Cultura e Società

Anteprima Nazionale A Dangerous Method – Milano

3/10/11

di David
Cronenberg

 

Anteprima
Nazionale

Milano,
22 settembre 2011

Cinema
Anteo

 

Interventi
di Giuseppe Pelizzari, Anna Ferruta, Pietro Roberto Goisis, Rita Corsa

 

G.Pellizzari

 

Non è mia intenzione
entrare nel merito del film. Di questo parleranno gli  altri relatori.

Vorrei sottolineare
invece la grande differenza di "contesto" che si avverte tra gli
inizi della psicoanalisi, che ritroviamo nell’ambientazione ben accurata del
film, e la nostra attualità di spettatori.

Freud nel momento in
cui la nave che lo porta insieme ai suoi compagni d’avventura negli Stati Uniti
sta per entrare nel porto si chiede se gli americani si rendano conto che sta
per portare loro la peste. Perchè la peste?

Perchè indubbiamente
la psicoanalisi si poneva come qualcosa di scandaloso, di perturbante nei
confronti della società del tempo, forse più per l”ingessata Europa che per la
pragmatica America. Era davvero un "dangerous method", in primis per
gli analisti stessi come dimostra la vicenda del film.

Ma perchè tutto
questo pericolo, questo turbamento? La società del primo novecento che ha visto,
scandalizzata, i natali della psicoanalisi freudiana esprimeva il trionfo dei
valori borghesi prima della catastrofe bellica. Tali valori si fondavano su una
apparentemente solida supremazia paterna. Non a caso la figura del padre
compare nel film all’origine di tutti i conflitti patologici e drammatici che
descrive: il padre di Sabina, il padre di Gross, lo scontro edipico tra Freud e
Jung.

Il femminile resta sullo
sfondo anche se trova in Sabina un’eroina a sua volta perturbante (è il
femminile la "peste" della psicoanalisi?).

Vi è inoltre una
forte repressione della sessualità, in particolare quella femminile e quella
infantile. Figuriamoci quindi come poteva reagire un contesto simile davanti
alle teorie di Freud. Non a caso il film ci rammenta che il nascente movimento
psicoanalitico si sentiva "circondato da nemici".

Questa impronta
rivoluzionaria ha lungamente caratterizzato la psicoanalisi, suscitando reazioni
assai vivaci e polemiche infuocate.

Ma oggi? E’ difficile
pensare che sia ancora così. Ormai la psicoanalisi non suscita più alcuno
scandalo. E’ entrata nel linguaggio comune (tutti parlano di complessi edipici,
di Super Io, di inconscio quando non di "deficit di accudimento"). I
pazienti di un tempo ci appaiono come mitiche figure, eroi della psicoanalisi,
disposti ad andare in rovina pur di sdraiarsi sul lettino analitico; oggi si
cerca l’analista che sia comodo e vicino e si contratta con lui per strappare
il minor numero possibile di sedute settimanali. Una volta i pazienti in
analisi erano visti come figure bizzarre e conturbanti, oggi vi è un uso di
massa della psicoanalisi, spesso banalizzata e contraffatta nel supermercato
delle terapie cosiddette "analitiche" che sembrano aver perso
qualsiasi rapporto con quello che Freud aveva iniziato ad esplorare. Non è più
"dangerous" questo "method"?

Il fatto è che i
paradigmi su cui si fondava la società di Freud (il paternalismo e la
repressione sessuale) oggi non valgono più. La figura del padre padrone è ormai
tramontata da un pezzo e la sessualità lungi dall’essere repressa è al
contrario non solo esibita, ma imposta (le morbosità sessuali descritte nel
film ci fanno sorridere).

Questo comporta, a
mio parere, un rovesciamento anche del paradigma psicoanalitico. Se prima si
poteva articolare sulla promessa della liberazione delle pulsioni represse
dalle convenzioni borghesi, oggi che tali convenzioni appaiono sempre più
compromesse, deve articolarsi altrove se vuole ritrovare il suo spirito
rivoluzionario, se vuol essere ancora la peste.

In una società
caratterizzata dalla velocità, dal "tutto subito e nella maniera più
facile", dalla performance e dalla connessione mediatica, il richiamo ad
un tempo "altro" (il tempo e il ritmo dell’inconscio, il tempo della
memoria e delle sue intermittenze), ad una solitudine condivisa che diviene
"lavoro" (l’elaborazione dell’esperienza e del dolore), può ancora
risultare scandaloso. Proprio il cronico anacronismo del metodo psicoanalitico,
il suo non essere cioè al passo coi tempi può conservare uno spirito
rivoluzionario.

Un’ultima
osservazione. Oggi non siamo più circondati da "nemici" come ai tempi
eroici, ma circondati da "indifferenti" e questo rende il nostro compito
più difficile. Ciò che prevale non è la rimozione, ma qualcosa di più primitivo
ed arcaico, come, del resto si vede nelle nuove patologie narcisistiche.

 

A.Ferruta

 

La
psicoanalisi, soprattutto negli ultimi decenni, si è interessata al pensare per
immagini (Botella), al pensiero non verbale (Mancia, Racalbuto, Di Benedetto),
alla seduta come sogno (Ogden e Ferro), intesa come bioniana necessità di
sognare, trasformando elementi beta grezzi in immagini e rappresentazioni
pensabili.

Nella
produzione cinematografica si assiste ora a un ritorno di interesse per la
psicoanalisi, di cui un’icona potrebbe essere la scena della consegna appena
avvenuta a Venezia del Leone d’oro alla carriera da parte di Bertolucci (da Ultimo
tango a Parigi
a Dreamers) a Bellocchio (da I pugni in tasca a
Vincere ).

C’è
bisogno di psicoanalisi, di desiderio, di ‘altro’, di ‘sogno’, come
soggettività che non nega l’alterità, di legame e non solo di fusione o
soggezione a un Super Io sociale persecutorio. ‘Questa notte ho fatto un
sogno’,
diceva uno degli ultimi libri di Musatti.

Provo a
pensare al film di Cronenberg come al sogno di Cronenberg sull’attrito tra
forze opposte,
come afferma in una sequenza, rappresentato nel dialogo tra
Spielrein e Jung, inquadrati per due volte seduti insieme su una panchina,
finalmente sullo stesso piano, senza la sproporzione di percezioni reciproche
dall’alto in basso, davanti-dietro: come un coesistere senza rinunciare alla
forza dell’alterità dell’inconscio, senza spegnerla con l’ideologia o
l’adattamento o l’assoggettamento. Forse Cronenberg è stato attratto a mettere
in scena questa vicenda dal titolo del libro di Carotenuto  ‘Diario di una segreta Simmetria‘.
L’unione può deformare e distruggere. Come mantenere un posto per l’Io e per
l’altro, in una condizione di viva partecipazione e passione.

Si può
concordare con Cronenberg sul fatto che la psicoanalisi è un dangerous
method
: nessuno può entrare in contatto con gli abissi dell’inconscio in
modo brutale o freddo senza rischi per la propria integrità e individualità
psichica. Ma l’attrito degli opposti produce anche scontri tra forze, che,
pur  potenzialmente distruttive, creano
il nuovo.

L’elemento
sadico della pulsione sessuale secondo la Spielrein può distruggere l’altro:
nella sua tesi su Il contenuto psicologico di un caso di isteria parla
della paura del sesso nello psicotico come paura di disintegrazione, di perdere
se stessi. Ma nel film il personaggio Sabina mostra anche che lei non ne è
stata distrutta: è lei che fa conoscere Jung e Freud, e funziona da elemento di
congiunzione e da catalizzatore. Non ha paura, è in movimento: ‘fare qualcosa
di imperdonabile’ talvolta permette di potere vivere. Jung invece resta fermo,
come mostra l’inquadratura finale, con Sabina che corre in auto verso l’ignoto,
mentre lui è immobile nella bergère di vimini.

Nel film
sono continuamente sottolineati e accostati elementi di contrasto, di attrito
tra forze opposte: sessualità e repressione, Jung e Freud, Ebrei e cristiani,
donne e uomini, Colombo e Galileo, il guaritore ferito, misticismo e
comprendere e accettare il mondo, non sostituire un dio con un altro, coesistere.

La
Spielrein studia questo aspetto delle relazioni umane che si  dispiega in analisi: il contatto intimo tra
aree della psiche è pericoloso, ma può generare il nuovo. Richiede rispetto e
delicatezza e non abuso: studierà i bambini e la condizione del paziente grave,
regredito, inerme, esposto all’incontro 
con l’altro da sé, che può generare il nuovo, ma anche distruggere le
embrionali emozioni.

Si
poteva evitare la rottura tra Jung e Freud? Non sappiamo. La psicoanalisi è un dangerous
method
che richiede attenta e profonda formazione da parte degli
psicoanalisti; richiede anche un gruppo di colleghi con cui stare in contatto e
confrontarsi, perché le forze interne distruttive sono potenti.

La
Spielrein fu a lungo cancellata dalla storia della psicoanalisi, e ricordata
poi prevalentemente per il rapporto con Jung e non per il suo contributo come
pioniera della cura di pazienti gravi e bambini. Salvata dalla psicosi, fu
uccisa dai nazisti a Rostov. La storia si intreccia con l’inconscio: il sociale
la uccide, il pericolo esterno sottovalutato rispetto al pericolo interno la
annienta (non può credere che i tedeschi siano così distruttivi). Torna in
Russia, e viene spazzata via da Stalin che fa chiudere il suo asilo e dai
Nazisti che la sterminano con i cittadini ebrei raccolti nella sinagoga.

 

P.R.Goisis

 

Vista la pletora di
psicoanalisti sullo schermo, sul palco e in sala, cercherò di dire qualcosa
di  cinematografico, ovviamente senza
dimenticare di essere uno psicoanalista…

Saprete tutti che
questo non è il primo film su questa storia: 
nel 2002  uscì un film svedese di
E. Marton,  Il mio nome è Sabina
Spielrein,
un docu-fiction, nel 2003 
quello di Roberto Faenza,  Prendimi l’anima, centrato maggiormente
sulla figura di Sabina Spielrein e la sua storia d’amore con Gustav Jung.

In questo film mi pare
che David Cronenberg  compia una scelta
differente.

Intanto va detto che,
secondo me, il regista considera la psicoanalisi una sua sorta di compagno di
viaggio, sin dal tempo dei suoi esordi nell’horror, passando poi per il
Noir,  fino ad arrivare a intensi drammi
caratterizzati da forti componenti psicologiche.

A nostra volta possiamo
dire che il regista è anche un nostro compagno di viaggi, basti pensare a film
come La mosca, Gli inseparabili, Crash, Spider,  History of violence,  La promessa dell’assassino. Molti di
questi film sono stati protagonisti di approfondite e accanite discussioni
all’interno di cineforum e di rassegne sul rapporto fra cinema e psicoanalisi.
Sul sito della SPI esiste una bella recensione di Spider  ad opera di Franco de Masi.

A me piace sempre
cercare di capire cosa c’è dietro la costruzione di un film.

Questo film è stato
pensato da Cronenberg  fin dal 1995. È
tratto dal lavoro teatrale di Christopher Hampton, The talking cure, a
sua volta ispirato dal libro A most dangerous method dello psicologo
clinico americano John Kerr. Hampton ne ha curato, su richiesta del regista,
l’adattamento della sceneggiatura. Il produttore è Jeremy Thomas che ha
lavorato a lungo con Bertolucci.  Abbiamo
quindi un metodo di lavoro, anche questo tipico delle procedure
psicoanalitiche, caratterizzato dalla presenza di un gruppo fedele e affiatato
che si è dedicato a costumi, fotografia, musiche, scenografia, montaggio e
truccatore. In ognuno di questi campi è stata effettuata una meticolosa ricerca
e un grande studio applicativo. Si è arrivati a scoprire quale marca di sigari
usasse Freud, si  è studiata e riprodotta
la scrittura in tedesco che i protagonisti erano soliti usare (quell’abitudine
a scrivere lettere che mi ha fatto tanto pensare all’attuale uso delle mail…)

Ho letto e saputo
qualcosa a proposito del meticoloso lavoro di preparazione che gli attori hanno
messo in atto, con letture, confronti con psicoanalisti, confronti fra di loro,
confronti con il regista, visite e sopralluoghi che hanno portato alla completa
realizzazione del metodo della immedesimazione, concetto che è alla base di
gran parte della relazione psicoanalitica, considerato come uno dei precursori
e degli attivatori dell’empatia. Mi piace pensare a questo concetto come a un
ponte tra la psicoanalisi e il cinema o meglio ancora con il lavoro
dell’attore, laddove l’immedesimazione si situa alla base del metodo
Stanislavsky. È impressionante a questo proposito vedere la conferenza stampa
al festival di Venezia, nella quale Viggo Mortensen, che nel film  impersona Freud sembra parlare come uno
psicoanalista ad un congresso internazionale, dicendo queste parole: "Spero che
la famiglia Jung  si decida a mettere a
disposizione della comunità scientifica internazionale le lettere del carteggio
che sono ancora in loro possesso. Questo permetterebbe un grande progresso
nella conoscenza e nella riflessione sulla storia!"

Provo ora ad entrare
nel merito del film.

Chiaramente non
sappiamo perché Cronenberg abbia fatto questo film!

Qualcuno potrebbe
ragionevolmente dire:  cosa c’entra con
il suo cinema?

David Cronenberg  è stato ed è regista di straordinarie rappresentazioni
della complessità della mente e del suo 
funzionamento. In genere la strada che lui ha scelto per rappresentare
questa complessità è stata quasi sempre attraverso il corpo e nel corpo questo
conflitto e questo attrito è stato mostrato.

In questo film, secondo
me, il regista  è tornato prepotentemente
all’origine del suo percorso e della sua ricerca, è tornato direttamente alle
origini della mente e del suo funzionamento cercando di mostrarci il lavoro
delle menti… ovviamente senza dimenticare il corpo!

È quindi a mio avviso,
e profondamente, un film di Cronenberg!

E’ un dibattito di
idee, di scontri verbali, di contraddizioni e conflitti, di esseri umani che
cercano disperatamente di combattere con i mostri che scoprono avere dentro di
sé. È un film ricco di energia, con una potente forza evocativa resa possibile
attraverso una straordinaria recitazione. Credo che sia anche la
rappresentazione del sogno di un mondo diverso, rappresentato attraverso il
conflitto fra il bene e il male, temi assolutamente tipici del mondo
immaginifico di Cronenberg.

Certo è anche un film
molto freddo, a tratti eccessivamente cerebrale. Alcuni hanno detto, non senza
ragione, che si tratta di un film con assenza di emozioni. In parte sono
d’accordo, anche se il concetto di emozionarsi alla visione di un film è un
concetto estremamente soggettivo. Io continuo a pensare che quando vediamo un
film dove si parli di psicoanalisi, dobbiamo sempre ricordarci soprattutto che
stiamo guardando il film di quel regista e quindi la sua rappresentazione della
psicoanalisi o di qualcosa di psicoanalitico. Qualcuno direbbe che quello e’ il
sogno del regista, io preferisco dire che è la rappresentazione del
funzionamento mentale del regista su quel certo tema, dei suoi pensieri e delle
sue fantasie espresse attraverso delle immagini. Alla fine della proiezione di
un film quello che mi interessa è cercare di capire cosa il film e le immagini
hanno lasciato dentro di me, come se fosse il mio sogno, il funzionamento della
mia mente, o meglio ancora quello che io vedo in immagini che possono essere
paragonabili al mio rapporto con un test 
proiettivo, come il Rorschach.

Rispetto alla noia mi è
venuto da pensare che forse sia addirittura voluta e cercata, per lo meno
inconsciamente, che sia stata la rappresentazione di un tentativo di far essere
la psicoanalisi qualcosa di freddo, asettico, neutrale. Da molto tempo noi
abbiamo capito che quando cerchiamo di praticare la psicoanalisi con queste
modalità, non solo non riusciamo ad essere di aiuto ai nostri pazienti, ma
soprattutto rischiamo di uscire dai dai confini… davvero un dangerous method…

Chiarito questo aspetto
più strettamente cinematografico, cercherò ora di tornare a fare lo
psicoanalista…

Vorrei quindi
raccontare le cose che mi hanno colpito. 

Sono tanti temi che
andrebbero trattati:

  • l’umiliazione, di cui Sabina parla fin dl primo
    incontro con Jung
  • l’ebraismo, presente nelle parole di Freud e in
    quelle di Sabina
  • il diverso modo di praticare la psicoanalisi e il
    diverso impatto, anche se sempre rivoluzionario,
    che ha avuto allora sul mondo del 1900 e che ha oggi nel 2000
  • l’etica della relazione terapeutica
  • la relazione "amorosa" dentro la relazione,
    tenendo sempre a mente la fondamentale distinzione fra i pensieri amorosi e le azioni
  • la battaglia tra Freud e Jung a proposito
    dell’allargamento del campo di interesse e indagine della psicoanalisi
    (timoroso il primo, desideroso il secondo).

 Su altri due temi vorrei però fermarmi:

  1.              quella che viene mostrata sembra essere
    la psicoanalisi dei padri;  sono
    loro i protagonisti, i responsabili di ciò che accade e gli agenti
    patogeni delle sofferenze altrui. Il padre di Sabina, il padre di Otto, il
    mandato paterno di Freud su Jung, l’attesa quasi messianica di un figlio
    maschio. Le madri sembrano essere quasi ininfluenti.
  2.             Le donne poi, la
    moglie di Jung in primo luogo che sembra essere il suo vero contenitore,
    oggetto e ambiente di cura.  Sabina
    infine, che appare catalizzatrice, attivatrice e generatrice
    dell’incontro  tra Freud e Jung  e quindi della stessa psicoanalisi. Lei,
    che rischiava di essere stritolata all’interno delle dinamiche
    conflittuali dei due uomini, sembra essere quella che trova un suo
    assetto, forse mostrato in modo fin troppo ottimistico nel film.

E infine vorrei
concludere con tre immagini psicocinematografiche.

La prima  riguarda il modo con il quale  Sabina entra ed esce dal film. Ricorderete
tutti che il suo ingresso nel 1904 avviene su una carrozza, trasportata di
forza e a braccia dentro la clinica, disperata e angosciata. Mi ha colpito e mi
sembra significativo che invece esca dal film in automobile, in realtà sono
passati solo nove anni, è il 1913; è ancora piangente e sofferente, ma mi
sembra più dignitosa e presente a se stessa. Jung  nel primo caso si suppone che sia dentro la
clinica ad aspettarla, nel secondo rimane seduto su una poltrona in riva al
lago, immobile e statico. Sabina riprende il suo viaggio, così non sembra per
Jung.

La seconda immagine,
nella finzione cinematografica di David Cronenmberg, viene mostrata per due
volte in un rapporto erotico caratterizzato da percosse sul sedere. Nella prima
rappresentazione Sabina raggiunge in maniera evidente uno stato orgasmico,
mentre nella seconda, quando già il rapporto con Jung è alla fine, non mi pare
che raggiunga alcun orgasmo o eccitamento. Questa ipotesi mi ha fatto pensare
al superamento di uno stato post traumatico.

La terza immagine
appartiene ai primi momenti del film, quando Sabina e Jung iniziano, dopo la
prima seduta in stanza, la vera e propria "cura delle parole".  Il regista ce li mostra mentre camminano nei
giardini della clinica. Sappiamo bene che la questione del "dentro e fuori",
realtà interna o esterna, è una vicenda antica nella psicoanalisi, così come il
"vicini e lontani" ben rappresentato dai due visi che sembrano, nella
soggettiva dell’analista, avvicinarsi troppo l’uno all’altro. Nel prosieguo del
colloquio i due camminano attraversando sentieri e  ponticelli. È troppo azzardato pensare che
quella sia la rappresentazione del percorso che sta iniziando verso un nuovo,
tuttora sconosciuto e ignoto, ma che richiede l’attraversamento cauto e
necessario di ponti tra un passato, un presente e un futuro?

Quelli che ogni giorno
ci troviamo a percorrere e a attraversare con i nostri pazienti.

 

R.Corsa

 

A Dangerous Method,.. Ovvero il naso di Cleopatra

 

«Stimatissimo
professore,

[…].  Auguriamoci che in futuro la Sua comunità
scientifica continui ad ampliarsi, malgrado gli attacchi che, tra il plauso
delle autorità, Aschaffenburg ha sferrato contro la Sua teoria, si sarebbe
quasi tentati di dire: contro la Sua persona» 
(Jung→ Freud, 5 ottobre 1906; in McGuire, 1974,  4).

Queste righe sono tratte dalla
missiva di Carl Gustav Jung scritta in risposta alla prima lettera inviatagli
da Sigmund Freud, che inaugura il loro celeberrimo epistolario.

Com’è ben noto, il carteggio tra
i due grandi uomini inizia l’undici aprile del 1906, quando Freud manda una
breve epistola di ringraziamento a Jung, che l’aveva omaggiato della sua ultima
fatica, Psicoanalisi ed esperimento
associativo
(1906b), e del lavoro precedente, Studi diagnostici sull’associazione (1906a). Freud termina la
concisa comunicazione con un trepidante augurio rivolto al giovane collega: «Sono
fiducioso che Lei si troverà ancora spesso nella condizione di confermare le
mie idee e d’altra parte mi lascerò correggere volentieri» (F.→J.,  11 aprile 1906; in McGuire, 1974,  3). 

Ma già nel settembre del 1905
Jung aveva tentato di mettersi in contatto con 
lo "stimato professore" 
attraverso la madre di Sabina Spielrein, alla quale aveva affidato una
circostanziata relazione clinico-psichiatrica 
sulla figlia,  con l’intento di
ottenere un eventuale consulto e una nuova presa in cura da parte del Maestro
viennese:

            «Stimato Professore,

la
figlia della signora Spielrein, la signorina Sabina Spielrein, studentessa di
medicina, soffre di isteria. (…)  La
paziente soffre di notevole debolezza ereditaria, poiché sia il padre che la
madre sono isterici, e  soprattutto la
madre. Un fratello della paziente ha sofferto di grave isteria fin dalla prima
infanzia.  La paziente ha quasi  20 anni e la malattia è comparsa con
chiarezza circa tre anni fa. Ma naturalmente le sue esperienze patologiche
risalgono a molto prima, alla prima infanzia. Seguendo il Suo metodo ho
analizzato accuratamente nel suo complesso la situazione clinica con buoni
risultati fin dall’inizio»   (relazione
di Jung a Freud del 25 settembre 1905; in Minder, 2007,  241) (1).

Lo psichiatra svizzero continua
con una minuziosa descrizione dei sintomi manifestati dalla fanciulla, delle
associazioni presentate durante il trattamento e della fausta evoluzione del
quadro clinico, per  poi concludere:

«Durante
la terapia la paziente ha avuto la sventura di innamorarsi di me. Vaneggia
ostentatamente del suo amore con la madre, e pare giocare una parte non
secondaria una certa gioia segreta e perversa davanti allo sgomento della
madre. Pertanto in questa situazione tormentosa la madre ha espresso il
desiderio, se se ne presenta la necessità, di portarla altrove per la terapia,
con il che io sono naturalmente d’accordo» (ibidem, 243).

La madre  di Sabina, benedetta donna (!),  non porterà la figliola a Vienna e non farà
mai pervenire a Freud queste righe. Così la ragazza seguiterà a frequentare
"con finalità curative" il suo amato terapeuta. 

Si può  ipotizzare in tono sfumatamente fatalistico
che, se quel resoconto clinico fosse giunto nelle mani di Freud, forse tanti
eventi che hanno segnato l’età pionieristica della psicoanalisi si sarebbero
svolti diversamente. E, con ogni probabilità, il rapporto amoroso  tra Sabina e Carl Gustav non avrebbe superato
i confini deontologici e sarebbe rimasto il classico innamoramento di una
paziente isterica nei confronti del suo medico curante (fenomeno già ampiamente
descritto da  Kraepelin  nel suo Kompendium
der Psychiatrie
, 1883). C’avrebbe poi pensato Freud ad interpretare alla
giovane Sabina i compositi significati del suo transfert erotico e della
"fissazione anale" cui era stata forzata dal perverso rapporto col padre.

E, catapultandoci ai giorni
nostri con una velocità superiore a quella della luce (i recenti, strabilianti exploit dei neutrini mi sostengono in
questo bizzarro viaggio nel tempo), David Cronenberg ci avrebbe risparmiato
l’ennesima, deludente pellicola cinematografica sul pruriginoso triangolo
passionale Sabina/Jung/Freud. No… il triangolo no…, cantava qualche anno fa
Renato Zero… Non se ne può più!

Modesta, a mio avviso, è  la 
stessa  sceneggiatura del film,
sebbene tratta dalla fortunatissima piéce teatrale, The talking cure, firmata da uno dei più autorevoli commediografi
contemporanei,  Christopher Hampton.
Modesta perché frammentaria e, a tratti, davvero scellerata dal punto di vista
storico. Cronenberg si impegna in una pregevole ricostruzione d’ambiente
(scenografia, a mio avviso, ottima), individuando con la sua pervicace, quasi
ossessiva attenzione al particolare,  ad
esempio, il tipo di carrozza che aveva portato Sabina Spielrein  al Burghölzi, per il ricovero, nonché la
marca di sigari fumata da Freud. Ma anticipa di un anno il primo incontro tra
Freud e Jung, collocandolo nel marzo del 1906! Perché sottolineare con una
didascalia una data errata? E’ come se Cameron avesse fatto svolgere la
tragedia del Titanic nel 1911 (il
richiamo ad un evento epocale non è casuale!). Ed avesse anche avuto bisogno di
rimarcarlo per bene, se, per caso, a qualcuno fosse sfuggito! E perché scrivere
nei titoli di coda la data sbagliata di morte di Otto Gross e della stessa
Spielrein? Mah!

Non voglio spendere tempo e carta
per commentare le fustigazioni un po’ fetish di Jung sui glutei di Sabina  (ardita interpretazione della doppia pulsione
nella sessualità – cavallo di battaglia del pensiero della Spielrein?) e
neppure prendere posizione nella disputa, a tutt’oggi vivacissima, tra i
sostenitori della castità nella relazione tra i due e gli studiosi che vogliono
violata la verginità della fanciulla ad opera dell’analista innamorato e…
"mascalzone" (2). Credo, comunque, che questo aspetto non sia del tutto
marginale ed indifferente, come ritengono alcuni autori (Guibal e Dobencourt,
1981; Blum, 2004).

Per quanto riguarda i personaggi,
Cronenberg non manca di caratterizzarli con vigore. Freud appare un ebreo
invidioso e meschinamente interessato a difendere la propria creatura,  ridotta ad una improbabile ed asfittica
teoria sessual/libidica.

Otto Gross sembra un disgraziato,
folle tossicodipendente (lo era!), incapace di formulare pensieri che si
discostassero dal tema parassitario di una compulsiva, animalesca sessualità.
Otto Gross, il figlio dell’esimio criminologo Hans Gross, studiò medicina a
Graz e poi fu assistente di Kraepelin a Monaco; nel 1906 ottenne la libera
docenza a Graz;  fu senz’altro un individuo
di  raro intelletto e dai tratti geniali,
che sposò fin dall’inizio la causa psicoanalitica (3). I suoi scritti
sulla  cleptomania, sull’afasia e sulla
funzione cerebrale secondaria (1902-1906), La
diagnostica differenziale dei fenomeni
negativistici
(1904) e La tesi
ideogenitale freudiana e il suo significato nella follia maniaco-depressiva
kraepeliniana
(1907) anticipano concetti poi ripresi dalla psicoanalisi
freudiana e junghiana (Corsa, 2006 e 2011).

Ma torniamo al film di
Cronenberg. La moglie di Jung pare una mater
dolorosa
, tormentata dal senso di colpa di non aver dato subito un figlio
maschio al marito; sempre gravida e paziente. Irritante ritratto di generosa,
ricca  borghese vittoriana.

Sabina Spielrein, certamente la
figura più viva, coraggiosa e creativa, manca di quelle sfumature, di quei
grigi intermedi, di quei chiaroscuri che hanno caratterizzato la sua vita:
Cronenberg la fa o tutta matta o tutta sana. Troppo sana…

E’ Jung ad uscirne da grande eroe
ariano.  Le sue mascalzonate sono trattate
come le debolezze umane di un genio, capace finanche di pentimento (la faccenda
delle scuse a Sabina, per il suo "scandaloso" comportamento, non sono proprio
andate come racconta il film!). Quasi un profeta, capace di predire gli eventi
catastrofici che a breve avrebbero squassato il mondo (questo fatto è riportato
nella sua biografia).  Jung "guarda
oltre", spinge lo sguardo anche sopra le miserie della psicoanalisi. E questa
visione quasi mistica gli consentirà, 
come si legge nei titoli di coda, di diventare il più grande psicologo
di sempre!

Ma ho trovato anche qualcosa di
buono nel film di Cronenberg, oltre la scenografia, la ricostruzione d’ambiente
e i costumi. Ho apprezzato il raffinato intreccio delle citazioni dal Diario e dai vari Carteggi, anche se non seguiva il corretto dipanarsi della vicenda
storica. Questi richiami agli scritti originali 
mi hanno emozionato.

Hich hiess
Sabina Spielrein?
       

Ma chi era Sabina Spielrein prima
di essere curata, con successo, da Jung?

"La piccola ebrea russa" era nata
a Rostov sul Don nel 1885.  Era la prima
di 5 germani, di una famiglia russa, benestante, di religione ebraica. Il padre
era un ricco commerciante di tessuti e la madre una dentista, che con la nascita
dei figli abbandonò la professione per dedicarsi "a suo modo", alla crescita
della prole.

Il padre era un uomo cupo e
triste, afflitto da ripetuti episodi depressivi.  Era 
irascibile ed esplosivo: in tali frangenti amava fustigare violentemente
sulle natiche i figli. Soprattutto durante le ore dei pasti, si adirava per un
nonnulla ed iniziava ad insultare e a tiranneggiare i membri della famiglia
(dalle cartelle cliniche dell’Istituto di Zurigo).

La madre, una gran bella signora,
era descritta come un’isterica ansiosa, dedita – diremmo oggi – allo shopping
compulsivo "ogni volta che esce a fare acquisti porta a casa grandi quantità di
oggetti che non servono a nessuno, ma che sono molto costosi". Anch’ella aveva
l’abitudine di imporre le regole familiari picchiando i figli, cui seguivano
pseudosvenimenti di matrice isterica. Il suo primo spasimante, un medico
cristiano, si tolse la vita dopo aver ricevuto un netto rifiuto alla sua
proposta di matrimonio,  per
"incompatibilità religiosa".  Molti anni
dopo, la donna, per ben due volte sedusse due uomini di cui la figlia
pre-adolescente, Sabina, si era invaghita (un giovane zio, che suonava il
violino,  e l’insegnante privato di
lingua ebraica) per poi, bruscamente, ripudiarli. Ambedue si suicidarono.

L’unica sorella di Sabina,
Emiliana, morì di tifo a 6 anni, quando Sabina ne aveva circa 16. Amava sua
sorella "sopra ogni cosa al mondo  (…)".
Questa morte la segnò in modo terribile e fu l’inizio di un serio quadro
psicopatologico adolescenziale, che la portò a diversi ricoveri ospedalieri. I
tre fratelli maschi, Isaak, Jean (il fratello prediletto, il suo "fedele
compagno di giochi") ed Emile studiarono all’estero (diversi decreti dello Zar
rendevano problematico l’accesso degli ebrei alle università russe). Tutti e
tre si dedicarono  agli studi scientifici
(Jean fu un matematico, con interessi in ambito filosofico); rientrarono in
Russia negli anni ‘Venti e, negli anni ‘Trenta, tutti e tre subirono la stessa
tragica sorte, scomparendo durante le purghe staliniane.

Sabina Spielrein è una giovane
molto dotata, che supera brillantemente gli esami liceali, che apprende diverse
lingue straniere e che impara a suonare il pianoforte e il violino (la musica
sarà un grande rifugio per la sua anima malata, nei periodi difficili dell’età
adulta), ma già gravemente sofferente sin dall’età pediatrica. Ella descriverà
magistralmente i suoi disturbi psichici infantili in un suo storico articolo
del 1912 ("Contributi alla conoscenza della psiche infantile"). E’ in assoluto
il primo caso di self-disclosure
della storia della letteratura psicoanalitica. Diventa un’adolescente
severamente disturbata, che ha bisogno di cure specialistiche ospedaliere.

Nel luglio del 1904 (19 anni)
viene ricoverata ad Interlaken, presso il Dr. Heller, dove si fa ben poco per
lei e dove viene sottoposta  alla terapia
elettrica (4).  Là è molto scontenta (e
anche i sanitari non vedono l’ora di mandarla da qualche altra parte) ed i
familiari (un anziano zio materno che fa il medico) riescono ad ottenere il
trasferimento nel prestigioso Istituto di Zurigo, diretto dal grande psichiatra
Eugen Bleuler. Sarebbe dovuta andare da Monakov, che però non l’ha presa,
perché troppo irrequieta (Minder, 1993, 
184).

Alle 10 e 30 di sera del 17
agosto 1904 viene accolta al Burghölzli dal medico di guardia (non si tratta di
Jung!):

«La
pz. ride e piange in uno strano modo, misto, compulsivo. Presenta un’enorme
quantità di tic: ruota la testa a scatti, mostra la lingua, contrae le gambe.
Si lamenta di un terribile mal di testa, dice di non essere pazza (…)» (Minder,
1993, 185).

Il film di Cronenberg descrive in
maniera assai suggestiva e fedele alle cartelle cliniche il primo periodo di
degenza al Burghölzli.

Bleuler affida il caso a Carl
Gustav Jung, giovane (29 anni) ma molto stimato psichiatra, che decide di applicare
il "nuovo metodo" freudiano per la cura dell’isteria. Sabina Spielrein è in
assoluto la prima paziente che Jung tratterà col metodo freudiano.

Dall’anamnesi riportata da Jung
nel diario clinico del 20 agosto risulta che «Da bambina [Spielrein] era sempre
malata (…) Era molto precoce, intelligente (…). 
Già a 12 anni aveva dei momenti di apatia, rimuginava sullo scopo della
vita, le faceva pena tutta l’umanità»  (ibidem, 186-187).

Durante il lungo ricovero, Sabina
manifesta ripetuti comportamenti violenti ed agitazione psicomotoria; appare
reattiva, dispettosa, provocatoria, capricciosa; alterna momenti di
opposizione,  negativismo ed intoppo ad
altri contrassegnati da rabbia ed aggressività.  

            Si legge nel diario medico:

            «La sera del 22.VIII alle ore 10 si sentì un
orribile rumore. Quando la nuova infermiera di guardia raggiunse il letto della
paziente, questa le chiese di lasciare per cinque minuti la stanza (…). Ridendo
l’infermiera disse di no, perché lei sarebbe dovuta andare a letto. La paziente
rispose  "che allora si sarebbe uccisa".
Strappò quindi improvvisamente la corda delle tende e mentre l’infermiera
gliela tolse di mano, lei strappò l’orologio dal braccio buttandolo in terra,
annaffiò di limonata tutta la stanza, disfò completamente il letto, picchiò
l’infermiera e poi, avvolta in una coperta si sedette sul divano» (ibidem,
188-189).

L’intervento del suo dottore la
calma come d’incanto e torna docilmente a dormire.

Nelle rare relazioni sullo stato
mentale della malata stilate da Jung in cartella,  prevale il linguaggio psichiatrico su quello
psicoanalitico, anche se in alcuni punti emerge uno sforzo interpretativo
nuovo, una tensione originale e quasi rivoluzionaria nella comprensione degli
accadimenti.

Mi preme sottolineare in particolare
un passaggio, nel quale il novello psicoanalista azzarda alcune decodificazioni
delle dinamiche intrapsichiche e familiari della paziente, utilizzando il
modello freudiano:

«(…)
dopo un’analisi durata tre ore si scopre che lei provava un eccitamento sessuale
già da quando aveva quattro anni per via delle botte [ricevute dal padre],
tanto da non riuscire a trattenere le acque, e da dovere premere le gambe tra
loro. Più tardi aveva anche una manifestazione orgasmica. Alla fine le bastava
il vedere o sentire come veniva picchiato suo fratello per masturbarsi, oppure
bastava che lei si sentisse minacciata che andava subito a letto per fare la
stessa cosa. (…) arrivò al punto che già i minimi accenni la portavano a farle
sorgere questo impulso irresistibile. (…) In fondo tutti i comportamenti di
ripugnanza o di negatività possono essere riportati a questo complesso [di
sottomissione o complesso paterno] che la induce irrefrenabilmente a
masturbarsi» (nota in cartella datata 8 gennaio 1905; ibidem, 196).

Durante la degenza, mano a mono
che le sue condizioni psichiche migliorano, Sabina inizia a partecipare
all’attività scientifica dell’istituto (collaborerà agli esperimenti
associativi eseguiti da Jung e da Binswanger) e, nell’aprile del 1905 si
iscrive a medicina. Bleuler sosterrà fortemente questa sua scelta.

Il primo giugno 1905 Jung firma
la dimissione di Sabina dall’ospedale:

«Nelle
ultime settimane vi è un chiaro miglioramento ed è più calma. Ascolta con
interesse e consapevolezza le lezioni (di zoologia, botanica, chimica, fisica).
(…) Vive ora da sola in città e frequenta le lezioni universitarie» (ibidem,
197-198).

La ragazza andrà a vivere in un
appartamento di Zurigo, vicino alla clinica. Proseguirà brillantemente la sua
formazione medica e, nei primi mesi, continuerà i suoi colloqui psicologici con
Jung nell’ambulatorio dell’Istituto.

Il caso da
manuale

Nel 1906 e nell’anno successivo,
Sabina Spielrein, "il caso da manuale", sarà usata da Jung come prezioso
materiale clinico in diversi saggi in difesa delle teorie freudiane.

Nell’ottobre del 1907, in
occasione del primo Congresso Internazionale di Psichiatria e Neurologia
tenutosi ad Amsterdam, Jung presenta, a favore della novella dottrina
freudiana, lo scritto La teoria freudiana
dell’isteria
. Il materiale clinico sul quale verte e si sviluppa buona
parte della relazione è tratto dall’analisi condotta su «un caso di isteria
psicotica in una giovane, intelligente donna di vent’anni» (Jung, 1908, 33).
Sta parlando, ovviamente, di Sabina Spielrein, «il primo caso psicoanalitico
"da manuale"» dell’analista svizzero.

Ma già l’anno prima, Jung aveva
sfruttato l’esperienza terapeutica con la "piccola ebrea russa" per ribattere
agli attacchi  sferrati da  Aschaffenburg alle rivoluzionarie idee freudiane.
L’articolo,  La teoria freudiana dell’isteria: replica alla critica di Aschaffenburg,
viene stampato nel 1906, nel numero 47 
del  Münchener medizinische Wochenschrift.

Questo è il primo saggio
psicoanalitico votato alla causa freudiana.

Nell’iniziale decennio del
Novecento, di pari passo col diffondersi delle concezioni freudiane e con il
costituirsi della psicoanalisi in un movimento organizzato,  aumentarono le polemiche e le critiche da
parte dei denigratori della nuova scienza dell’inconscio.

Uno dei più illustri e, nel
contempo, convinti detrattori delle idee freudiane fu, senza alcun dubbio,
Gustav Aschaffenburg, allora professore di criminologia a Colonia. In
precedenza aveva diretto il primo laboratorio di psicologia sperimentale –
sorto ad opera di Kraepelin nella prestigiosissima Clinica Psichiatrica di
Monaco – dove aveva sviluppato una nuova procedura d’indagine psichica,
chiamata   "esperimento
associativo". 

Aschaffenburg, di carattere
«bellicoso», ma anche «astuto» (Kerr, 1993, 139),  fu  la prima
autorità scientifica a sferrare un attacco ufficiale alla psicoanalisi.
L’evento accadde al Congresso di Neurologia e Psichiatria della Germania
sudoccidentale, tenutosi a Baden-Baden nel maggio del 1906, dove l’accademico
tenne una conferenza di denuncia della teoria freudiana sull’isteria, dal
titolo Die Beziehungen des sexuellen
Lebens zur Entstehung von Nerven- und Geisteskrankheiten
(Correlazioni tra la vita sessuale e
l’origine di malattie nervose e mentali
), poi pubblicata nel volume di
settembre del Münchener Medizinische
Wochenschrift

Il famoso criminologo
sottolineava, con una certa finezza espressiva ed acume censorio, alcuni  punti delle idee freudiane, a suo avviso, non
sostenibili dal punto di vista scientifico, quali: la mancanza di precise
indicazioni sul numero dei pazienti sottoposti alla cura e sull’andamento e
sull’evoluzione del quadro clinico; la considerevole componente suggestiva del
trattamento analitico; il condizionamento del flusso associativo conseguente
all’insistenza sulle tematiche sessuali; 
l’assenza di un rigoroso sistema interpretativo per i sogni
(«l’interpretazione di un sogno non esclude la possibilità di offrire infinite
altre interpretazioni dello stesso sogno, altrettanto valide ed altrettanto non
dimostrabili»);  più in generale,  il significato simbolico delle
interpretazioni che non sono verificabili e validabili. Tacciava per di più la
metodologia freudiana di «raggiro», 
perché il medico si sarebbe avvalso della tecnica dell’ipnosi per
suggestionare il malato. Anzi, tutto il trattamento psicoanalitico sarebbe
stato solo un’autosuggestione, che influenza sia il medico sia il paziente e,
in quanto tale,  da considerarsi privo di
qualsivoglia  efficacia terapeutica. E
ancora, l’ostinazione manifestata da Freud nell’esplorare le rappresentazioni
sessuali sarebbe stata in molte situazioni assai immorale, oltre che inutile ai
fini curativi. Secondo Aschaffenburg non vi era inoltre la necessità di
ricercare ulteriori spiegazioni della isteria traumatica, come  proponeva Freud in Frammento di un’analisi d’isteria. (Caso clinico di Dora) (1901),
in quanto il fenomeno era già ampiamente compreso, senza  dover ricorrere all’ipotesi di una componente
sessuale. Insomma, «i principi freudiani» 
erano un’ «aberrazione» che doveva essere ignorata, in quanto non erano
null’altro  che  «un esperimento associativo
incontrollato»!  E concludeva la sua
relazione tuonando:  «il metodo di Freud
è errato nella maggioranza dei casi, discutibile in molti e superfluo in tutti»
(Aschaffenburg, 1906, 1798).

Il padre della psicoanalisi non
rintuzzò gli assalti dell’eminente professore.

In ottobre dello stesso anno
scriveva amareggiato a Jung:

«Per
ragioni di principio, e anche per la sgarbatezza personale che rivela, non
risponderò all’attacco di Aschaffenburg. (…) Non vi trovo se non sciocchezze e
in pari tempo un’ignoranza invidiabile delle cose da cui attinge il suo
giudizio. Così egli continua a combattere contro l’ipnosi ormai abbandonata da
un decennio, dimostra di non avere la minima comprensione per il più modesto
simbolismo. (…)  Infine, ciò che lo
muove, come nel caso di tante altre "autorità", non è altro che la tendenza
alla rimozione dell’elemento sessuale, questo fattore scomodo e visto di
malocchio nella buona società. Vi è qui la lotta di due mondi l’uno contro
l’altro (…) mi attendo molte lotte, e alla mia età (50) non posso pensare di
vederne io stesso l’esito. Ma, spero, ci saranno i miei allievi (…)»  (F.→J., 
7 ottobre 1906; in McGuire, 1974, 5-6).

La chiamata a scendere nell’agone
trovò  Jung  pronto a difendere il Maestro.  Il 26 novembre  il sollecito discepolo rispondeva:

«Stimatissimo
professore,

riceverà
con la stessa posta un plico a parte che contiene una replica alla relazione di
Aschaffenburg. Ho modellato un po’ la cosa dal mio punto di vista soggettivo,
perciò Lei forse non sarà d’accordo su tutto quanto. Mi auguro che la mia
iniziativa non Le noccia!  Comunque ho
scritto con sincera persuasione»  (J.→F.,
26 novembre 1906; in Mcguire, 1974,  9).

Il n. 47 del 1906 della stessa
rivista che  aveva stampato l’articolo
di  Aschaffenburg offrì ospitalità alla
confutazione di  Jung, Die Hysterielehre Freuds: Eine Erwiderung
auf die Aschaffenburgsche Kritik
(La
teoria freudiana dell’isteria: replica alla critica di Aschaffenburg
).

Il tono adottato dallo
psicoanalista svizzero è prudente (5). Appare tuttavia  deciso nelle sue argomentazioni che, tutto
sommato, sembrano più a difesa della psicoanalisi che del suo creatore: «(…)
Freud vanta meriti straordinari (…) il che non significa che io sottoscriva
incondizionatamente tutte le teorie di Freud» 
(Jung, 1906,  13).

Jung controbatte poi con
puntualità alle diverse, dure accuse mosse dal professore di Colonia, dedicando
maggiore spazio alla questione legata al ruolo della sessualità
nell’etiopatogenesi dell’isteria; ma anche qui la posizione assunta  è 
pacata e lo stile morbido e quasi conciliante:

«Che dire ora della particolare
concezione di Freud, secondo cui "ogni" isteria è riducibile alla sessualità?

Freud non ha esaminato tutte le
isterie del mondo. La sua affermazione sottostà dunque alla limitatezza
generale degli assiomi empirici. Freud ha soltanto trovato conferma alla sua
opinione nei casi da lui osservati, che costituiscono una parte infinitamente
piccola di tutte le isterie esistenti. 
(…) Infine è anche possibile che il materiale di Freud nella cornice dei
suoi scritti sia diventato, sotto un certo aspetto, un po’ unilaterale».  E aggiunge con parole accomodanti: «(…)  per i traumi psichici e  l’isteria da indennizzo  (…) è forse possibile che la concezione di
Freud non valga».  Per poi concludere che, comunque, per
confutare gli assunti freudiani  sulla
questione dell’isteria «non esiste altra via che l’impiego del metodo
psicoanalitico»  (Jung, 1906,  14-15).

Dopo egli passa  a respingere punto su punto le osservazioni
polemiche formulate dal famoso criminologo, ribadendo essenzialmente che solo
quando «Aschaffenburg soddisferà» ai requisiti del nuovo metodo, «vale a dire
avrà pubblicato lavori psicanalitici con risultati completamente diversi,
allora crederemo alla sua critica, e allora si potrà anche aprire la
discussione sulla teoria freudiana» (Jung, 1906, 16). Jung  chiosa la sua difesa con accento finalmente
più appassionato:

«Non importa se Freud sbaglia o
no; egli ha in ogni caso il diritto di essere ascoltato di fronte al tribunale
della scienza. La giustizia esige che si verifichino le affermazioni di Freud.
Accontentarsi di stroncare una tesi e poi passare ad altro, è cosa che non si accorda
con la dignità di una scienza imparziale e priva di pregiudizi» (Jung, 1906,  19).

Non ci è dato conoscere
direttamente la reazione avuta da Freud alla lettura di questo saggio;
nell’epistolario manca, infatti, proprio la lettera di risposta  a Jung. Dalla successiva missiva dello
psicoanalista di Zurigo  si evince,
tuttavia, che il padre della psicoanalisi avrebbe  tollerato, 
seppur a malincuore,  la
moderazione  sposata nell’articolo, ma
avrebbe reclamato per lo scarso rilievo dato 
ai successi terapeutici ottenuti con il suo metodo di cura.

Jung si giustifica asserendo che,
se si è permesso certe restrizioni è per ragioni prettamente  politiche e «non per criticare la Sua teoria.
(…) Se si aggredisse l’avversario come a conti fatti merita, ne deriverebbe
soltanto un funesto dissidio, le cui conseguenze sarebbero soltanto
sfavorevoli» (J.→F.,  4 dicembre 1906; in
McGuire, 1974,  10).

Il commento di Jones all’intera
vicenda è laconico ma incisivo:

«Jung
reagì a questo attacco  sullo stesso
periodico che aveva pubblicato l’articolo di Aschaffenburg, ma con scarsa
efficacia»  (Jones,  1953, 146) 
(6).

Negli stessi giorni nei quali si
susseguono questi fatti, Jung chiede soccorso al maestro riguardo ad un caso di
isteria che sta trattando col metodo psicoanalitico. «E’ un caso difficile: una studentessa russa ventenne, ammalata da sei
anni.
(…)»  Dopo aver descritto
succintamente il quadro clinico in esame, termina sostenendo che «Le sarei estremamente grato se volesse
comunicarmi in poche parole la Sua opinione su questa storia» (J.→F.,  23 ottobre 1906; in McGuire, 1974, 7).

Si sarà  intuito che la paziente di cui si parla è
ancora una volta Sabina Spielrein, il 
«caso da manuale», al quale Jung si è certamente riferito anche quando
replica ad Aschaffenburg  affermando:

«E
infine esistono casi (ne ho visto più d’uno) che semplicemente non possono
essere compresi se non ci si decide  una
buona  volta a sottoporre  a una  
radicale revisione le  condizioni
sessuali e, nei casi a me noti, con ottimo successo»  (Jung, 1906c, 18) (7).

La fanciulla russa diviene ben
presto la giovane vittima da immolare all’altare del nascente movimento
psicoanalitico e in difesa del suo creatore.  

L’occasione sarà il I Congresso
Internazionale di Psichiatria e Neurologia, che si svolgerà ad Amsterdam  dal 2 al 7 settembre  1907. 

Come ricorda Ellenberger, il 4
settembre si dibatte il sentitissimo tema delle "Moderne teorie sulla genesi
dell’isteria". La relazione d’apertura spetta all’esimio professore parigino
Pierre Janet,  un’assoluta autorità in
campo neuro-psicologico, che riafferma le sue idee sul restringimento del campo
di coscienza, derivante dalla dissociazione mentale, che sarebbe alla base
dell’isteria; poi parla Aschaffenburg, formulando l’ennesima critica ai concetti
freudiani (Ellenberger, 1970,  924). Il
terzo oratore è Carl Gustav Jung, che deve esprimersi in modo convincente a
favore del "nuovo mondo", di fronte ai massimi esponenti della neurologia e
della  psichiatria  accademiche. Nel suo elaborato,  La teoria
freudiana dell’isteria
, l’autore esordisce con una succinta  rassegna storica, cui segue  un dettagliato compendio della tecnica
psicoanalitica, che ripercorre lo sviluppo delle concettualizzazioni freudiane
dai tempi della collaborazione con Breuer ai Tre saggi (1905), passando 
attraverso la rassegna dei principi affermati ne Le neuropsicosi da difesa (1894) e nell’Interpretazione dei sogni (1899). Glossa, poi, l’ampio excursus
dottrinale  sottolineando che la sua
esperienza conferma pienamente il punto di vista di Freud:

«Il simbolo freudiano e la sua
interpretazione perciò non rappresentano nulla d’inaudito, ma solo un che
d’insolito per noi psichiatri. Le difficoltà che ne derivano non dovrebbero
comunque trattenere nessuno dall’affrontare più a fondo i problemi freudiani,
data la loro importanza grandissima sia per la psichiatria sia per la
neurologia»  (Jung, 1908, 
37).

Nel frattempo Freud si sta
godendo un’amena vacanza, cogliendo funghi e bagnandosi in «un placido
lago»  in 
Carinzia, distrazione preferita ad un diretto «scontro con Janet».  Spiegava a Jung nella  missiva 
del 14 aprile 1907:

«(…)
mi era stato proposto di fare la relazione ad Amsterdam, e io mi ero affrettato
a rifiutare, (…) Adesso sono molto contento che abbiano scelto Lei. (…) io odio
i combattimenti gladiatori davanti all’inclita plebe, e difficilmente posso
indurmi a far votare una massa indifferente sulle mie esperienze; (…) Sarà
dunque Lei che dovrà misurarsi con Aschaffenburg»  (F.→J., 14 aprile 1907; in McGuire,
1974,  34).

Qualche giorno prima del
Congresso,   forse     mosso  
dalla   preoccupazione  che   
qualcun   altro difendesse la sua
creatura in vece sua, scriveva all’«allievo prediletto» delle righe
d’incoraggiamento (8):

«(…)
La so ad Amsterdam poco prima o appena dopo la Sua pericolosa conferenza,
impegnato a difendere la mia causa, e io provo quasi un sentimento di viltà
(…).

Non
so se Lei avrà avuto o avrà fortuna o sfortuna; ma proprio in questo momento
vorrei essere con Lei, gioire di non essere più solo e raccontarLe, nel caso
avesse bisogno d’incoraggiamento, dei miei lunghi anni di dignitosa ma dolorosa
solitudine, che per me ebbero inizio appena ebbi  gettato il primo sguardo sul nuovo mondo;
(…)»  (F.→J., 2 settembre 1907; ibidem,
88-89)  (9).

Il giorno successivo ci sarà il
dibattito sulla natura dell’isteria, al quale, però, Aschaffenburg non
parteciperà.  Diverse voci si alzeranno
contro le teorie freudiane (10), ma Otto Gross, il figlio del grande criminologo
austriaco Hans Gross, il fondatore della psichiatria forense,  e Ludwig Frank di Zurigo, si schiereranno con
coraggio dalla parte del padre della giovane scienza (11).

Nel saggio presentato ad
Amsterdam nel suo «viaggio apostolico», Jung riporta in modo dettagliato il
caso di una giovane donna, affetta da gravi sintomi  di 
«isteria psicotica»,  che viene
trattata con successo mediante il metodo psicoanalitico. L’interpretazione del
materiale clinico offerto dalla paziente serve fortemente a supporto delle tesi
freudiane.

La malata in esame è  sempre Sabina Spielrein, che sta per
iscriversi al terzo anno di medicina ed è ancora in terapia da Jung.

«(…)
I sintomi più precoci sono rintracciabili tra il terzo e il quarto anno di
vita. A quell’epoca la paziente cominciò a trattenere le feci, finché il dolore
la costringeva a defecare. Poco per volta cominciò a impiegare la seguente
procedura di appoggio: si sedeva rannicchiata sul calcagno di un piede e
cercava di defecare in questa posizione, premendo col calcagno contro l’ano.
Questa attività perversa fu praticata dalla paziente fino al settimo anno»  (Jung, 1908, 
33).

Jung non manca di sottolineare
che questa perversione infantile è stata ben studiata da Freud, che la
definisce «erotismo anale». Ed insiste:

«Dal
settimo anno la perversione cessò e venne sostituita dall’onanismo. Quando una
volta a questa età fu picchiata dal padre sulle natiche denudate, la paziente
percepì una chiara eccitazione sessuale. (…) 
A tredici anni ebbe la pubertà. Da quest’epoca in poi si svilupparono
fantasie di tipo decisamente perverso, che la perseguitavano ossessivamente.
(…)  non poteva mai sedersi a tavola
senza doversi immaginare, mentre mangiava, la defecazione; (…)  non poteva più guardare le mani del padre
senza provare eccitazione sessuale; e 
per lo stesso motivo non poteva più toccare la mano destra del padre.
(…) A circa diciott’anni la sua condizione era tanto peggiorata che la paziente
si limitava ad alternare profonde depressioni con accessi di riso, di pianto e
di grida. Non poteva più guardare nessuno, teneva nascosta la testa, ad ogni
contatto mostrava la lingua con segni di estremo ribrezzo» (ibidem,  33-34).

Lo psichiatra svizzero chiude
l’esposizione anamnestica giudicando che: «Con questa breve storia clinica si
può dimostrare l’essenziale della concezione freudiana» (ibidem,  34).  Offre, poi, alcune interpretazioni dei segni
psicopatologici di origine isterica manifestati dalla fanciulla secondo il
modello psicoanalitico e chiosa le sue osservazioni teoriche, sentenziando
enfaticamente che «L’ "isteria" freudiana esiste» (ibidem,  36).

Circa un anno prima di essere
condannata ad essere la vittima da sacrificare per la giusta causa, come
abbiamo già visto, la «studentessa russa ventenne» compare nel carteggio tra
Jung e Freud (Lettera già citata di Jung a Freud, datata 23 ottobre 1906).

Alla richiesta di supervisione da
parte dell’inesperto collega svizzero, Freud replica  rassicurando il medico di Zurigo sulla  fattibilità dell’analisi con  «la Sua russa», che è una studentessa, cioè
una persona di una certa erudizione, perché
«le persone non colte sono per il momento per noi troppo impenetrabili».
Esplora
in seguito la questione centrale della sessualità infantile che, nella
situazione in esame, emergerebbe in maniera assai esplicita: «La fissazione infantile della libido sul
padre» rappresenterebbe «il caso tipico come scelta dell’oggetto: autoerotismo
anale». Commenta, infine, che: «Casi come questo, che si fondano su di una
perversione rimossa, sono particolarmente belli da indagare»  (F.→J., 
27 ottobre 1906; in McGuire, 1974, 8).

Sabina  tornerà ad essere in primo piano
nell’epistolario tra i due grandi uomini un paio di anni più tardi, quando
esploderà in tutto il suo clamore  l’ affaire Spielrein, che aveva
appassionatamente coinvolto lo psicoanalista svizzero e la sua ex paziente.

Ormai ben sappiamo come andranno
a finire le cose.

Anche David Cronenberg ha voluto
narrarcelo una volta ancora. A modo suo…

Ah, chissà come sarebbe cambiato
il mondo se Cleopatra avesse avuto un altro naso?!

 

 

NOTE

1) Questo rapporto clinico, datato 25 settembre 1905,  risulta essere un documento di eccezionale
rilievo storico, in quanto rappresenta il primo tentativo in assoluto di
comunicazione tra  Jung e Freud.  Tale relazione è stata redatta in forma
dattiloscritta su carta intestata dell’Istituto Burghölzli di Zurigo, dove
allora Jung professava in qualità di 
assistente medico psichiatra, sotto la direzione di Eugen Bleuler.  Lo scritto originale è di proprietà della
famiglia Spielrein ed è stato rinvenuto nel Quaderno
dei duplicati Burghölzli
, Vol. 63 dell’ Archivio Burghölzli. La carta della
Clinica portava l’intestazione del Direttore, il Prof. Eugen Bleuler. Allora
Jung occupava la posizione di medico "senior" e, in assenza del Direttore, era
il suo sostituto. Questo fatto spiega, probabilmente, il motivo per cui egli
usò quella carta da lettere, anche se Sabina era stata ormai dimessa da alcuni
mesi e stava proseguendo la cura nell’ambulatorio dello psicoanalista svizzero
(Minder, 2007, 239).

2) Negli anni Ottanta/Novanta, come ben ricorda Scalzone
(spiweb.it), già Carotenuto e Bettelheim si confrontarono in singolar tenzone
su questa faccenda.  Ai giorni nostri, il
collega statunitense Lothane (I.P.A.), sulla scorta del rinvenimento di nuove
pagine del Diario e di diverse
lettere inedite (S.↔J, S.↔madre di S., F.→S.), 
sostiene: "La documentazione [più recente] suggerisce che nel 1909 la
Spielrein e Jung si davano alla ‘poesia’, un’espressione sintetica della
Spielrein che sta per scambi sensuali come toccarsi, abbracciarsi, baciarsi,
guardarsi negli occhi e andare romanticamente in deliquio. Era un pubblico
scandalo? No.  (…) Un’altra conclusione:
la Spielrein non provocò alcun problema tra Freud e Jung, in quanto la loro
rottura si basò su differenze dottrinali sulla teoria della libido, e la loro
battaglia si svolse nell’arena del caso Schreber" (1997 e 2003). Su
quest’ultimo punto mi trovo d’accordissimo con Lothane.

3) Ernest
Jones conobbe Gross in occasione del Convegno di Amsterdam e gli divenne amico.
Lo stimava molto professionalmente, al punto da riconoscere che egli fu il
primo ad insegnargli la pratica psicoanalitica 
e ad offrirgli l’opportunità di partecipare al trattamento di un caso.
Nella biografia di Freud Jones parlerà, però, di Otto  in un tono 
dalle sfumature sprezzanti:

«Otto Gross, […] diventò purtroppo
schizofrenico, […] Nel 1908 fu ricoverato presso la Clinica Psichiatrica
Burghölzli di Zurigo, dove Jung, dopo averlo svezzato dalla morfina, vagheggiò
l’ambizione di essere il primo a guarire un caso di schizofrenia» (Jones,
1953,  50-51).

Il
grande psicologo sperimentale Vittorio Benussi, laureatosi in Filosofia
all’Università di Graz,  condusse per
diversi anni importanti ricerche nel laboratorio del suo maestro, Meinong. Fu
proprio il grande padre di Otto, Hans Gross, il
fondatore dell’Istituto di Criminalistica all’Università di Graz (1913), ad
affidare a Benussi, uno dei più brillanti allievi,  il settore di ricerca rivolto alla psicologia
applicata. Benussi si avvicinò alla psicoanalisi  grazie all’influenza di Otto Gross.

4) 
Allora era pratica usuale sottoporre le isteriche  "a test con aghi per la disestesia"  (Minder, 2007, 207). Gli aghi venivano
introdotti superficialmente alle estremità degli arti inferiori e, spesso, veniva
fatta  passare della corrente elettrica
di bassa intensità.

Tale
pratica fu ulteriormente perfezionata nel periodo pre-bellico e, durante la
guerra, divenne la famigerata "terapia elettrica", un vero e proprio strumento
di tortura, applicato ai soldati, reduci dal fronte, accusati di
"simulazione".  Lo stesso illustre
cattedrattico Julius von Wagner-Jauregg – a tutt’oggi l’unico premio Nobel
della psichiatria – è stato indagato, con altri neuropsichiatri,  per  i
crudeli trattamenti elettrici adottati negli ospedali militari. Nei primi mesi
del 1920, la Commissione militare della Repubblica austriaca che seguiva  l’inchiesta chiese un parere peritale a
Freud. Il padre della psicoanalisi, che 
era stato compagno d’università ed amico di Wagner-Jauregg, cercò di
scagionare il collega, pur condannando la brutalità e l’inefficacia della
pratica elettrica (Freud, 1920).

5)
Jung esordisce: «Se cerco di replicare alla critica,
nel complesso molto cauta e misurata, che Aschaffenburg ha mosso alla teoria
freudiana dell’isteria, è perché voglio impedire che si faccia d’ogni erba un
fascio. (…) Vorrei anche osservare fin d’ora che la mia replica non è
indirizzata ad Aschaffenburg personalmente, ma a tutta quella corrente le cui
opinioni e aspirazioni hanno trovato espressione eloquente nel saggio di
Aschaffenburg» (Jung, 1906c, 13).  Freud
non la pensava certamente così!

6) Per Ellenberger invece: «Nel novembre 1906 [Jung]
pubblicò una secca replica a una leggera critica che Aschaffenburg aveva mosso
alla teoria freudiana dell’isteria» (Ellenberger,  1970, 
772).

7) Si tenga presente che in quegli anni venivano
ospedalizzati presso il Burghölzli non più di 6-7 pazienti all’anno con
diagnosi di "isteria", anche per questioni di ordine amministrativo e di
incertezza nosografia.

8)      
Ma già il 18 agosto, mentre era in vacanza in Val
Gardena, Freud incitava Jung così: «Essenzialmente si lavora per la storia, e nella storia la Sua
conferenza ad Amsterdam rimarrà come una pietra miliare» (F.→J., 18 agosto
1907; in McGuire, 1974, 83).

9) Stando alle memorie di Ernest Jones, che era presente
ad Amsterdam, Jung «disgraziatamente fece l’errore di non seguire sull’orologio
la durata della sua comunicazione e di rifiutarsi di obbedire ai ripetuti
inviti a terminare, rivoltigli dal presidente, per cui fu obbligato a smettere.
Con il volto rosso di rabbia, uscì precipitosamente dalla sala. La penosa
impressione suscitata dal suo comportamento sul pubblico, impaziente e già
prevenuto, fece sì che non potessero esservi dubbi sul risultato del dibattito»
(Jones, 1953, 148).

10)  
Per tutte, quelle di Janet, Bezzola, Ziehen, Sachs,
Heilbronner e, la  più feroce,
quella  di Alt, che «ha annunciato
l’ondata di terrorismo contro di Lei affermando che egli non affiderebbe mai un
paziente in cura a un medico di mentalità freudiana: mancanza di coscienza,
porcherie ecc.» (J.→F., 11 settembre 1907; in McGuire, 1974,  91).

11) 
Nella stessa epistola, Jung comunica con sorpresa e
soddisfazione a Freud che «(…)  si
trovava tra gli inglesi un giovane proveniente da Londra, il dottor Jones (un
celta di Galles!), il quale conosce molto bene i suoi scritti e pratica
personalmente la psicoanalisi. E’ probabile che venga a trovarLa in seguito. E’
molto intelligente e potrebbe forse fare delle buone cose»  (ibidem,  92).

 

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