Cultura e Società

Big Little Lies, finale di stagione. Recensione di Rossella Valdré

15/05/17
Big Little Lies, finale di stagione. Recensione di Rossella Valdré

Finale di Stagione “Big Little Lies”, miniserie 7 episodi

Creata da David E. Kelley, regia di Jean-Marc Vallée, USA 2017

Genere: commedia drammatica

HBO – Sky Atlantic in onda

Trailer:

di Rossella Valdré

“Abbiamo il nostro sporco segreto”

Si è conclusa su Sky Atlantic la miniserie di cui ho commentato l’episodio di apertura (link): come un sogno di inizio analisi, nel folgorante intreccio della prima puntata, lo spettatore rintracciava, in nuce, tutte le successive evoluzioni.

“Big Little Lies” ha, a mio avviso, ben meritato la menzione nella stampa americana di “migliore serie TV del 2017”: non trovo esagerato definirla un piccolo, perfetto capolavoro. Sceneggiatura incalzante, tratta dal romanzo dell’australiana Liane Moriarthy, che vede nello sfondo un delitto, che utilizza come pretesto per costruirvi intorno il gioco ad incastro della narrazione; ottime le interpretazioni di tutto il cast, in particolare quelle delle tre amiche tra cui primeggia Celeste, interpretata dalla Kidman, non per divismo o la bellezza di bambola, ma per l’ispirazione recitativa; fine scavo psicologico che penetra ciascun personaggio senza enfatizzarne nessuno; scabrosamente contemporaneo, lontano da stereotipi in cui sarebbe stato molto facile scivolare (la violenza domestica, in primis); musica e montaggio in perfetta armonia con il testo. Spaccato contemporaneo girato nella comunità californiana di Monterey, area ricca e privilegiata che gode dell’infinito benessere della Silicon Valley (e delle sue feroci contraddizioni), rappresenta vicende umane in cui chiunque può identificarsi: il denaro e un luogo splendido aiutano, ma non impediscono l’infelicità coniugale, la violenza, i rimpianti, i rimorsi, le colpe.

La festa della scuola è il teatro in cui si apre e si chiude il sipario sul delitto da cui si dipana l’intreccio umano che ha sconvolto la piccola, perfetta comunità di Monterey. Dai fuggevoli attimi d’interrogatori svolti dalla polizia, appare chiaro il velo sotto cui si nasconde la comunità: l’ipocrisia. “Piccole grandi bugie” nascondono quello che Celeste chiama “Il nostro sporco segreto”, nelle bellissime, brevi sequenze in cui va in terapia.

Avvocato di successo, che lascia il lavoro per seguire il marito, narcisista patologico violento cui è legata da un amore sadomasochistico sempre meno tollerabile, quando non basta più il trucco per coprire le botte, va esitante e al tempo stesso decisa da un’intelligente terapista. La regia ha il grande merito di evitare di stereotipare la complessità della dinamica di coppia nel gioco rituale vittima/carnefice. Celeste si domanda quale sia il “confine tra la passione e la collera”, riconosce di colludere, di non essere solo vittima, ma di partecipare a quel carburante della sessualità che si nutre anche di una componente sadica.

Alla psicoanalisi la paziente/vittima chiede l’intelligenza di capire a fondo, in poche battute, quanto sia difficile anche per una donna ricca e colta ammettere che l’amore può far male, che la “troppa passione” può oltrepassare la soglia della cura per l’altro e trasformarsi in violenza, che il confine è sottile, che nessuno è del tutto cattivo, nessuno del tutto innocente. Nessun altro, tranne la terapista e lo spettatore, conosce il suo “sporco segreto”.

Parallelamente, Madeleine (Reese Witherspoon) è combattuta tra due perdite: il trasferimento della figlia adolescente dal padre, poiché troppo pressata dalle sue richieste materne di “essere perfetta” e la fine della breve relazione extraconiugale in cui si è rifugiata.

Jane (Shailene Woodley) madre single di un bambino nato da uno stupro e ora accusato di molestare una bambina della scuola, figlia ‘feticcio’ dell’ambiziosa Renata (Laura Dern), inizialmente, mossa dalla rabbia indotta da quella che lo psicoanalista argentino Levinzon (1999; 2004) chiama “la fantasia del cattivo sangue” vorrebbe trovare il suo aguzzino e vendicarsi. In seguito, abbandonerà il folle progetto.

Elevato, in tutti i personaggi, il livello di consapevolezza. È come se ciascuno sapesse nel fondo di se stesso perché sta soffrendo, ma la pressione sociale ad apparire perfetti, il terrore di sbagliare e venire perseguitato dal giudizio esterno e dal Super-Io interno, congela tutti in un’apparente vetrina.

Col procedere della narrazione, che efficacemente alterna il mondo adulto e quello infantile come specchi, i dolori emergono, i segreti vengono disvelati, le maschere tendono a cedere.

“Non si può costruire un mondo perfetto, le cose brutte succedono”, dirà Renata in un raro momento di pausa dal suo eterno organizzare feste per la figlia. Siamo nella terra del possibile, dell’immensa fortuna e delle capacità, con un’elevatissima spinta competitiva che decide il futuro scolastico dei figli, in uno spaccato di realtà che, se ha certo nella Silicon Valley il suo apice, non è psicologicamente confinabile a quell’area: appartiene all’umano e alla contemporaneità.

Erede del filone “femminile” (sebbene qualche testata lo abbia definito femminista) che da “Sex and the City” a “Desperate Housewifes” ha immortalato ad estremo, residuo tesoro nella vita l’amicizia femminile, in questa serie le tre donne restano solidali e unite nel profondo. Lo spettatore ha la sensazione che non solo si aiutino in concreto, ma l’una legga dentro l’altra, l’una soffra anche il dolore dell’altra, pur nel silenzio dell’ipocrisia che avvolge Monterey.

L’epifania finale vede tutta la comunità riunita alla festa della scuola, baricentro simbolico del primato del bambino narcisistiscamente investito da un genitore mancante di parti di se stesso: si beve, si ride, la girandola degli infingimenti sembra continuare, ma qualcosa la spezza.

Reduce dall’ennesimo litigio Celeste, che non accetta più ricatti e percosse, perdoni e promesse di “cambierò per te” da parte del marito, fa una scoperta sconvolgente, che fracassa la coppia sotto gli occhi di tutti: quando la violenza familiare coinvolge i figli è destinata a ripetersi per identificazione, ed è questa a rompere il velo delle menzogne. Ciò porterà alla ribellione finale delle amiche che si troveranno insieme, sulla spiaggia bianca e ventosa, i lunghi capelli al vento, senza parole, solo musica, la colonna sonora dell’intera serie (Cold little heart, di Michael Kiwanuka), tanto armoniosa da essere giudicata “dipinta da Vallée come un pittore sulla tela”.

Sono molte le sensazioni e i canali di lettura che “Big Little Lies” lascia intravvedere: il femminile, la contemporaneità e i suoi valori mistificanti, il dolore nelle famiglie e nella coppia, la violenza e la fragilità dei rapporti narcisistici che devono esistere per consolidare il fragile sé dei personaggi, ma chiuderei tornando al titolo, perché le bugie?

Perché la verità, scriveva Lacan, è sempre un semi-dire, non la si può mai dire per intero, non esiste un’unica, totale verità. Dall’inquietante ipocrisia iniziale, che uccideva ogni verità possibile, alla conquistata libertà finale di cui abbiamo solo immagini e non parole, la regia di Jean-Marc Vallée riesce a rispettare il segreto intimo in ciascuno dei personaggi, in ciascuno di noi, chiudendo con un senso di sospensione di grande efficacia stilistica e narrativa. Lo spettatore, in una serie breve come una tranche de vie, resta col desiderio di sapere di più, vorrebbe seguire il destino di queste donne. In questo senso, “Big Little Lies” realizza, pur al di fuori del grande schermo, la caratteristica desiderante che Zizek attribuisce al cinema: “Arte perversa per eccellenza, non realizza alcun desiderio: ti insegna a desiderare”.

Maggio 2017

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