’abolizione dell’inconscio istintuale, quale vis a tergo ancorata al corpo, rimpiazzato da un’idea di inconscio spirituale e simbolica.
Questi erano dunque per Freud “i funtori” della teoria psicoanalitica.
“Ma una volta abbandonate le teorie – aggiungeva – si rese indispensabile abbandonare totalmente anche il metodo d’osservazione e la tecnica analitica. Tali modifiche della psicoanalisi sono un corrispettivo del famoso coltello di Lichtenberg. Hanno tolto il manico e hanno sostituito la lama; e avendovi inciso la medesima marca, noi
dovremmo prendere questo coltello per quello precedente.” (S. Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico).
La teoria è il “manico” e il metodo è la “lama”: dal loro incardinamento deriva il coltello di Freud; dalla loro sottrazione, il coltello di Lichtenberg, ovvero l’evanescenza dell’intero strumento. Donde l’attuale dicotomia teorico-operativa che non solo rende possibile qualsiasi affermazione teorica, ma autorizza qualsiasi pratica clinica; per cui, come diceva Wallerstein, anything goes; ognuno può fare quel che gli pare e chiamarlo psicoanalisi.
E poiché, come dicevo, questa dicotomia fra teoria e clinica ricorre continuamente nei  nostri discorsi (e anche nei nostri programmi d’insegnamento), consentitemi di dire che trovo tale distinzione semplicemente priva di senso. Non esistono seminari teorici e seminari clinici; casomai esistono seminari su casi clinici, che sono sempre teorici e
clinici; perché la clinica è fin dall’inizio teoria e non esisterebbe senza questa.
Una teoria è come un faro, diceva Popper, ci fa vedere quelle cose che senza di essa non avremmo mai viste. E ci fa vedere quelle dimensioni delle cose che, pur essendo determinanti per la loro realtà, non possono essere viste. Il fotone ad esempio è una realtà che essendo all’origine della visione non può essere vista; l’inconscio è un altro
esempio – di quella realtà che essendo all’origine della coscienza non può essere cosciente. Entrambi possono essere “visti” solo grazie all’esistenza di una teoria che li preveda. La teoria dunque non è solo uno strumento concettuale, è uno strumento osservativo. Così, la realtà che come analisti indaghiamo, consiste tanto dei fenomeni psichici che osserviamo – ma più spesso desumiamo – quanto delle teorie che ci consentono di osservarli e desumerli. I criteri che consentono questa duplice apprensione costituiscono il metodo.
Il punto cruciale è quindi qual è il metodo; ovvero quali sono le regole che dobbiamo adoperare per osservare e comprendere le esperienze che facciamo in analisi.
Rinunziare a quelle regole ci espone invece al rischio di una pratica clinica immediata e “selvaggia”. E a me pare che l’idealizzazione della clinica tout-court quale luogo della verità dell’analisi, contribuisca alla divaricazione progressiva tra un campo di esperienze cliniche sempre più eterogenee e un apparato teorico sempre più destituito del compito di indagarne i livelli non manifesti; col risultato di ritrovarci nuovamente al ground zero della psicoanalisi e alla rinascita di una “psicologia dell’ovvio”: il soggetto della coscienza, il piano manifesto, il comportamento, i fatti, la relazione reale, il bambino e la madre reali: ovvero, capovolgendo Winnicott, dalla psicoanalisi alla pediatria. Donde il contemporaneo tradursi della psico-analisi in una psico-pedagogia.
C’è poi un altro pregiudizio, difficile da sradicare, in base al quale si ritiene che la teoria discenda dalla clinica. Ora, come ha esaurientemente mostrato Benjamin Rubinstein fin dagli anni settanta, tutti i concetti che adoperiamo nelle descrizioni cliniche – transfert, conflitto, identificazione, acting-out, difesa – sono concetti metapsicologici. E perfino il livello più particolare di descrizione, quello del resoconto della seduta, è una teoria; dal momento che è un ordinamento dei fatti, successivo all’esperienza dei fatti e inseparabile dalla loro selezione e interpretazione. Una
descrizione clinica è solo una teoria particolare e in quanto tale discende da una teoria più generale e non direttamente dai fatti. Come aveva ben spiegato Freud: “Già nel corso di una descrizione non si può evitare di applicare al materiale determinate idee astratte, le quali sono ricavate da un’altra parte e certo non solo dalla nuova esperienza (…) semmai esse rinviano al materiale dell’esperienza dal quale sembrano ricavate, ma che in realtà viene ad esse assoggettato.” (S. Freud, Pulsioni e loro destini ) In altri termini, la clinica della quale possiamo parlare non esiste se non come un livello intermedio della teoria, che rinvia da un lato ad altri livelli teorici e dall’altro al livello immediato dell’esperienza; e perciò, anche da questo punto di vista, ogni concezione intesa ad assegnare un primato alla teoria o alla clinica è semplicemente priva di senso.
A questo punto dovrebbero essere sufficientemente chiare due cose:

a) che Teoria e Clinica costituiscono un unico sistema incardinato dal Metodo;
b) che il Metodo non è la Tecnica.
Come già anticipato dalla citazione del ‘14, per Freud essi vanno infatti distinti: il primo, il “metodo osservativo”, è il dispositivo per condurre l’esplorazione dell’inconscio; la seconda, la “tecnica analitica”, è il dispositivo per condurre il
trattamento. Per questa ragione le libere associazioni, in quanto sono lo strumento osservativo fondamentale della psicoanalisi, contraddistinguono il metodo psicoanalitico; mentre il setting, l’interpretazione, l’analisi del transfert, fanno parte della tecnica. E questo ha implicazioni importanti per il nostro discorso, poiché ci permette di distinguere ciò che, appartenendo al metodo psicoanalitico, è da considerare invariante; da ciò che appartenendo alle procedure operative, può essere soggetto a variazione. Con una sola limitazione che discende dallo Junktim: le variazioni devono
essere compatibili con la teoria e con il metodo. Quando apportiamo dei cambiamenti alla tecnica dobbiamo perciò domandarci non solo se sono utili, o anche opportuni; ma se sono o meno compatibili con ciò su cui si fonda e la sottende. Stabilire quali siano gli uni e quali gli altri è dunque il compito che dovremmo porci; invece che, come abitualmente facciamo, affidarci a criteri meramente pragmatici.
Un esempio è il modo in cui viene affrontata la questione dei cambiamenti del setting;dai cui parametri – la stanza d’analisi, la postura fisica, la frequenza delle sedute, la deprivazione motoria e sensoriale, la comunicazione verbale, la sospensione del giudizio, l’astinenza dai rapporti personali e da condotte suggestive e direttive – risulta uno specifico dispositivo operativo, correlato allo scopo che quel dispositivo vuole raggiungere: l’emergenza dei processi e contenuti inconsci. Che accade allora se cambiamo il dispositivo? Le analisi sans divan, i trattamenti familiari o nelle istituzioni, i trattamenti a una seduta settimanale – e sono già in atto le tappe successive, la mailanalysis, la phone-analysis, la skype-analysis. Quali processi e oggetti ci aspettiamo di incontrare in questi setting osservativi? Perché almeno una cosa dovrebbe essere evidente: che ne risulteranno inevitabilmente osservazioni cliniche diverse; e queste influenzeranno la natura delle nostre spiegazioni e delle nostre teorie.
Certo, i pazienti cambiano, il mondo cambia, la cultura cambia, e gli analisti devono pur sopravvivere. Ma anche la psicoanalisi deve sopravvivere perché possano sopravvivere degli “psicoanalisti”. Come si affronta invece solitamente la questione? Con la negazione delle differenze: non importa se le sedute sono quattro o una; o se sono fatte al telefono, purché dall’altra parte ci sia un analista – come se l’analisi fosse un’entità mistica che sta nella mente dell’analista improntando col suo crisma qualsiasi cosa faccia: “made in SPI”, come “made in England”. Perché allora non prendiamo gli antibiotici ogni otto giorni invece che ogni otto ore, o non li prendiamo per telefono? “Questo è idealismo, Signori!”,
avrebbe detto Freud.
Conoscete la storia degli “occhiali di Berkeley”? Dunque, il reverendo Berkeley raccontò un giorno ai suoi studenti che molti anni prima gli si era rotta la montatura degli occhiali e perciò aveva dovuto sostituirla. Successivamente, a causa del peggioramento della vista aveva dovuto sostituire anche le lenti, e di conseguenza i cerchi. Eppure quelli che adesso inforcava erano per lui sempre gli stessi occhiali; anche se non un solo pezzo di essi era rimasto uguale nel tempo. Dunque? Dunque gli occhiali erano per Berkeley l’idea degli occhiali. E se la psicoanalisi fosse l’idea della
psicoanalisi saremmo a posto.
Ma cosa potrebbe fermare allora, nella realtà, quel conto alla rovescia che sembra inarrestabile? Cinque sedute, quattro sedute, tre, due, una… zero! Fino al foglio completamente bianco di Lichtenberg.
Di fatto, l’atteggiamento pragmatico non ci fornisce alcun criterio in base al quale decidere. Un’altra prova che non è possibile definire alcuna regola tecnica senza far riferimento a quale sia l’idea di processo che vi sottende; o, il che è lo stesso, a quali siano il metodo e la teoria della cura.
La domanda quindi è: quali sono le condizioni necessarie all’esercizio del metodo analitico? Se, ad esempio pensiamo, come io penso, che tre sedute settimanali siano una condizione non ottimale, ma non incompatibile con l’esercizio del metodo; mentre la contemporanea presenza dell’analista e del paziente nella stanza d’analisi ne sia una condizione necessaria, un assioma del metodo – l’analisi è un processo che si svolge in presenza dell’oggetto – considereremo il numero delle sedute una variabile dipendente, che ammette delle variazioni controllate; mentre assumeremo come invariante la regola che il paziente deve essere fisicamente presente; e escluderemo perciò di considerare
psicoanalisi una relazione che ha come interlocutori due “avatar”. Personalmente, come ho detto al nostro ultimo congresso, preferisco confidare piuttosto che i progressi della fisica rendano possibile il teletrasporto.
Mi auguro a questo punto di aver chiarito anche che:
c) la Tecnica non è indipendente dal Metodo, né dalla Teoria che la sottende.
d) è alla Teoria e al Metodo che appartengono i funtori della trasformazione psicoanalitica, che ne costituiscono gli invarianti.
E poiché oggi ci occupiamo del metodo, dobbiamo dire quali sono i funtori del metodo. Ho detto che il metodo è lo strumento osservativo ideato da Freud per esplorare l’inconscio. In questa prospettiva il suo compito è analogo a quello che svolge in ogni scienza, poiché il presupposto di ogni scienza è che la realtà che ci appare è il risultato di un’altra realtà che non ci appare, ma che la fa essere quale è. Il compito è dunque di indagare i livelli non immediatamente evidenti degli oggetti che si presentano all’osservazione; e per far questo c’è bisogno di un metodo che consenta di penetrare l’apparenza dei fatti per scoprire ciò di cui sono “fatti”.
Quali sono allora i funtori del nostro metodo? Sono essenzialmente due (più, come vedremo, un terzo).
Il primo lo rileva dal sogno. E’ dal sogno che nacque l’invenzione del metodo.
Fu questo, come scrive Corrao, il grande salto epistemologico operato da Freud: “usare il sogno, prodotto mentale di scarto rispetto alla razionalità conoscitiva, come metodo investigativo adeguato per esplorare l’inconscio. In tal modo Freud ha ribaltato il rapporto fra inconscio e sogno, istituendo contemporaneamente un’articolazione tra i
due. Assegnando inoltre al sogno il valore di struttura operativa ne ha fatto uso quale modello di funzionamento dell’inconscio psichico”. (F. Corrao, Il senso dell’analisi) Come esplicita la seguente affermazione di Freud: “Lo studio del lavoro onirico ci consente di apprendere quali sono le leggi che governano il decorso dei processi inconsci e in cosa esse si differenziano dalle leggi del pensiero cosciente”. (S. Freud, L’interpretazione dei sogni) Per questo, fino alla fine della sua vita, Freud si ritenne fiero di aver trovato nel sogno “la via regia”, il metha-odòs, per l’accesso all’inconscio. Quel metodo coincideva con la possibilità di sottrarre l’inconscio alla sua indeterminazione e di farne l’oggetto di una
ricognizione sistematica guidata da un preciso protocollo operativo. In tal modo egli rompe con le indicazioni dell’introspezione, del sens intime; non si muove più in parallelo con i pensieri manifesti, i contenuti e i sentimenti presenti alla coscienza; ma li scompone in processi che rinviano a un altro modo di discorso di cui è possibile
conoscere le regole.
E’ l’incipit del VI capitolo della Traumdeutung: “Tutti i precedenti tentativi di risolveremi problemi del sogno si rifacevano direttamente al contenuto onirico manifesto e si sforzavano di ricavare da questo l’interpretazione del sogno. Noi siamo i soli – e lo siamo tuttora, perché solo gli psicoanalisti interpretano i sogni (quando ancora li
interpretano) – a trovarci di fronte ad una situazione diversa; per noi, fra il contenuto del sogno e i risultati della nostra osservazione si inserisce un nuovo materiale psichico: il contenuto latente o i pensieri del sogno, ottenuti per mezzo del nostro metodo. Da questo contenuto, e non da quello manifesto, veniamo sviluppando la soluzione del sogno.” Il metodo al quale si riferisce Freud è quello delle libere associazioni. Sono queste dunque il primo funtore del metodo. Ci tornerò tra poco. Perché prima c’è un’altra affermazione che voglio sottolineare: “Veniamo sviluppando dal contenuto latente la soluzione del sogno”, dice Freud; il che vuol dire che il contenuto latente non è ancora la soluzione del sogno. Anzi, “per quanto possano essere importanti gli enigmi che si nascondono nei pensieri del sogno, essi non hanno tuttavia alcun rapporto col sogno (…) I pensieri del sogno appartengono al pensiero latente, sono dello stesso tipo del pensiero cosciente” (sono cioè pre-consci).
E nel 1925 aggiunge una nota importante: “Una volta trovavo straordinariamente difficile abituare i lettori alla distinzione fra contenuto onirico manifesto e pensieri del sogno. Ora che, perlomeno gli analisti, si sono abituati a sostituire al sogno manifesto il suo significato rintracciato mediante l’analisi, alcuni di loro si rendono colpevoli di un
altro equivoco, al quale sono legati con non minore tenacia. Essi cercano l’essenza del sogno nel contenuto latente e trascurano perciò la differenza esistente tra i pensieri latenti del sogno e il lavoro onirico. Il sogno altro non è che una forma del nostro pensiero”. E sopra, nel testo, dice di quale forma si tratta: di “un tipo di pensiero qualitativamente del tutto diverso dal pensiero cosciente e perciò non confrontabile con esso. Non ragiona, non calcola, non giudica affatto, ma si limita a trasformare (Umzuformen)”. Contenuto latente e contenuto manifesto stanno allora davanti a noi
come “due esposizioni in due lingue diverse di cui dobbiamo imparare a conoscere i caratteri e le regole sintattiche.”
Come ho detto altre volte, io penso che la descrizione dettagliata da parte di Freud delle regole di questo pensiero – le regole di funzionamento del processo primario – sia una delle più importanti acquisizioni della psicoanalisi; poiché è grazie ad essa che poté costituirsi come un metodo operativo per l’osservazione dei processi psichici inconsci
attraverso i loro derivati coscienti.
La Traum-deutung, il lavoro dell’analisi, è il reciproco del Traum-arbeit, del lavoro del sogno, in quanto consiste in un procedimento simmetrico e reciproco: trasformazioni dall’inconscio al conscio da parte del sogno, riconduzioni dal conscio all’inconscio da parte dell’analisi.
Mi piacerebbe ripercorrere nel dettaglio queste regole di trasformazione – lo spostamento del contenuto rappresentativo e affettivo, la condensazione di oggetti e parti, la contaminazione di parole e di cose, la neutralizzazione degli affetti, la trasformazione nel contrario, la compatibilità dei contrari, l’assenza di negazione,
l’equivalenza della parte con il tutto, l’ubiquità spaziale, la bidirezionalità logica e temporale (…). Non posso farlo nello spazio di questa lezione, vi invito però a studiarle e a mantenerle alla vostra (dis)attenzione mentre ascoltate i vostri pazienti, perché ne riceverete un aiuto potente per il lavoro di insight e di interpretazione – non solo dei
sogni, ma delle fantasie, dei lapsus, del linguaggio, dei sintomi; ovvero di tutte le espressioni coscienti che la psicoanalisi assume come rappresentazioni di contenuti originati altrove.
E’ questo l’unico postulato che Freud pose come irrinunciabile per la psicoanalisi: “Il diventare cosciente è per noi un particolare atto psichico, indipendente e distinto dal processo di formazione del contenuto ideativo. La coscienza ci appare come un organo di senso che percepisce un contenuto che è stato generato altrove (…) di questo postulato fondamentale non possiamo assolutamente fare a meno.” (S. Freud, L’interpretazione dei sogni).
Non dovremmo quindi perderlo di vista nel nostro lavoro quotidiano, quando  continuamente il discorso manifesto e la realtà dei fatti rischiano di sottomettere la nostra mente alla loro accecante evidenza.
Poiché è da molti anni che faccio questo mestiere, posso testimoniare di aver assistito alla progressiva emarginazione del sogno da quel posto di “via regia” che originariamente occupava nella pratica clinica. E ciò in un modo alquanto singolare: la teoria del sogno non è stata – come sarebbe stato pur lecito – confutata e rimpiazzata da un’altra diversa e migliore; ma è stata semplicemente abbandonata, dando luogo a una pratica clinica che del sogno sembra non sapere più niente. Sto parlando dell’analisi dei sogni, e non del fatto che alcuni sogni siano occasionalmente presenti nei resoconti di sedute, il più delle volte non interpretati e utilizzati come semplici metafore, o analogie della relazione; se non anche come “riflessioni”, come dice Fonagy, riducendo il sogno al suo contenuto manifesto.(1)

E potremmo anche non rifiutare pregiudizialmente quest’idea dell’attività riflessiva del sogno, se l’autore ci spiegasse come possa accordarsi con la teoria del sogno, in base alla quale esso è espressione di un tipo di pensiero che per definizione “non riflette”.
Infatti questa visione del sogno era stata ripetutamente rigettata da Freud: “Se si prescinde dal contributo inconscio alla formazione del sogno e lo si riduce ai suoi pensieri latenti o manifesti, allora è ovvio che esso può rappresentare tutto ciò di cui si occupa anche la vita vigile: come una riflessione, un ammonimento, un proponimento”.
(S. Freud, Psicoanalisi, 1922).
Come si vede, prima che clinica, l’incompatibilità è logica: l’affermazione di Freud e quella di Fonagy sono logicamente contraddittorie; e pertanto non possono coesistere nell’ambito di una stessa teoria: o è vera l’una o è vera l’altra; e nel secondo caso si renderebbe necessaria una nuova teoria che la giustifichi. Ma di quale sia questa nuova teoria non c’è traccia.
E potremmo chiederci cosa rimane in concezioni come questa di quel postulato della psicoanalisi che Freud riteneva irrinunciabile. Sogno e inconscio sono legati a uno stesso filo e a uno stesso destino: l’uno è la via per l’altro.
Quando ero giovane mi appassionai della scrittura egizia; il cui mistero venne svelato solo quando si comprese che quei segni erano polivalenti e assumevano significati diversi in base a regole sintattiche. Un geroglifico, ad esempio, in cui compare la figura di un uomo con in mano una falce, può rappresentare una stagione dell’anno, l’estate; o
un concetto, l’abbondanza; mentre, se è seguito da una testa di cane, significa “morte”.
Ma lo stesso segno può rappresentare anche un simbolo fonetico, o un operatore logico muto, deputato a disambiguare il testo successivo: ad esempio, “si tratta del rendiconto di un raccolto”. Una sola cosa è esclusa: che rappresenti proprio un agricoltore con la sua falce in mano.
Come parrebbe invece dalle interpretazioni date a questi sogni, che traggo dalla nostra letteratura recente:
La casa rettangolare “Stanotte ho fatto un sogno. Ero in una casa, c’erano lavori in corso. Veniva sostituita la
vecchia carta da parati con una più moderna, che a me non piaceva. La stanza era rettangolare e tutta la casa era rettangolare, poco articolata, con le stanze tutte in fila.”
L’analista interpreta: il lavoro in corso è il lavoro analitico. La casa rettangolare con le stanze in fila è il pensiero del paziente, rigido e poco articolato, che lui porta in analisi con la speranza di acquisire un nuovo modo di pensare.
Questo breve resoconto costituisce un esempio di come, secondo il metodo psicoanalitico, non si dovrebbe trattare un sogno:
– l’interpretazione è condotta unicamente sul testo manifesto del sogno, assunto en masse e senza associazioni.
– le immagini oniriche sono spogliate di valore simbolico e utilizzate come metafore; dell’analisi e del pensiero del paziente (“rigido”, dal momento che le stanze del sogno sono tutte in fila !);
– al sogno viene attribuito un significato anagogico; per cui esprimerebbe una sorta di auspicio circa gli effetti benefici che ci si attendono dall’analisi.
Così adesso sappiamo cosa desidera l’analista. Non sapremo mai invece cosa desideravano quel paziente e quel sogno.
Un caso più fortunato: I tre elefantini “Davo da mangiare a tre piccoli elefantini nella mia cucina. Era un compito difficile trovare il cibo adatto, erano difficili da saziare. Ma io gli davo tanti fagiolini, e li mangiavano con gusto.”
E l’analista subito interpreta: i tre elefantini sono le tre sedute, con le quali vuole soddisfare le sue parti infantili avide e insaziabili, invece che servirsi dell’analisi per curarle.
Se non che dopo un po’ la paziente racconta: “Ieri sera tornando a casa ho trovato il solito clima pesante: mio marito sul divano davanti al televisore, mia figlia piccola con la febbre a 39 e l’altra che ancora doveva finire i compiti. Mi sono detta, stasera se ne occupa lui delle sue figlie, li ho lasciati a casa e me ne sono andata a mangiare fuori con le mie amiche.”
Così, malgré l’analyste, stavolta sappiamo chi potrebbero essere i tre ‘elefantini pesantini’. Ma non vuol dire che con questo avremmo completato l’interpretazione del sogno. Freud direbbe che adesso conosciamo il testo latente, ovvero di quali pensieri diurni si è avvalsa la formazione del sogno; e magari domanderebbe alla paziente: “e i fagiolini”?
Un’altra regola aurea dell’interpretazione dei sogni: le diable est dans le détail. Come ogni conoscenza che non si accontenta di ciò che già sta sotto gli occhi.
Perciò, quando analizzate un paziente, un’espressione verbale, un’immagine, un sogno, non vi fermate al latente.
Riassumendo: i livelli considerati dal metodo interpretativo sono tre,

(a) Contenuto manifesto
|
(b) Pensieri latenti [preconsci]
|
(c) Contenuto inconscio
Ma il passaggio dall’uno all’altro comporta per l’analisi compiti diversi:
– il primo, da a a b, richiede un lavoro di amplificazione, di contaminazione del testo manifesto con le associazioni del paziente, fino a costruire una sorta di intertesto – apparentemente molto più esteso e caotico – al quale contribuiscono anche le associazioni dell’analista e la sua rêverie;
– il secondo, da b a c, richiede un lavoro inverso di interpretazione, di riduzione dall’intertesto al significato del testo – lavoro al quale contribuiscono le regole del lavoro del sogno e le teorie dell’analista.
Pertanto egli deve, da un lato, disporre la sua mente ad accogliere tutti i contenuti ideativi e affetti provenienti dalla personalità del sognatore, consentendo ad essi di invadere la sua immaginazione ed entrare a far parte del suo pensiero – la rêverie è funzione della madre, implica lo sfumarsi della distinzione tra soggetto e oggetto;
dall’altro deve disporsi in modo complementare al primo, adoperando gli elementi raccolti come segni o indizi, per giungere alla scoperta del significato. E per far questo deve anche ristabilire una certa distanza dal paziente e dai suoi oggetti. Diremmo perciò che si comporta non più come una madre, quanto come un ricercatore o un
investigatore. Il pensiero associativo-sognante (dream-like) e il pensiero investigativodifferenziante (awake-like) sono gli estremi di uno spettro mentale che dovremmo mantenere il più ampio possibile.
C’è un secondo senso allora in cui il sogno istituisce il metodo dell’analisi: non solo in quanto fonte di conoscenza delle regole del pensiero inconscio; ma anche in quanto fonte del tipo di pensiero che è richiesto all’analista per conoscerlo.
Scrive Corrao: “Le regole fondamentali della tecnica analitica – le libere associazioni e l’attenzione fluttuante – sono isomorfe alle regole del lavoro onirico: hanno lo scopo di sottrarre il flusso del pensiero alle trasformazioni operate dal processo secondario: all’interesse, all’intenzionalità, all’organizzazione di senso già data.
In altri termini, le regole del metodo consistono nell’esercizio del tipo di pensiero che è proprio del sogno, pensiero metodologicamente salutare, poiché assume, rovesciandole, le elaborazioni secondarie e le coperture o i camuffamenti dell’intelletto, permettendo che si sviluppino altre reti di significazione. (…) Il paradosso quindi è: ciò che distrugge
il buon senso come senso unico, ciò che distrugge il senso comune come assegnazione di identità fisse; la riorganizzazione mobile delle identità soggettive e la riacquisizione del loro senso, è l’evento principale della vicenda analitica, che implicitamente le restituisce il suo senso.” (F. Corrao, Il senso dell’analisi) Il metodo analitico assolve, in questa prospettiva, la funzione specifica di strumento operativo per la messa in crisi del piano fenomenico della coscienza, in quanto sistema “interamente intessuto di falsi nessi” (Freud). Non un sistema da “decodificare”, quindi,
ma da “disingannare”, interrompere e rompere, in modo da rendere accessibili i nessi soggiacenti. Questa attività decostruttiva è il secondo funtore del metodo.
Il concetto è affermato lapidariamente da Freud in una lettera a Lou Salomé: “La differenza principale tra il mio metodo e il suo, è che il mio è di dividere le cose, il suo di unirle”. Ma è in Vie della terapia psicoanalitica (di nuovo la “via”) che lo spiega: “Il termine analisi significa scomposizione, dissezione; e pone un’analogia con il lavoro che il chimico compie sulle sostanze complesse che porta nel suo laboratorio per isolarne gli elementi. In un punto importante, una tale analogia esiste davvero… ci comportiamo cioè come il chimico, il quale isola la sostanza semplice, o «elemento»
chimico, dal sale in cui è diventata irriconoscibile essendo combinata con altri elementi.
(…) Orbene, questa legittima analogia tra la terapia psicoanalitica e il lavoro del chimico potrebbe sollecitarci a imprimere una nuova direzione alla nostra attività terapeutica. Abbiamo analizzato il malato, cioè abbiamo scomposto la sua attività psichica negli elementi che la costituiscono (…) a questo punto cosa c’è di più naturale dell’esigenza che il nostro aiuto si esprima anche nel far sì che questi stessi elementi si combinino in lui in un modo nuovo e migliore? Come sapete, questa esigenza è stata effettivamente avanzata… e si è instaurata la tendenza a spostare il peso dell’attività terapeutica su questa sintesi, che sarebbe una sorta di ripristino di ciò che era stato in certo qual modo distrutto dalla vivisezione. Eppure io non posso credere, Signori, che questa psico-sintesi rappresenti per noi un nuovo compito. Se volessi permettermi di essere tanto sincero da essere scortese, direi che si tratta di una frase senza senso… Una volta che siamo riusciti a scomporre un sintomo, a liberare un moto pulsionale da un determinato contesto, esso non resta isolato, ma entra subito in un contesto nuovo.“
(S. Freud, Vie della terapia psicoanalitica).
C’è un punto perciò in cui la metafora chimica deve arrestarsi. Compito dell’analisi è la scomposizione. Di quale debba essere la nuova aggregazione essa non si occupa affatto. L’analisi non vuole produrre alcunché. Che non vuol dire che non produca nulla; ma che non vuole dirigere la trasformazione in funzione di uno scopo superiore, di un’ideale, di un’aspirazione, o di un desiderio (incluso il desiderio di curare).
Non vuole e non può: “L’analista mette in moto un Auflosung Prozess, un processo di scioglimento… ma questo, una volta avviato, va per la sua strada e non si lascia prescrivere né la direzione, né la sequenza e la meta”. (S. Freud, Nuovi consigli sulla tecnica psicoanalitica).
In tal modo Freud sottraeva l’analisi non solo al dominio del pensiero intenzionato, ma anche a quello dell’agire intenzionato, al dominio dell’utile, dell’interesse e del giusto; assegnandole anche come terapia il medesimo obbiettivo che le aveva affidato come scienza: il riconoscimento disinteressato della realtà.
Perciò nulla di più distante dall’analisi del wishful thinking che attraversa ogni forma di psicoterapia direttiva, pedagogica e correttiva, con la loro predominanza di senso normativo e morale. Altrove, con un’altra ben nota metafora, Freud aveva distinto la psicoanalisi dalla psicoterapia, proprio in base alla definizione del metodo: il metodo
della psicoterapia è come quello della pittura, “a mo’ di porre”; il metodo dell’analisi è come quello della scultura, “a mo’ di levare”; come uno scalpello dunque, o come una sonda.
Alla domanda posta all’inizio, che cosa contraddistingue in modo specifico la nostra sonda, possiamo rispondere adesso che è il concorso dei suoi due funtori: il lavoro delle libere associazioni e il lavoro della scomposizione. Nessuno dei due può essere sottratto.
Ma devo almeno accennare a un terzo aspetto del metodo analitico, per il quale esso si differenzia maggiormente da quello delle altre scienze e che dipende dalla natura peculiare dei nostri oggetti: ossia dal fatto che essi sono in realtà due “soggetti”.
Il che richiede al metodo lo spostamento dell’osservazione dagli oggetti alle loro interazioni reciproche: non solo tra inconscio e conscio, ma anche tra intrapsichico e intersoggettivo, poiché è da entrambe queste dimensioni che dipende la trasformazione del mondo dei fatti in quello dei significati dei fatti.
Un fatto, dice Bion, non possiede in sé un significato, perché il significato è funzione della personalità, non del fatto. Il passaggio dall’esperienza dei fatti al significato dei fatti dipende dal lavoro di trasformazione psichico. Ma il lavoro di trasformazione psichico che avviene in un’analisi non dipende da un soggetto soltanto; è funzione della personalità del paziente e di quella dell’analista, delle loro emozioni e delle loro conoscenze; è il prodotto della trasformazione complessiva operata da entrambi.
Il terzo carattere distintivo del metodo è quindi che questo include come proprio funtore la personalità dell’analista, in quanto questa, insieme a quella del paziente, funge da strumento osservativo e da agente della trasformazione. Sulla nostra via, sul nostro metodo”, camminano due viandanti.
Il che differenzia il metodo analitico da qualsiasi pratica puramente ermeneutica o cognitiva. Noi non decostruiamo un oggetto o un testo, decostruiamo una persona – a partire dalla nostra stessa persona – ovvero quel gruppo solidale di identità e di significati che, esercitando un’egemonia sul mondo interiore, in parte lo falsificano e lo nascondono, in parte anche lo preservano dalla “catastrofe”. Ma questo, scrive Bion, é precisamente il rischio che bisogna affrontare ogni volta che si attraversa un cambiamento emotivo. Perciò nella stanza d’analisi dovrebbero esserci sempre due
persone piuttosto spaventate; altrimenti potremmo chiederci perché si stiano occupando di ciò che già sanno, e che sarebbe solo un modo per evitare l’impatto catastrofico con la loro verità.
Il discorso sul metodo ci porta così all’idea della cura e all’idea dell’analisi, come luogo deputato all’esperienza della verità di sé. Per cui il metodo non è solo una “via” di conoscenza; è un “attraversamento”, un oltrepassamento di quello spesso strato di difese, di angosce e di falsa coscienza, che impedisce di conoscere sé e di essere sé.
Grazie.

Per visualizzare la Lezione magistrale di Nando Riolo sul Metodo Psicoanalitico Clicca QUI

note

*Lectio magistralis tenuta agli analisti in formazione dell’Istituto di training della S.P.I. (Roma, 21 novembre 2015).

(1)
“Il paziente con disturbo di personalità portando all’analista i suoi sogni non sta portando impulsi
inaccettabili e rimossi, ma i suoi onesti tentativi di riflessione su se stesso. (…) Questi sogni non
richiedono di scavare nell’inconscio per trovare il vero significato; ma vengono meglio compresi a livello
manifesto.” P. Fonagy, M. Target, (2001), Dreams in the psychoanalytic understanding of personality
disorders.

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Fernando Riolo

Pubblicazioni (1972 – 2021)

1972        

L’esperienza della follia e la psichiatria istituzionale. “Il Pisani” Giornale di patologia nervosa e mentale. 1972, XCVI, 1-3

1976        

Sogno e funzione simbolica. Quadrangolo. 1976, III, 5

 1977        

Lo Spazio, la Scena, il Sogno. Quadrangolo. 1977, III

L’“agire” come linguaggio e rappresentazione. Rivista di Psicoanalisi. 1977, XXIV, 3

1979        

Sutura e Cesura. Note su comunicazione e linguaggio in psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi. 1979, XXV, 2

1980        

Sulla Fantasia. Rivista di Psicoanalisi. 1980, XXVI, 3

1981        

Il pensiero analitico tra verità e bugia. Rivista di Psicoanalisi. 1981, XXVII, 3-4

(Traduzione inglese: Truth, lying and analytic thought. Rivista di Psicoanalisi. 1981, XXVII, 3-4)

1982        

Memoria e coscienza. Rivista di Psicoanalisi. 1982, XXVIII, 3

1983        

Sogno e teoria della conoscenza in psicoanalisi. Rivista di Psicoanalisi. XXIX, 3

(Traduzione francese: Rêve et théorie de la conaissance en psychanalyse. Lire Bion. Edition Érés, 2006)

(Traduzione portoghese: Sonho e teoria do conhecimento em psicanàlise. Revista Brasileira de psicanàlise, 1995, 29, 1)

1986        

“Sul metodo”. Rivista di Psicoanalisi. Numero monografico, 1986, XXXII, 3

Il “Processo Analitico”: una revisione del modello. Rivista di Psicoanalisi. 1986, XXXII, 3

Dei soggetti del campo: un discorso sul “limite”. Gruppo e Funzione Analitica. 1986, VII, 3

1987        

“Proton pseudos”. Dal pensiero isterico al pensiero analitico. Rivista di Psicoanalisi. 1987, XXXIII, 3

1988        

Sul genere sessuale. III Colloquio di Palermo. Del genere sessuale (a cura di L. Russo, M. Vigneri), Borla, 1988.

1989        

Teoria delle trasformazioni. Tre seminari su Bion. Gruppo e Funzione Analitica. 1989, X, 2

1990        

La contraddizione sempre crescente. IV Colloquio di Palermo. Gruppo e Funzione Analitica. 1990, XI, 2

Un Common Ground per la psicoanalisi? Rivista di Psicoanalisi, 1990, XXXVI, 3

(Trad. inglese: Is there a Common Ground in Psychoanalysis? Rivista di Psicoanalisi, 1990, XXXVI, 3)

1991        

La teoria come dimensione dell’oggetto analitico. Rivista di Psicoanalisi. 1991, XXXVII, 1

(Trad. inglese: Theory as a Dimension of the Analytic Object. Rivista di Psicoanalisi, 1991, XXXVII, 1)

1993        

Ermeneutica e Interpretazione. In Psicoanalisi Futura (a cura di G. Di Chiara, C. Neri). Borla, 1993

1994        

Etica e psicoanalisi: dall’ultimo lavoro incompiuto di F. Corrao. Koinòs. 1994, XV, 1-2

The Ghost of the Machine. The Italian Journal of Psychiatry and Behavioural Sciences. 1994, IV, 2

1997        

Il modello di campo in psicoanalisi. In Emozione e Interpretazione (a cura di E. Gaburri). Torino, Bollati Boringhieri

1998        

Introduzione a “Orme. Contributi alla psicoanalisi di Francesco Corrao”, Vol.1. Milano, Cortina, 1998

Naufragio senza spettatori. Rivista di Psicoanalisi. 1998, XLIV, 2

1999        

Il paradigma della “cura”. Rivista di Psicoanalisi. 1999, XLV, 1

2000        

Afanisi dell’Inconscio. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi, 4, 2000

“L’altro che è in noi, ospite sconosciuto dei nostri sogni”. Pensare l’inconscio (a cura di F. Borrelli). Manifestolibri, Roma, 2001

Francesco Corrao: Il senso dell’analisi. Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi, 5, 2000

2002        

Analisi dei sogni (a cura di). VI Colloquio di Palermo. Franco Angeli, 2002

Si prega di chiudere gli occhi. In Analisi dei sogni, Franco Angeli, 2002

La trasformazione psicoanalitica. Rivista di psicoanalisi. 2002, XLVIII, 4

2004        

Quel Processus ?  Revue Française de Psychanalyse. 2004, 5

2005        

Le sujet et l’objet de la sublimation. Revue Française de Psychanalyse. 2005, 5 

Eidolopoiesis. Psiche, 2005, 2.

2006        

Freud e il coltello di Lichtenberg. Rivista di psicoanalisi. 2006, LII, 3.

(Trad. inglese: Freud and Lichtenberg’s knife. The Italian Psychoanalytic Annual, I – 2007)

Théorie des transformations. In Les voies nouvelles de la thérapeutique psychanalytique : Le Dédans et le Dehors. (Sous la direction de A.Green). 2006, Paris, P.U.F.

La porta del Regno di mezzo. Rivista di Psicoanalisi. 2006, LII, 4

Trasformazione: una voce di enciclopedia. Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (a cura di F.Barale, M.Bertani, V.Gallese, S.Mistura, A.Zamperini), Einaudi, Torino.

2007        

Ricordare, ripetere e rielaborare. Un lascito di Freud alla psicoanalisi futura. Rivista di Psicoanalisi. 2007, LIII

(Trad. Inglese):  Remembering, Repeating and Working-through: Freud’s legacy to the Psychoanalysis of the Future. The Italian Psychoanalytic Annual, II – 2008.)

Psychoanalytic Transformations. International Journal of Psychoanalysis, 2007, 88, 6, 1375-89.

(Trad. francese: Les Trasformations psychanalytiques. L’Année Psychanalytique Internationale, 2008.)

(Trad. ceca:  Psychoanalytické transformace. Revue Psychoanalytickà Psychoterapie Ceské, XV, 1, 2013.)

2008        

Break-through. Rivista di Psicoanalisi. 2008, LIV, 2

(Trad. inglese: Breakthrough. International Forum of Psychoanalysis. 2009, 18)

Identità: la giubba e il filo. Rivista di Psicoanalisi. 2008, LIV, 4

(Trad. inglese: Identity: The fool’s motley coat and the theread. The Italian Psychoanalytical Annual, III – 2009)

2009        

Lo statuto psicoanalitico di inconscio: prospettive attuali. Rivista di Psicoanalisi. 2009, LV, 1

(Trad. inglese: The psychoanalytic status of the term “unconscious”: a present-day perspective. The Italian Psychoanalytical Annual, IV, 2010)

2010        

Trasformazioni in allucinosi. Rivista di Psicoanalisi. 2010, LVI, 3

(Trad.  inglese: Transformations in hallucinosis. The Italian Psychoanalytical Annual, V – 2011)

(Trad. francese: Transformations en hallucinose. Revue Francaise de Psychanalyse, 2013, 77, 3.)

2016        

Trasformazioni Psicoanalitiche. In Il Pensiero Psicoanalitico Italiano, (a cura di F. Borgogno, A. Luchetti, L.M. Coe), Editore Franco Angeli, Milano, 2017.

(Trad. inglese: Psychoanalytic trasformations. Reading Italian Psychoanalysis, (edited by F. Borgogno, A. Luchetti and L.M. Coe), London, 2016.)

2017        

Il metodo Psicoanalitico. Notes per la psicoanalisi, 9/2017, Editore Alpes, Roma.

Del principio del piacere. Rivista di Psicoanalisi, 2017, LXIII, 3.

(Trad. inglese: On the pleasure principle. The Italian Psychoanalytic Annual, XII, 2018)

2018        

Il metodo psicoanalitico e i suoi funtori. In La cura psicoanalitica contemporanea, (a cura di T. Bastianini e A. Ferruta),   Fioriti Editore, Roma.

Metodologia della ricerca. Rivista di Psicoanalisi, 2018, LXIV, 2

(Trad. inglese: Research Methodology. The Italian Psychoanalytic Annual, XIII, 2019)

Le travail de la trasformation: de Freud à Bion. Revue Francaise de Psychanalyse, 2018, LXXXII, 5

2019        

Le correnti del sogno. In L’Interpretazione dei sogni. Dialoghi sulla tecnica psicoanalitica, (a cura di R. Musella e G. Trapanese), Editore Franco Angeli, Milano, 2019.

2020        

Il metodo psicoanalitico e i suoi funtori. Rivista di Psicoanalisi, 2020, LXVI, 3

2021        

Responsabilità. Intervista a Fernando Riolo di S. Nicasi.  Psiche, 2021, VIII, 11/20

Teorie psicoanalitiche a confronto. Un’indagine assiomatica. Rivista di Psicoanalisi, Numero monografico, 2021, LXVII, 4.

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