Cultura e Società

Boyhood

4/11/14

Dati sul film: regia di Richard Linklater, USA 2014, 165 min.

Trailer: 

Genere: “vita”

Trama

Presentato con successo al Festival di Berlino 2014, accolto da entusiastiche recensioni, premiato con l’Orso d’argento, il film è il risultato finale di un progetto che affascina solo a sentirne parlare. Dal 2002, per dodici anni, ogni anno per pochi giorni, i quattro attori protagonisti sono stati riuniti dal regista per seguirne la crescita e la vita (nella fiction). Vediamo Mason jr. (Ellar Coltrane), sei anni all’inizio e che ne avrà, non casualmente diciotto alla fine; sua sorella maggiore Samantha (Lorelei Linklater, figlia del regista), leggermente offuscata dalla luce del fratello; la loro mamma (Patricia Arquette), una donna di buona volontà, ma totalmente incapace a scegliere i compagni e a condividerne la vita; e Mason, il padre (Ethan Hawke, attore feticcio del regista), separato, disorganizzato e inaffidabile come pochi, ma con significativi margini di recupero. Il protagonista forse è il figlio, dato che il film si ferma sul suo ingresso al college e il titolo parla di un “boy”, ma il vero tema è il tempo e la vita. 

Andare o non andare a vedere il film

“Il cinema è la vita con le parti noiose tagliate”, sosteneva Alfred Hitchcock. Non tutti i cineasti sono d’accordo con questo assunto. In particolare, Richard Linklater sembrerebbe averne rovesciato i termini, trasformando in puro cinema i piccoli gesti, i problemi, i dubbi, le paure, le insicurezze e tutto quel collage di sentimenti e sensazioni che vanno a costituire il nostro quotidiano. In realtà, credo che si possa capire e apprezzare, financo amare questo film, solo se si conosce il percorso artistico e la ricerca che il regista sta portando avanti da tempo nel suo lavoro. Si può dire che Boyhood sia l’epilogo della trilogia che, su altri temi (amore, casualità e vecchiaia), ha sviluppato nei film Prima dell’alba, Prima del tramonto e Prima di mezzanotte.

“Il tempo è ciò che ci è stato dato in questa vita. Ci sono state date le ore e possiamo scegliere cosa farne” afferma Richard Linklater. E il tempo è ciò che il regista plasma a suo piacimento. Dentro una sceneggiatura e uno script dove nulla, o poco, è lasciato al caso. Ma è anche un film di poesie, di sguardi (gli occhi di Samantha in una stupenda scena al bar parlando di educazione sessuale con il padre…), di affetti, di speranze e di delusioni.

Un avviso: a qualcuno sembrerà noioso e forse la parte potenzialmente più intrigante, quella adolescenziale, è la meno riuscita. Ma è l’insieme, il magico e naturale passaggio da un anno all’altro, senza che mai lo si dica, che appare piacevole e riuscito.

La versione dello psicoanalista

Si può dire che si tratta di uno “straordinario” film sulla “ordinarietà”, sulla normalità? Persone che vivono, crescono (o invecchiano…), faticano, amano, soffrono, pensano, passano da passività a attività, ridono, piangono. Io ho pensato a quante volte mi sia capitato di fantasticare sulla vita dei miei pazienti, dopo che avevano finito un percorso, un’analisi con me. Sappiamo bene che, nella stragrande maggioranze dei casi, non sapremo più nulla di loro. Come stanno, cosa serbano nella mente e nel cuore del nostro incontro, dove sono, con chi vivono? Domande che spesso rimangono senza risposta, come è giusto che sia…salvo qualche messaggio, cartolina o mail. Questa condizione è, a mio avviso, ancora più forte per chi si occupa di bambini e di adolescenti. Forse per questo motivo mi sono goduto il film, la sua storia, le sue sequenze, i personaggi, quelli rimasti e quelli passati. Ho anche pensato che, anche se a volte ci piace molto pensare che nel nostro lavoro facciamo cose specialissime, in realtà, sotto sotto, non facciamo altro che stare un po’ di tempo con le persone che si rivolgono a noi e di cui ci occupiamo. Aiutandole a far sì che la loro vita scorra il più serenamente possibile (senza nulla togliere, anzi, proprio grazie alle finissime e raffinate capacità cliniche e introspettive che abbiamo sviluppato e condividiamo con i nostri interlocutori). Chiamamolo “elogio della normalità”!

novembre 2014

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