Cultura e Società

BUIO IN SALA 2006

12/01/09

 

I film sono stati scelti cercando per quanto possibile di seguire un filo: la psicoanalisi tra passato e presente, tra mondo interno e mondo esterno. Era nostro desiderio proporre al pubblico un’immagine della psicoanalisi come di una disciplina non totalmente ripiegata sull’inconscio e sul divano ma attenta anche alle trasformazioni sociali e ai problemi che interessano il mondo contemporaneo.

 

Al programma della rassegna seguiranno qui i testi che hanno fatto da sfondo al più breve e sintetico commento di ciascun presentatore. Essi danno conto dell’interpretazione del film proposta dal commentatore ma non dell’atmosfera che di volta in volta si è creata in sala. A conclusione della serata ciascuno di noi avrebbe potuto –e forse dovuto- riscrivere il proprio testo in sintonia con quanto era avvenuto: probabilmente sarebbe stato un testo molto diverso da quello di partenza. Ma questa sarà materia di riflessione per la prossima rassegna e per il prossimo resoconto.

 

Ringrazio gli amici dello Stensen Cinema, Valeria Cicerone, Sofia Ciuffoletti, Michele Crocchiola e Anita Galvano; il direttore dell’Istituto Stensen, Padre Brovedani; il pubblico; i colleghi che hanno partecipato a Buio in Sala: fra loro, un ringraziamento speciale a Gilberto del Soldato.

 

stefania nicasi, 23 dicembre 2006

 

BUIO IN SALA:

Venerdì 27 ottobre 2006

ore 21.00

Quando il mondo esterno oscura il mondo interno

Syriana

di Stephen Gaghan

(USA 2005, 127’)

Interviene Gilberto del Soldato

 

Venerdì 3 novembre 2006

ore 21.00

Luce ed ombra sul rapporto padre – figlio

Il ritorno

di Andrey Zvyagintsev

(Russia 2003, 106’)

Interviene Enza Quattrocchi

 

Venerdì 10 novembre 2006

ore 21.00

Vita e teatro: il valore dell’illusione

La diva Julia

di Istvan Szabo

(Canada/U.S.A./Ungheria,/GB 2004, 105’)

Interviene Elisabetta Bernetti

 

Venerdì 17 novembre 2006

ore 21.00

Una vita spezzata dal trauma

La morte e la fanciulla

di Roman Polanski

(USA/Francia/GB 1994, 103’)

Interviene Stefania Nicasi

 

Venerdì 26 novembre 2006

ore 21.00

La psicoanalisi si fa cinema

Diario di una schizofrenica

di Nelo Risi

(Italia 1968, 109’)

Interviene Rossella Vaccaro

 

 

Syriana di Stephen Gaghan

 

 

La mia lettura del film prende spunto dalla critica cinematografica di Michael Travers proprio per fare vedere come una “possibile” visione psicoanalitica dello stesso film può esprimersi e differenziarsi sostanzialmente. E’ un esercizio accademico, un po’ una scommessa. L’importante è che apra una discussione con Voi.

 

Michael Travers (25.11.2005):

 

Il regista e sceneggiatore Stephen Gaghan, vincitore dell’Oscar per la sceneggiatura di Traffic, torna dietro la macchina da presa, traendo ispirazione dal romanzo "See No Evil" . Ma, alla seconda prova Gaghan si rivela migliore come sceneggiatore che regista. Lo script, infatti, appare solido, grazie alle ricerche sull’argomento durate per più di un anno e mezzo, ma non sortisce lo stesso effetto sullo schermo.
I difetti della pellicola, che non sembra mai toccare il cuore dello spettatore su un tema così rilevante come quello dei giochi di potere per il petrolio, vanno, infatti, imputati alle scelte registiche.
Syriana è un film complesso e ambizioso.
Il film annovera circa settanta ruoli e almeno sei differenti scenari. Veniamo a conoscenza dei personaggi senza avere a disposizione alcun contesto in cui identificarli: manca lo spazio per approfondirne caratteri psicologici e motivazioni, mentre i dialoghi sono saturi di informazioni che ci investono senza lasciarci il tempo di riflettere.
Allo spettatore non viene fornita la possibilità di mettere insieme i pezzi, se non quando il film è già sulla via della conclusione. Un puzzle politico di questo genere ha bisogno di piccoli tasselli di connessione durante il film, al fine di mantenere vivo l’interesse del pubblico e condurlo verso la visione globale. La mancanza di un personaggio portante (che avrebbe potuto essere il Barnes di Clooney) risulta un ostacolo anche per lo spettatore più attento e volenteroso.
Gaghan sceglie deliberatamente di non dare giudizi o soluzioni facili alle vicende, cerca invece di creare un mosaico di sottotesti che lasci libera interpretazione. In questo modo, però, fallisce in uno dei principi fondamentali del cinema: quello di suscitare emozioni. Il cast, di tutto rispetto, appare convinto dell’importanza del progetto e cerca di dare il meglio di sé nell’interpretazione dei diversi personaggi, ma lo spazio riservato ad ognuno è troppo poco per potersi muovere liberamente all’interno dello spettro recitativo.
In definitiva un’occasione mancata per un cinema intelligente che, questa volta, è sembrato focalizzato troppo sul messaggio, piuttosto che sulla messa in scena.

 

*********

 

Vi ho letto questa critica cinematografica perché intendo proprio partire da essa.

E’ una analisi lucida, sicura, supportata da un modo di vivere il film: un modo caratterizzato dalla saturazione dei sensi aggrediti visivamente, acusticamente, emotivamente in un continuum senza sosta. Un rumore colore che sembra impedire la conoscenza e consentire solo il contatto rapido con qualcosa che un attimo dopo non è più. Ma il movimento è solo apparente. L’azione è una azione ripetuta all’infinito cambiando i personaggi che la interpretano, perché sono intercambiabili, perché nessuno è mai quello che sembra essere o se lo è, lo è solo fino a quel momento. Un attimo dopo è altro.

 

Il film comincia con un accordo che viene tradito, nel mentre che apparentemente lo si rispetta, da entrambe le parti. Il protagonista fornisce due missili a dei trafficanti d’armi e li vende, ma al momento della consegna programma la distruzione dei medesimi e la morte dei compratori. Ma i compratori stanno già venendo meno all’accordo perché cambiano, all’insaputa del venditore, la destinazione possesso di uno dei missili. Fino dall’inizio quindi ciascuno ha di fronte qualcuno che è anche altro da ciò che lui pensa essere.

 

Il critico dice:

Il film annovera circa settanta ruoli e almeno sei differenti scenari. Veniamo a conoscenza dei personaggi senza avere a disposizione alcun contesto in cui identificarli: manca lo spazio per approfondirne caratteri psicologici e motivazioni, mentre i dialoghi sono saturi di informazioni che ci investono senza lasciarci il tempo di riflettere.

 

Settanta ruoli, e noi potremmo ricondurli a tre, quattro, massimo cinque.

 

Ve li enumero:

  1. Saleem il lavoratore pakistano padre di Wasim che diventerà kamikase

  2. il figlio di Bob

  3. il reclutatore – catechista

  4. l’Emiro

  5. il piccolo avvocato che discute con il collega “puro”. Lo potremmo chiamare “la voce della verità”.

 

 

Stupendo l’aspetto registico cinematografico: un avvocato piccolissimo di statura di fronte all’ enorme facciata di un Palazzo di Giustizia, iroso, incontenibile, che esprime urlando la sua rabbia, la certezza della conoscenza ultima, inellutabile:

(il disilluso che catechizza l’illuso)

 

 

“la corruzione è una protezione”

“la società liberale ha fallito”

“la teologia cristiana ha fallito”

“l’occidente ha fallito”

“la corruzione è ciò che ci fa vincere”

 

Ma il piccolo avvocato è intercambiabile con il catechista religioso arruolatore: una interpretazione stupenda, pasoliniana, mellifluo seduttivo ispirato. Ma lo stesso personaggio all’inizio del film con labbra feroci, feroci come quelle dell’avvocatino, ha puntato la pistola alla testa di Bob che cerca di capire perché un missile venga dirottato da un’altra parte.

 

Perché il figlio di Bob? (manca tutta la scena del dialogo dei genitori) Per una frase:…”ho due genitori che fanno di professione i bugiardi”.

Un figlio che ha di fronte un padre e una madre ma non sa mai chi siano, che cosa stiano facendo, quali sentimenti li stiano animando.

Viene messa in bocca ad un figlio questa frase, ma potrebbe pronunciarla l’avvocato. Il responsabile legale della fusione tra le compagnie americane Bennett Holiday, ignaro inizialmente che a muovere le fila dei giochi sia proprio il suo mentore Dean Whiting .

 

Prosegue il critico:

 

Allo spettatore non viene fornita la possibilità di mettere insieme i pezzi, se non quando il film è già sulla via della conclusione

In questo modo, però, fallisce in uno dei principi fondamentali del cinema: quello di suscitare emozioni.

 

Qui il mio dissenso con questa critica è totale perché è proprio questo caleidoscopio apparente, questo passaggio continuo da un personaggio ad un altro, da una ambientazione ad un’altra, da un dialogo ad un altro, che produce una emozione intensa, insostenibile: questa emozione é l’inquietudine; mossa da un desiderio-bisogno di capire, di risolvere il proprio stato d’animo.

 

Non si può rimanere emotivamente immoti, la nostra mente è sempre a cercare di capire, di anticipare il seguito. E perché? Perché fino dall’inizio si vive il Male e fino all’ultimo, inconsciamente, siamo ad aspettare che qualcosa cambi.

A desiderare che qualcosa cambi per uscire dalla tragedia.

Ma il film non realizza la nostra aspettativa. E’ tragico, senza spiragli, senza un sorriso: ci fa male.

Anche quando una frase che, vista fuori contesto, potrebbe favorire il sorriso nel film non lo produce.

L’Emiro dice, tra sé e sé, del figlio minore che si arrabbia con il telecomando “ non chiedere ad uno sciocco di fare una cosa sciocca “, ma anche questa frase suona dolorosamente, perché contiene ed anticipa qualcosa che avverrà. Qualcosa di tragico. Il passaggio del potere a questo figlio “sciocco” a scapito del figlio maggiore “illuminato” e favorevole al cambiamento.

 

Ma è proprio la figura dell’Emiro, a mio avviso, illuminante: il potere, il trono, la successione: In questo movimento ciclonico vorticoso in cui tutti si agitano perseguendo sempre lo stesso fine ed in cui il testimone passa di mano in mano senza mai trasformarsi in altro l’Emiro è l’unico personaggio fermo.

Tutti si agitano in un moto apparente, Lui rimane fermo nel suo moto sostanziale

Lascerò il trono a tuo fratello…sono stanco…mi piace l’Europa ma rimarrò qui. Garantendo quindi l’immobilismo già da lui in precedenza ereditato, custodito e, adesso, mantenuto.

 

E’ l’unico personaggio che, suscettibile di introdurre o favorire il cambiamento, rinuncia a metterlo in atto e si assume la consapevole responsabilità di non cambiare niente.

E’ lui a mio avviso, attraverso il contatto più alluso che mostrato allo spettatore, il contatto con un mondo di regole rigidissime, che non consentono neppure, senza chiedere permesso ed ottenerlo, il contatto fisico di un figlio con il padre, è Lui il personaggio che simbolizza il potere assoluto e la necessità di preservarlo dal cambiamento e di difenderlo dall’insidia trasformativa.

 

Lo spettatore rimane annichilito nel constatare l’impotenza, nel mondo rappresentato, di un qualsiasi cambiamento o la comparsa di un movimento verso il cambiamento.

 

E’ tutto il mondo? No!

E’ certamente un po’ più della metà del mondo ma fortunatamente non tutto.

 

Quale è il mondo assente?

Il mondo femminile o per meglio dire gli aspetti femminili del mondo veduti nella loro accezione di dolcezza, generosità,speranza, fantasia, forza giusta.

Non esiste un personaggio femminile, con significato di personaggio veicolante il valore, il bisogno, la necessità del femminile.

Questo è solo un film tragico, peggio, un film, rubando una frase da una poesia di Neruda, che ha divorato la speranza e lascia lo spettatore sotto una macerie di angoscia giacché ha visto che la speranza non è più.

 

Un personaggio, uno solo, ci fa capire il dramma di questa assenza.

E’ Saleem, il lavoratore pakistano che ha nostalgia della propria terra madre e sogna di ritornare in Pakistan e ne parla proprio all’inizio del film con il figlio, quando la macchina da presa spazia dai campi petroliferi del Golfo Persico al piatto deserto circostante senza limite.

Saleem parla al figlio e gli dice che in Pakistan, anche se lontane lontane, alzando gli occhi, si vedono sempre le montagne e le loro vette coperte di neve. E prosegue dicendo “prenderemo una casa e faremo venire tua madre”.

Gilberto del Soldato

 

Il ritorno di Andrey Zuyagintsev

 

Gli psicoanalisti,accreditando il cinema con le arti figurative ,il teatro e la letteratura,hanno riconosciuto,solo nell’ultimo decennio l’arte cinematografica che nel corso del tempo si è modificata sostanzialmente,non solo dal punto di vista tecnico,ma soprattutto per quanto riguarda l’aspetto più profondo relativo al messaggio .

Ciò si spiega attraverso la constatazione che il cinema più di ogni forma d’arte riproduce il funzionamento della mente umana,fatto di sequenze alternate.

Se il film è il sogno,lo spettatore nel buio della sala è il sognatore.

Oggi in psicoanalisi si dà maggiore importanza all’intersoggettività ed alla costruzione narrativa che si realizza per opera di analista e paziente,piuttosto che alla scoperta di verità assolute e sommerse,pertanto la visione del film attraverso un orientamento psicoanalitico,può costituire un processo interattivo,l’insieme film, regista e spettatore crea una nuova rappresentazione,piuttosto che la scoperta di un senso nascosto non decifrato.

Come afferma Paola Golinelli(RIVISTA PSICOANALISI ANNO L N°2.2004),uno psicoanalista al cinema potrebbe cadere in una specie di trappola che lo porta ad analizzare personaggi,regista,artisti alla stregua di un paziente,rimanendo dunque in un territorio che gli è congeniale,correndo il rischio di ritenersi in possesso di strumenti atti a cogliere il vero significato delle cose…altresì più liberamente consideriamolo uno spettatore alla stregua degli altri che transita attraverso una condizione di immedesimazione ed identificazione per sconfinare come può fare chiunque verso zone come le definisce Bollas di “conosciuto non pensato”.

E’ anche vero,però,come dice Di Benedetto,anche se è uno spettatore,l’Analista,è uno spettatore certamente abituato a riflettere sulle sue emozioni e guarda il film attraverso una prospettiva ribaltata,invertendo la direzione dello sguardo,dall’esterno verso l’interno,accogliendo l’inquietudine che la visione della pellicola gli ha dato. Egli,libero dalla quotidiana responsabilità clinica,si colloca nello spazio intermedio che in questo caso sono l’arte ed il cinema.

Quando lo psicoanalista vuole,come me questa sera, comunicare ad altri la sua esperienza conseguente allo stimolo che riceve dalla visione del film,azzarda riflessioni che hanno carattere interpretativo,interpretazione che può essere vista come dice GREEN come un delirio,ma che come tutti i deliri rivela un nucleo di verità.

 

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Ho scelto e proposto questo film perché ha suscitato in me forti emozioni sul rapporto padre,figlio. Rivedendo questa sera con voi il film,mi accorgo di aver avuto un falso ricordo che mi portava alla mente l’inizio del film diversamente da come è davvero. Infatti ricordavo l’inizio, caratterizzato dalla scena di un ragazzo che corre e di un adulto con espressione drammatica nel volto che cerca disperatamente di raggiungerlo,la sequenza è ritmata ossessivamente,ma si svolge nell’ultima parte. Forse il falso ricordo è dato dalla forte suggestione di questa scena di grande apprensione paterna,un padre che abbandona la durezza ed il rigore e che avverte un pericolo.

Poi inizia davvero il film,come un diario,scandito dai giorni della settimana:

 

Quattro ragazzi si sfidano, un lancio,un tuffo da un trampolino altissimo,ma lui il piccoletto,quello che più che essere il protagonista è qualcosa di diverso(lo spettatore scopre e vede la storia narrata nel film attraverso i suoi occhi. Non è il narratore,il regista mette lo spettatore nella condizione di percepire la storia così come la vive e la vede IVAN),lui non si butta né scende, resta bloccato soccorso dalla madre che lo accompagna per le scale del trampolino.

“devo riuscire a tuffarmi,diranno che sono un cacasotto”…”anche se non lo diciamo tu lo sai che non mi sono buttato”. La complicità materna,non è più sufficiente,Ivan si distacca da una sorta di protezione simbiotica,dalla diade presociale;la madre anche lei è un altro fuori da sé .

Il giorno dopo i quattro ragazzi sono ancora insieme,Ivan viene deriso,anche dall’amico più fidato,poi scopriremo che è il fratello.

Tornano a casa la madre comunica che il padre dorme…la comunicazione sembra essere inserita in una sorta di quotidianità…C’è uno scambio loquace di sguardi,la macchina fuori,è tornato”è lui è proprio lui”alcune foto in soffitta lo ritraggono insieme a loro da piccoli e con la madre. Dunque è il padre.

“Buongiorno..papà” è una pretesa,il padre vuole esser chiamato così. Il figlio maggiore riesce a pronunciare quel nome…già pronunciato in passato….lo ritrova.

E’differente l’approccio all’evento da parte dei due fratelli…Ivan è diffidente,l’altro invece dice:”è arrivato non sei contento?”Prepara un diario,la macchina fotografica;sono in procinto di fare una gita,saranno da soli, i figli con il padre.

…“da dove è arrivato?” “è arrivato”risponde la madre.

Comincia il viaggio.

Ivan viene sollecitato a chiamarlo papà…si vergogna…si ribella,non riesce a chiamare padre suo padre.

Come prima detto,lo spettatore viene spinto a guardare il comportamento del padre con gli occhi di Ivan…un intruso un disturbatore di quiete,lo pensa Ivan lo pensa la nonna con i suoi silenzi molto loquaci durante la sequenza che li vede riuniti a cena.

Il padre ci appare molto severo e questa apparente inadeguatezza,disarmonia,nel comportamento che noi vediamo come se fossimo i due ragazzi,rivela forse l’insicurezza del ruolo,il rimpianto per il tempo perduto,l’ansia di recuperare la relazione con i figli ed i propri compiti disattesi;in poche parole,il comportamento sembra ricollegarsi a vissuti di colpa.(i sentimenti di colpa spesso portano a perpetuare comportamenti altrettanto dannosi).

Se le considerazioni precedenti esprimono alcuni aspetti,è altresì evidente che qui vediamo comunque il padre, espletare la funzione paterna,probabilmente anche su esplicito invito della madre. Riflettiamo ”a cosa serve un padre?”In linea di massima a far crescere senza paura,a far diventare “uomini” e,quanto più possibile, esseri autonomi.

L’essere uomini forti comprende sia valori positivi che valori negativi: non farsi fregare(il riferimento è alla scena del portafoglio sottratto al figlio maggiore dal ladruncolo)ma anche essere,vendicativi”è vostro picchiatelo”ovvero,essere anche magnanimi.

Il padre chiede al ladruncolo“Perché l’hai fatto?”Il ragazzo risponde”…avevo fame”e lo ricompensa in denaro.

La scena della ricerca del ristorante,il maggiore dei figli lasciato solo a piedi alla ricerca di un ristorante,la scena dell’autobus,che vede i ragazzi nuovamente ed inspiegabilmente soli e quella dell’abbandono sotto la pioggia per un tempo indefinibile,eterno per Ivan ed anche per lo spettatore,ci mettono di fronte ad incoerenza e discontinuità. E’anche probabile che questi eventi sono incomprensibili perché il regista ce li fa guardare soprattutto con gli occhi di Ivan…”eppure la mamma ci ha detto che è nostro padre”… ”perché sei tornato?noi senza te stavamo così bene. perchè per tormentarci in questo modo?”

Piove,la macchina si impantana,il padre insegna loro il metodo dei rami,c’è anche lo schiaffo al maggiore,per la sua imperizia. Il ragazzo poi si mette alla guida della macchina e cerca pur ancora sanguinante, l’approvazione del padre.

L’impostazione del rapporto con il padre è diversa tra i due figli,differenti aspetti personologici certamente, ma anche una diversa età al momento dell’abbandono,molti anni forse dieci,dodici. Per il figlio maggiore un distacco in una fase in cui vi era già stato un consolidato attaccamento(forse si sarà sentito in colpa quando il padre è andato via,i bambini sono tendenzialmente egocentrici e pertanto di fronte ad eventi di perdita, di rottura hanno vissuti di colpa).

Per Ivan,il piccoletto,( tutt’altro che impaurito rispetto a come appariva nell’episodio del trampolino), quest’uomo è un intruso che vuol essere chiamato padre, che dorme con la mamma, che si rivolge al fratello responsabilizzandolo ed è misterioso,quasi un extraterrestre).

Successivamente si trasferiscono in un’isola,i ragazzi remano,il padre li incita a maggior vigore”rema tu che sei più forte!”Ivan sfida il padre e nello stesso tempo ne riconosce la superiorità.

Il padre cerca un brusco contatto invitandolo a bere…”se mi tocca un’altra volta lo ammazzo”è la pronta reazione del ragazzo.

Poi assistiamo al furto del coltello,Ivan si appropria di un coltello del padre,ci sono aspetti di sfida, di confronto ,uomo a uomo fallo piccolo,fallo grande,uomo piccolo che ruba un oggetto espressione dell’aggressività e della potenza. Sono ipotizzabili altre emozioni,forse Ivan desidera possedere l’oggetto del padre per avvicinarsi a lui,per identificarsi con lui.

Nell’isola vi è un trampolino uguale a quello visto domenica. Ivan ha paura.

Assistiamo ad una pausa di distensione, il maggiore racconta barzellette, si ride,c’è familiarità e confidenza…troppa?

Il padre torna al rigore “non esagerare”.

 

(sembra fondamentale per lui non cedere ad emozioni,forse intollerabili,non vuole captare benevolenza…il suo comportamento è rigoroso,deve assolvere un compito.

 

I due ragazzi vanno da soli in barca per una breve gita,il padre responsabilizzando il figlio maggiore gli affida il proprio orologio. Tornano con un forte ritardo.

Il maggiore questa volta si ribella,il piccolo si interpone tra loro…minaccia il padre…

“avrei potuto amarti se tu fossi stato diverso”

Ivan scappa il padre lo insegue con terrore ed apprensione,forse anche per la consapevolezza d’aver sbagliato ora, da quando è tornato e prima, quando è andato.

E’la scena del mio falso ricordo collocata nella prima parte del film quando ancora è in impressione il titolo. Il ragazzo si arrampica sul pontile forse ha ancora paura,ma la forza viene dal bisogno di contrapporsi(non è forse questa la spinta per crescere per superare le varie fasi,non servono forse a questo i padri?un padre dovrebbe favorire la crescita,la differenziazione e l’autonomia dei figli e talvolta anche pagando il caro prezzo dell’impopolarità e della sfida ).Il padre è disperato , lo insegue come può,è in apprensione,Ivan lo teme minaccia di buttarsi(ma allora sa che il padre tiene a lui?)

“non farlo figliolo”con apprensione dice il padre,riconoscendolo,è il ritorno del figlio per il padre che subito dopo precipita e muore. Più volte il ragazzo ha detto”lo ammazzo”.

Trascinare il cadavere è un impresa ardua e difficile anche dal punto di vista fisico…ma ora sono già più “grandi”,adottano il metodo imparato dal padre per togliere dal pantano la macchina e lo trascinano fino alla barca,poi lasciano l’sola ma lo perdono, il suo corpo sparisce sommerso nelle acque…e proprio quando è perso,mentre si allontana per sempre da loro,proprio ora Ivan invoca sgomento quel nome così difficile da pronunciare…papà…egli così ritorna,il ritorno del padre, e nel momento stesso in cui viene perso,viene ritrovato. Il film si conclude con una serie di foto dei protagonisti nella fase che precede la partenza per la breve gita,i volti sono sorridenti e festosi come se il regista volesse integrare il punti di vista di Ivan …foto del film precedentemente omesse o foto inserite in seguito?Poco importa perché comunque stanno ad indicare come il drammatico epilogo abbia comunque favorito un assetto riportando il padre al figlio ed il figlio al padre.

Il film descrive una situazione drammatica che riporta comunque ad aspetti comuni delle fasi dello sviluppo e della crescita. Nell’adolescenza evidenziamo che se la madre è la più coinvolta nella riattivazione dei vissuti arcaici,il padre rappresenta nel contempo il rivale ed il sostegno della madre,la presenza separata in quanto portatore della legge,oggetto di identificazione superegoica.Si tratta di compiti che le figure genitoriali hanno sin dall’ infanzia e che nell’adolescenza vacillano,in questo caso l’assenza reale per lungo tempo del padre non ha consentito l’istituirsi a pieno,di quello sfondo,patrimonio di ogni individuo che si costruisce sin dalla prima infanzia e che ha a che vedere con l’identificazione introiettiva,quasi un senso supplementare che permette all’individuo nella fase dello sviluppo di imitare i genitori,usare il loro linguaggio,muoversi come loro e sentire ciò che loro sentono. E’ forse questa l’indispensabile premessa per costruire il fondo psichico naturale così come lo descrive A. Correale.

Bruno Bettelheim nel suo libro Un genitore quasi perfetto sostiene che in quasi tutti i problemi che si incontrano nell’educare i figli,genitore e figlio, sono il problema e contemporaneamente la sua soluzione. Il riferimento è ad una sorta di scambio paritario che possa favorire un profondo e duraturo rapporto di comunicazione emotiva ed affettiva.

Il ruolo genitoriale paterno,forse oggi risente della difficoltà dei padri a contrapporsi e mettersi nella condizione di essere contestati,attaccati,uccisi.

Nel trovarci di fronte ad una sorta di genitore unificato,dobbiamo comunque ricordare che la paternità differisce dalla maternità,nel senso che manca la diade presociale della gestazione e pertanto si costruisce il rapporto che ha sempre le caratteristiche di un’adozione.

Lo spermatozoo generante ed il bambino compiuto sono molto distanti.

E’ importante il contributo di Luigi Zoja nel suo libro Il gesto di Ettore a cui farò riferimento nelle note successive.

La genitorialità ci riporta al senso di responsabilità e la responsabilità è per definizione ciò da cui non è possibile dimettersi.

Oggi assistiamo in qualche modo,la mia non è una critica, alla riedizione della couvade delle civiltà tribali laddove l’uomo si immedesima con il concepimento della donna.

Il padre, almeno per come si è costruita la figura del padre nella società occidentale, dovrebbe costituire il passaggio obbligato,l’imbuto che immette la famiglia nella società,ma sembra aver perso la funzione di anello di congiungimento con la società.

Si tratta di una fuga all’indietro verso una situazione primaria,un padre maternizzato,in fuga dalla situazione secondaria.

Il nuovo padre depone le vesti,va verso una nudità intima e libera come la simbiosi.

La società ha deciso di spogliare Ettore(il riferimento è all’Iliade,Ettore ed Astianatte) affinché non spaventi il bambino…quest’ultimo non avrà più paura ma avrà ancora un padre?

Forse alla contraddizione del padre non c’è soluzione ed ad essa risponde la sua identità profonda.

Il padre deve togliere l’armatura per farsi riconoscere dal figlio,ma per questo deve prima indossarla…”il paradosso del padre”; egli può essere con il figlio quando sa anche stare con l’armatura,può essere padre quando è anche guerriero.

Vincenza Quattrocchi

 

La diva Julia di Ivan Szabo

 

La prima volta che ho visto questo film, ero sola, una esperienza rara: di pomeriggio al cinema. Cosa mi avesse portato davanti al cinema Portico non lo so bene, forse emergevo da una di quelle giornate di riflessioni interiori che rischiano di essere peggio di un cambio di stagione: ti guardi intorno sperando in una ordinata conclusione ed ecco che in agguato un mucchietto di panni che non ti decidi a buttare si materializza, ormai disfatta lo pigi di nuovo dentro l’armadio.

Bisognava cambiare pagina e così mi ero detta: questo pomeriggio ci vuole un film con bei vestiti,attori bravi etc..Il film sembrava mantenere le sue promesse. Ma qualcosa mi infastidiva: la voce troppo riconoscibile di Mariangela Melato in cui spuntava una ironia italiana, che mal si addiceva ad una impostazione tutta anglosassone del film.

 

Perché mi soffermo su questo particolare? Perché nel buio della sala la voce –M.Melato mi distraeva dal mio desiderio di spettatrice di vivere nello spazio tempo illusorio descritto dal film. Perché questo è il cinema; l’illusione di realtà, la parvenza di una vita migliore da cui lo spettatore trae felicità. Quella del cinema è una storia raccontata fatta di immagini e suoni ed è capace di trasfigurare, di dare nuove figure alle angosce degli spettatori vincendo per loro e con loro lo scorrere del tempo . Il film per quanto muoia nel suo ultimo fotogramma, ritorna sullo schermo sempre uguale a se stesso, possiede una sua illusoria eternità che ci portiamo con noi nella quotidianità rincuorandoci. Il film è il sogno del regista , Escobar , giornalista del sole 24 ore ricorda in un articolo da lui scritto nella rivista Psiche che ciò che vediamo in un film è il desiderio che si è fatto immagini dell’autore, è suo il viaggio avventuroso, suo il sogno ad occhi aperti, sua la felicità che nel buio torna sullo schermo. Ma per quanto preso dal desiderio di un altro, ogni spettatore uomo o donna continua a provare il proprio desiderio ,la propria paura ,la propria autoillusione necessaria nel guardare la storia narrata. In alcuni casi fortunati da quest’incontro nasce un nuovo mondo che non appartiene più né al regista né allo spettatore: appunto un mondo contiguo.

 

Credo che giovi a questo punto una breve nota sul concetto di illusione che non è ovviamente proprietà della psicoanalisi.

Illusione è una apparenza erronea che non cessa quando viene riconosciuta come tale. L’astronomo non può impedire che la luna al levarsi gli appaia più grande se anche, come scienziato non si lascia ingannare da questa apparenza”. L’illusione non viene meno anche quando è riconosciuta come tale.

Freud considerava l’illusione espressione del principio del piacere, dominante agli inizi della nostra vita di esseri umani, ma destinato a essere soppiantato dal principio di realtà, che ci impone di valutare il mondo quale esso è, spogliato dalle nostre fallaci illusione.

Winnicot , psicoanalista inglese (1896-1971)che si occupò nella sua vita professionale di bambini e adolescenti con studi ed osservazioni importanti sui fenomeni di deprivazione seguiti agli esodi in massa della seconda guerra mondiale, riteneva che l’illusione rappresentasse il contributo soggettivo portato al mondo quale esso ci appare si da rendercelo familiare, riempiendolo di quella immaginazione senza la quale non potremmo accompagnarlo nei suoi continui mutamenti e nella costante creatività che lo caratterizzano. Per meglio dire dalla nascita l’essere umano è occupato nel problema del rapporto tra ciò che è percepito oggettivamente e ciò che è concepito soggettivamente. Winnicot sosteneva che non c’è sanità per l’essere umano la cui madre non si sia resa disponibile a dare, attraverso le sue cure, l’illusione di essere sotto il controllo magico del bambino. Il compito della madre è anche quello di disilludere ed è attraverso la graduale disillusione che porta alla creazione di una area intermedia dove il bambino costruisce un ponte tra la pura soggettività e la realtà oggettiva. In questa area intermedia si colloca l’area del gioco dove il piccolo d’uomo a cavallo di un manico di scopa crede di essere, si sente sul dorso di un cavallo. L’area del gioco è una area intermedia di esperienza tra le cose percepite e quelle concepite che esiste nella realtà condivisa, né al di dentro né al di fuori dell’ individuo. Questa area si espande nell’intera vita creativa e culturale dell’uomo.

Le illusioni consentono a molte persone di continuare a vivere mediamente e in ognuno di noi anche nei più sfegatati difensori del principio di realtà c’è un area di onnipotenza magica magari consegnata alle magiche proprietà di una dieta, di un acqua minerale. E’ anche vero che le illusioni per alcuni possono essere una autentica rovina.

Parimenti ognuno di noi affronta le disillusioni con mezzi che gli sono peculiari. Alcuni si deprimono, altri ne fanno una tragedia ,altri ancora rimangono ancorati a convinzioni che possono sfiorare il delirio , ma alcuni affrontano le disillusioni con filosofia e i più fortunati, direi, sentono il bisogno di ripensarci magari creando storie o facendo un film.

 

Ma torniamo al nostro film e al suo personaggio centrale Giulia. Il film è tratto da un racconto di S. Maughamm; Giulia è una attrice di teatro di successo, è una prima donna, fin dal primo fotogramma si impongono due figure: un personaggio, un anziano attore ormai scomparso, che emerge da un angolo della sua memoria, fuori scena l’avverte che la realtà, la sua realtà è sulla scena del teatro e che la recitazione è tecnica; e Giulia la vediamo mentre interpreta intense storie d’amore . Giulia ha quarantacinque anni : la sua bellezza, la sua vivacità le permettono di interpretare ruoli di giovane donna innamorata. Recita sul palcoscenico intense storie d’amore, di abbandoni di perdite. Giulia è scontenta, una sorta di inquietudine la percorre, sembra stufa dello spettacolo ,forse della sua vita di attrice.

E che significato dare a questo vecchio attore: è un tentatore, un venditore di illusioni oppure vuole ricordare a Giulia che un’attrice, come la Luna al suo sorgere, è grande, straordinaria sul palcoscenico ed è illusione pensare di vivere la stessa straordinarietà nel quotidiano. Il nostro personaggio, si apprende è morto, ma Giulia gli fa tenere un posto alla sua tavola di casa, un gioco, una piccola bizzarria che ci dice che il nostro vecchio attore è un compagno segreto, una sorta di amico immaginario a cui Giulia tiene molto, questo è certo. Forse il vecchio attore rappresenta il modo di vedere il teatro del regista ? la spettatrice Elisabetta ha pensato: forse gli vuol dire di non abbandonare il teatro da dove i sentimenti le emozioni umane rappresentate nei personaggi tornano agli spettatori come possibilità di immaginare e riflettere di pensare; fuori dal teatro la vita sembra chiuderci dentro i nostri spazi di lavoro, di casa, di studio.

 

Il nostro capocomico ci impone subito di confrontarci su cosa è per noi il teatro.

 

Il teatro è uno spazio chiuso da tre lati, un contenitore con una apertura verso il pubblico e così ancora si presenta nella sua forma più collaudata.

A differenza che nel cinema lo spettacolo teatrale si svolge nell’hic ed nunc nel qui ed ora per quegli spettatori in quella sera, voglio dire che quella compagnia e quel particolare spazio teatrale sono solo nella città o paese dove lo spettacolo viene rappresentato.Mentre un film è visto contemporaneamente in più sale cinematografiche. Ed è sempre lo stesso film.

E’ con Shakspeare che il teatro si impone come ancora noi lo vediamo almeno nella sua forma più frequentata. E’ il novecento il secolo in cui assumono importanza i registi Visconti( conosciuto forse dai più per le sue regie cinematografiche, ma sue sono le regie di importanti spettacoli teatrali e di opere liriche) , Peter Brooke, Ronconi, ma è anche il secolo dei grandi interpreti.Il grande attore nasce e si impone nel novecento. Giulia è nel nostro film una grande interprete in un teatro direi classico. Cosa rende un attore capace di salire sul palcoscenico e di farci credere che lui è Amleto o Ofelia, cosa lo rende cosi capace di farci commuovere per il triste destino di Ofelia, così che noi piangiamo la morte di Ofelia non dell’attrice. Un attore impara, possiede una tecnica espressiva di parola, di gesti, ma soprattutto una tecnica emotiva, tecnica che permette che sulla scena si disperi, pianga lacrime vere che scompaiono rapide appena torna tra le quinte e che di nuovo possono ricomparire se torna sulla scena; Alcuni sostengono che l’attore in scena è portatore di una finzione ,finzione che deve essere limitata al palcoscenico.

Non tutti sembrano in accordo con questa descrizione del lavoro dell’attore di teatro. Alcuni registi come Ronconi: un attore una attrice di teatro porta in scena personaggi che non esistono,il suo lavoro non appartiene ne alla sfera della imitazione né a quella della finzione : non si può imitare o fare finta di essere qualcuno che non è mai esistito se non nella realtà del testo dell’autore. Gli autori di teatro descrivono personaggi che non sono mai esistiti, Otello Desdemona così come escono dal testo shackspiriano non sono mai esistiti. Un attore non finge una parte, né imita, ma deve fare leva su una sua area intermedia che sta tra ciò che avverte dentro di sé e ciò che forse può trovare fuori di sé frammentato negli esseri umani, perché se Otello non è mai esistito possiamo forse affermare che in ognuno di noi c’è qualcosa di Otello e/o di Desdemona …….

 

Qual è la vita di Giulia quando non recita. Apprendiamo che ha un marito elegante, un bell’uomo che ha rinunciato a fare l’attore perché mediocre,ma ha dedicato tutta la vita al teatro e intorno all’attrice Giulia.E’ l’impresario di Giulia. Possiede in società con altri un teatro.

E’ legato a Giulia da un forte sodalizio, ma da tempo tra i due non c’è passione fisica.

La nostra coppia ha un figlio, tranquillamente critico, nei confronti dei genitori.Il figlio ha una sua vita e i suoi interessi. Quindi Giulia attrice di successo,regina dei salotti ha una vita da tranquilla signora alto borghese.

Quale nome ha l’ inquietudine di Giulia? Giulia ha quarantacinque anni e non li dimostra, ma la vediamo nel dipanarsi del film che inizia interrogarsi sul passare del tempo. Forse vuol essere importante per qualcuno , forse avverte che questa sorta di eternità che i suoi ruoli le garantiscono può subire un cambiamento, qualche nuova Giulia altrettanto di talento potrebbe arrivare, o forse vorrebbe vivere nel mondo reale quello che ci rappresenta.

Il film non delinea niente: è come se il nostro personaggio camminasse lungo un ideale linea di confine tra la realtà e il sogno ; Incontra un giovanotto, che ammira l’ attrice, nasce una storia, un innamoramento.

Il nostro giovanotto è un giovane rampante, americano, con un gran desiderio di affermarsi in un mondo come quello inglese assai più ricco di obbedienza alle regole sociali del nostro.

Il ragazzo non ha un titolo, una famiglia che gli garantisca un’ entratura in un mondo socialmente utile per il suo lavoro.

L’amore, la protezione di Giulia gli sono utili.

Scopriremo che, il nostro giovane che cerca di farsi strada in un modo ingombro di adulti, ha una giovane amica;E’ una giovane attrice che vuole la sua occasione e si aspetta che questo avvenga velocemente :lei non vuole recitare con Giulia ,lei vuole il ruolo, il posto di Giulia .

I nostri due giovani non sono poi dei personaggi spregevoli, loro ammirano l’attrice, vogliono farsi strada e usano tra le tante armi possibili quella della seduzione .

Giulia ha la sua storia d’amore nella vita reale che crede di poter dominare così come le accade sul palcoscenico, ma che accade quando si accorge di non essere l’unica ,che il nostro giovanotto cerca il suo aiuto per aiutare la giovane fidanzatina che seduzione per seduzione nel film cerca anche di soppiantarla nel rapporto con il marito?. Giulia subisce una delusione cocente( e chi non la subirebbe?) Che accade a chi si sente abbandonato : patisce una perdita secca, un flop al botteghino .. patisce una sorta di impoverimento del sé, si sente svuotato umiliato, ferito..

 

Giulia scopre o tocca con mano che l’umiliazione patita fuori dalla scena e come dire più brutta esteticamente parlando: è un indebolimento che non suscita ammirazione o plauso.

Un nostro collega S. Bolognini direbbe che Giulia ha bisogno del cosiddetto “effetto gommone”. Il conforto degli amici che ricordano o celebrano le sue qualità all’amica abbandonata sorte l’effetto di un gonfiaggio del sé assai simile a quello che accade quando osserviamo il gonfiaggio di un gommone: Sulle prime sembra di lavorare a vuoto poi come per miracolo il gommone inizia a prendere forma..

 

Giulia, si allontana torna ai suoi affetti. Torna nel piccolo paese dove vivono ancora la mamma e la zia due figure teneramente sollecite. Torna dove la sua quotidianità può prendere le distanza dal suo ruolo di attrice, per un attimo sembra voler ricadere in una illusione amorosa, ma trova un fedele amico. Prese le distanze dall’umiliazione e animata da una rabbia positiva non più legata al senso di sconfitta decide di tornare in scena partendo da cosa è in suo possesso : l’esperienza, lei sa che non basta salire sul palcoscenico per essere un attore. Uno spettacolo è un insieme di pezzi dovuti al lavoro concreto e paziente di molti; ogni azione scenica, una luce, la posizione dell’attore sulla scena racconta qualcosa e cosi Giulia sembra assumersi il ruolo che la vita e poi il teatro le ha assegnato quello di una signora un po’ attempata che sostiene e fa da spalla alla giovane attrice.

La vediamo durante le prove ,sembra decisa a rimanere ,anzi a rinforzare il suo ruolo quasi di spalla, ma intanto nel suo camerino compare un vestito assai diverso da quello che lei durante le prove sembrava aver scelto. Giulia ha deciso di portare in scena ciò che ha provato nella vita reale, la rabbia l’odio perfino l’umiliazione se portati sulla scena possono assumere un carattere di straordinarietà, sentimenti che destano sofferenza assumono un carattere di bellezza attraverso il lavoro dell’attore, una volta portati nell’azione scenica vengono alleggeriti.; con rapido cambiamento di posizione di luce e di vestito ( tutto assume un significato sulla scena) vediamo che la giovane attrice perde il suo ruolo centrale per meglio dire rimane centrale ,ma come figura grottesca funzionale al ruolo di Giulia : è così straordinaria la sua cattiva recitazione che conquista un posto nello spettacolo. Ha la tanto sospirata scrittura nella compagnia…Ma tutto questo è teatro: il teatro e nel qui ed ora del palcoscenico. Fuori la Luna Giulia è una donna sola. Forse la giovane attrice dovrà scontrarsi con il fatto che ha ancora da imparare..

E a noi spettatori partecipi di questa finzione e/o illusione cosa rimane? Noi siamo spinti in un gioco di scatole cinesi dove nel sogno del film una attrice, in teatro, è in grado stravolgendo un testo teatrale di riproporre il proprio dolore i propri fantasmi ben più leggeri e avvolgenti di quelli vissuti nella realtà, ma questo è possibile per un attore? molto probabilmente no. E’ una illusione progettata nei minimi dettagli… ma questo è cinema.

Questo cambia forse la nostra vita? Direi di no, ma certo lascia una piccola luce che illumina i nostri pensieri, la nostra capacità di riflessione.

Elisabetta Bernetti

 

La morte e la fanciulla di Roman Polanski

 

Un libro, un film, un quadro si possono leggere a diversi livelli e guardare da molti punti di vista. Questo film per esempio si potrebbe commentare seguendo il filo dell’ambiguità che lo pervade, della politica o della musica di Schubert; oppure lo si potrebbe considerare, come qualcuno ha suggerito, la terza riflessione di Polanski sul matrimonio, dopo Frantic e Luna di fiele.

 

Io invece leggerò il film a partire dal trauma e dalle conseguenze psicologiche della tortura. Lo leggerò prendendo una strada interpretativa precisa, consapevole però che è solo una delle molte possibili e disponibile a rimetterla in discussione.

 

La letteratura psicoanalitica sugli esiti del trauma è ormai ricca e si incontrano lavori fondamentali: lavori che costituiscono lo sfondo tacito del breve commento che tenterò stasera. Tuttavia alcune pagine restano insuperate: appartengono a una zona di confine fra la letteratura e la filosofia e sono state scritte da Simone Weil, da Jean Améry e da Primo Levi.

 

Afferma Jean Améry che sin dalla prima percossa il detenuto perde la sicurezza e la fiducia nel mondo: "il primo pugno sferratoci dalla polizia, contro il quale non può esservi possibilità di difesa e che nessuna mano soccorritrice potrà parare, pone fine a una parte della nostra vita che non potrà più essere ridestata" (J. Améry, Un intellettuale a Auschwitz).

 

I personaggi

 

Paulina Lorca

Paulina ha perso irrimediabilmente la fiducia nell’ambiente, la sicurezza e la speranza nel soccorso delle quali parla Amery. Vive adesso in mondo dove bisogna stare sempre in guardia, un mondo sinistro privo di posti sicuri.

 

Nel subire la tortura Paulina è diventata una cosa e ha visto l’altro diventare una cosa. La violenza possiede una “doppia proprietà di pietrificazione” -diceva Simone Weil- nel senso che trasforma in cosa chi le soggiace e chi la esercita. Nessuno veramente possiede la forza: anche chi la agisce e crede di dominarla ne è invece agito e dominato (S. Weil, L’Iliade poema della forza). La violenza dunque istituisce sempre un contesto traumatico nel quale circolano impotenza, rabbia e paura e nel quale soffrono sia le vittime sia gli aggressori. Questo è reso bene nel film di Polanski e mirabilmente nel racconto di Aleksandar Tisma Scuola di empietà.

 

Come tutte le vittime, Paulina è ingombrata dal risentimento. Il risentimento la tiene agganciata al passato ma getta un fragile ponte sul futuro attraverso la speranza che un giorno finalmente il risarcimento arrivi. Tuttavia poiché il danno è stato immane, niente potrà davvero ripagarlo. Ne deriva un rapporto ambivalente verso ogni forma di riparazione che è al contempo attesa e ripudiata in quanto sospetta di essere una strategia –spesso una strategia collettiva- per chiudere i conti con il passato e liquidare la sofferenza della vittima. A questo riguardo tutta la questione del processo che occupa le prime scene del film è emblematica.

 

Il risentimento di Paulina si riversa sul marito e si lega alla gratitudine assoluta e al senso di colpa di lui con l’effetto di paralizzare il rapporto. Il loro matrimonio assomiglia alla loro automobile: è a terra e sembra avere esaurito le proprie risorse; anche la gomma di scorta è bucata. Da questo punto di vista la comparsa di Miranda rappresenta un elemento di novità e di rottura: egli apre una crisi attraverso la quale la coppia approderà al cambiamento.

 

Paulina è anche piena di rabbia. Per capire l’entità e il significato di questa rabbia alcune idee della psicoanalisi possono a questo punto venirci in aiuto.

 

Prima di tutto, l’idea di fondo –che è nella psicoanalisi come in tanta parte della filosofia e della letteratura- che il male faccia parte della natura umana e che il male che viene da fuori risvegli ed ecciti il male che è dentro. Piove sempre sul bagnato.

Poi, l’ipotesi più specifica che la vittima trovi una parziale via d’uscita al proprio intollerabile stato di impotenza immedesimandosi con l’aggressore. A questo meccanismo di difesa, già descritto da Sandor Ferenczi, Anna Freud diede il nome di identificazione con l’aggressore.

Infine, particolarmente illuminante, il modello proposto da Russel Meares in Intimità e alienazione. In un passo fortemente consonante con l’analisi di Jean Amery e di Simone Weil, egli dice che nel trauma -in questo tipo di trauma- il senso di vita interiore viene spazzato via: l’altro arriva ad abitare la vittima. Mentre lo spazio tra sé e l’altro collassa, il Sé e l’aggressore vengono rappresentati come se fossero fusi. Questo determina oscillazioni in cui a volte la persona appare come la vittima inerme e spaventata altre volte, magari pochi secondi più tardi, come l’aggressore che infligge il trauma. Una "interiorizzazione maligna" affligge la vittima: qualche cosa di mostruoso abita in lei.

 

Vedremo come la protagonista si scolla e si disidentifica dal suo aggressore. Vedremo come la vittima caccia di casa il persecutore. Dalla casa sulla scogliera e dalla sua casa interna.

Roberto Miranda

Miranda è in apparenza un uomo qualunque, dalla misoginia strisciante. Ispira, nel complesso, fiducia. Si stenta a credere che sia davvero un criminale, anche grazie alla straordinaria interpretazione di Ben Kingsley e alla regia di Polanski il quale aveva istruito l’attore, all’insaputa degli altri due, a recitare “come se fosse innocente”.

 

In effetti Miranda, stando alla sua confessione, non è stato un artefice del male, non ordiva gli arresti e le torture: semplicemente si è trovato nella situazione e ne ha approfittato.

 

Se il furore è l’emozione dominante di Paulina, la paura è l’emozione dominante di Miranda che si trova ora a subire quella forza che un tempo ha esercitato e creduto di possedere.

 

Miranda ha paura fin dall’inizio ed è proprio la paura –la paura di essere scoperto e punito- che lo spinge, insonne nel cuore della notte, a tornare indietro.

 

Solo la paura –la paura, non il senso di colpa- giustifica il suo bussare alla porta dell’avvocato che ha appena conosciuto per restituire la gomma di scorta: si sarebbe potuto tranquillamente attendere l’indomani, come certo –egli stesso fa notare- avrebbe suggerito una moglie assennata. Ma la maggior parte della vita degli uomini si svolge lontana dalle mogli assennate.

 

L’insensata e inopportuna visita notturna di Miranda è un dettaglio che viene messo in risalto nel film ma viene allo stesso tempo occultato e quasi rimosso: il marito avvocato non sembra averlo in mente –e nemmeno lo spettatore- quando non crede alle accuse di Paulina, mentre costituisce, a ben vedere, un ovvio indizio. E’ sulla gomma di scorta che Miranda inciampa e cade. Il testo contiene, in bella vista eppure rimossa, la sua chiave secondo una strategia narrativa che è stata molto ben descritta da Yehoshua in Il potere terribile di una piccola colpa.

 

Gerardo Escobar

Mentre Paulina sembra un soldato, Gerardo, con grandi occhiali, pochi capelli e una leggera pinguedine, non è precisamente Rambo. Inoltre per quasi tutto il film si aggira in espadrillas e vestaglia, abbigliamento in apparenza quanto mai inadeguato a fronteggiare le circostanze. A me sembra che attraverso questa caratterizzazione egli si faccia portatore della debolezza e dell’incertezza. Impersona la zona grigia di cui parla Primo Levi (I sommersi e i salvati) o l’ambiguità di cui parla Silvia Amati Sas in un saggio sulla tortura (utilizzando un concetto di Bleger). Ma impersona anche la coscienza, l’Io, l’esame di realtà, la prudenza, la giustizia e il patto sociale. Preso tra due fuochi, e anche preoccupato di tutelare la sua posizione sociale, è piuttosto goffo e indeciso. Costretto ad aprire gli occhi sull’orrore, è continuamente tentato di chiuderli per tornare a dormire; è questo uno dei rischi più grandi che corre il terapeuta di una persona gravemente abusata, simmetrico al rischio che corre la vittima e che corriamo tutti: denegare, non credere a quanto è accaduto.

 

La sua funzione è fondamentale: è il terzo. Ha una funzione terza. Spezza la dinamica circolare vittima-persecutore. Fa da testimone e garantisce la realtà dei fatti narrati. Ascolta le ragioni dell’una e dell’altro. Contribuisce a bonificare la furia di Paulina che nel corso della vicenda diviene da impulso di vendetta desiderio di giustizia e poi desiderio di verità.

 

La debolezza della ragione mostra in ultimo la forza della ragione: nel consesso civile la spada del giustiziere –Rambo- deve cedere il passo all’imperfetto e impersonale lavoro dei tribunali.

 

L’azione

Nel rispetto dell’ unità di tempo, di luogo e di azione, la vicenda, arrangiata da una pièce teatrale dello scrittore cileno Ariel Dorfman, si snoda in una notte, dal tramonto all’alba.

 

Il primo impulso della vittima che fiuta il predatore è nascondersi e scappare lontano. Fa la valigia e salta in macchina. Poi qualcosa la ferma: oscuramente sente che una grande occasione le si è presentata.

 

Ma quale occasione?

 

Nell’azione il senso cambia e direi evolve. A me pare che nel corso di questa evoluzione la vittima recuperi la propria umanità via via che si libera della presenza interna del persecutore.

 

Quando è decisa a ucciderlo e a farlo sparire, quando lo umilia –come lei è stata umiliata- ficcandogli le mutande in bocca, quando gli provoca spavento e dolore fisico Paulina è ancora identificata con il suo aggressore, abitata da una furia distruttiva che costituisce un impasto dell’aggressività di entrambi. Qualche cosa di tremendo agisce in lei. Progressivamente però, attraverso la zoppicante e pigiamosa funzione mediatrice del personaggio marito-avvocato, l’occasione di vendicarsi si trasforma nell’occasione di far emergere la verità e insieme di conquistare la libertà. Nella coincidenza di questo percorso che è psicologico ed insieme etico sta per me un significato profondo del film e la sua grandezza.

 

Alla fine, la verità arriva, semplice e terribile: "peccato che sia finita!". E’il sadismo. Dall’orlo del precipizio sul quale ora si trova e dal profondo dell’abisso nel quale da tempo è caduto e nel quale ritorna, Miranda dice la verità e al contempo recupera un aspetto di sé che gli restituisce vigore: smette infatti di tremare. Viene abbandonato a se stesso. I legami finalmente si sciolgono. Paulina ottiene il riconoscimento del quale aveva disperato bisogno: agli occhi del suo persecutore – e dunque di se stessa- torna ad essere persona e non più cosa. Anche il persecutore è se stesso e non è più dentro Paulina. Non è più fra la moglie e il marito, dove invece era sempre stato come un’ombra maligna. Insieme alla verità ritorna l’umanità. La vittima depone la forza che ha desiderato usare per distruggere. La forza è per gli Dèi. Gli umani hanno la giustizia.

 

Vengono in mente le parole di Martin Luther King: “con la violenza puoi uccidere un bugiardo, ma non puoi ristabilire la verità. L’oscurità non può eliminare l’oscurità. Solo la luce può farlo”. La luce dell’alba illumina Paulina Lorca: un giorno davvero nuovo sorge per lei.

 

Ma questa vicenda il finale non può avere un lieto fine. L’alba è grigia: e tuttavia è un’alba. Paulina è piena di cicatrici e tuttavia ritrova, per quanto possibile, se stessa. Ritrova Schubert e la sala dei concerti dove la vediamo accanto a Gerardo; ritrova il mondo dei suoi simili. Fra loro siede anche il persecutore, e siede più in alto: ma non domina più e non fa più tanta paura.

stefania nicasi

 

Aggiungo il commento che uno spettatore di Buio in Sala mi ha cortesemente inviato per e-mail e consentito di pubblicare in questo sito:

 

Gentile Stefania Nicasi,

le invio alcune mie riflessioni a proposito del film La morte e la fanciulla e della sua relazione.

Nell’ascoltarla ho avuto la sensazione che lei sia riuscita ad individuare ed a mettere a fuoco con acutezza le dinamiche psicologiche che sottendono il film. A mio avviso la sua relazione è molto più emozionante del film, perchè ciò che lei ha colto è rintracciabile nel contenuto narrativo del film, ma non si traduce, se non a tratti, in emozioni che arrivino allo spettatore, in modo diretto, prima ancora che esso possa comprendere razionalmente ciò che il film vuole comunicare. Cercherò di spiegarmi meglio, facendo alcuni  esempi.

 

A mio avviso uno dei pochi momenti in cui il film riesce realmente a comunicare emozioni nel senso sopra indicato è l’inizio, mediante il montaggio secco e brusco di tre inquadrature: l’esecuzione in teatro del quartetto di Schubert con i primi piani delle mani e dei volti di Paulina e Gerardo; la violenza delle onde che s’infrangono contro gli scogli; una casa su un promontorio di notte  durante un cupo temporale. Non si tratta affatto di un astratto simbolismo, che il cinema mal sopporta, ma di una reale forza espressiva, che catapulta emotivamente lo spettatore nel cuore degli eventi che stanno per essere narrati. Questa notevole forza espressiva del film persiste ancora nelle sequenze in cui Paulina s’aggira nella casa, in attesa di Gerardo: soprattutto nel farci avvertire la tensione che si sviluppa nell’animo di Paulina, mentre assistiamo ad una serie di gesti e di fatti (la preparazione di una cena per due persone, le notizie date alla radio, l’improvvisa decisione di mangiare da sola, chiudendosi in uno stanzino), gesti e fatti, di cui non siamo ancora in grado di comprendere realmente il significato e l’impatto. Il colpo d’ala di questa scena sta nella bellissima inquadratura del faro che lampeggia all’orizzonte, che poi ricompare poco dopo, con l’aggiunta dei fari di una macchina. Quest’ultima sequenza culmina nel prorompere della paura di Paulina. L’originalità espressiva di quest’inquadratura sta nella intensa ed affascinante ambiguità delle immagini: utilizzata in questo contesto ed in questo modo l’immagine del faro che lampeggia in una notte di temporale riesce ad  evocare al tempo stesso molti sentimenti diversi, tra cui l’imminenza di un pericolo, una richiesta d’aiuto, l’indicazione di una via di salvezza.

 

Tutta la parte che va dall’arrivo di Gerardo fino alla fuga di Paulina riesce ancora a coniugare lo sviluppo narrativo con la capacità di comunicare emotivamente allo spettatore sia il conflitto psicologico ed affettivo  tra i due coniugi rispetto al modo di fare i conti con il passato, sia il panico, la perdita di fiducia e la paura che spingono Paulina alla fuga, abbandonando anche Gerardo, senza dirgli nulla. Paradossalmente, da qui in poi, proprio quando affronta il tema centrale del confronto diretto tra la vittima e il suo carnefice, il film s’inceppa e comincia a perdere colpi dal punto di vista espressivo. Le dinamiche  psicologiche da lei individuate ci sono tutte dal punto di vista tematico e contenutistico, ma non sono più rappresentate come ambigui e profondi moti interiori, bensì vengono utilizzate prevalentemente in modo esteriore, come ingredienti  per disorientare lo spettatore e suscitare la suspence, rispetto alla fondatezza o infondatezza delle accuse di Paulina ed alla colpevolezza o innocenza di Roberto Miranda. A mio avviso ciò emerge anzitutto dalla recitazione di Ben Kingsley "come se fosse innocente", voluta da Polansky: ottima scelta per depistare lo spettatore, ma ha il grave difetto di togliere ogni reale ambivalenza psicologica alla rappresentazione del personaggio. Non c’è niente di male di per sè nel mirare alla suspence, il problema è la congrunenza tra ciò che si vuole rappresentare e la forma  in cui lo si esprime, perchè quest’ultima incide in modo decisivo sul reale significato del film al di là delle intenzioni del regista e delle interpretazioni che se ne possono dare.

 

Lei ha perfettamente ragione nell’individuare nel passaggio dal desiderio di vendetta, fondato sull’introiezione del carnefice da parte della vittima, al bisogno di ottenere la confessione della verità, il nodo cruciale del film dal punto di vista psicologico: ma come è rappresentato questo passaggio? A me pare che anzi che riuscire a fare vivere allo spettatore le origini ed il significato psicologico del bisogno di verità da parte della vittima, il film si limita  ad utilizzarlo come espediente narrativo per creare la suspence sul piano dei fatti: non a caso è proprio da questo punto di vista che la rappresentazione di Paulina è più carente lungo tutta la parte del confronto diretto con Miranda. Non riuscendo ad essere ambiguo sul piano della rappresentazione dei moti interiori, Polanski cerca d’ingarbugliare le carte con un classico espediente narrativo brutalmente fattuale: la telefonata di Gerardo e la "prova" dell’innocenza di Miranda. Come esempio di una reale rappresentazione  del  dramma di chi si vede negata la realtà  del proprio vissuto doloroso e traumatico, mi viene in mente il film Festen di T. Vintenberg (1998).

 

Il nostro film riacquista uno spessore psicologico ed emotivo nel finale, non tanto nel "colpo di scena" della confessione di Miranda – che di per sè è perfettamente in linea con la costruzione da film giallo ed è un pò troppo lucida e forzata, quasi fosse la chiusura di un teorema – quanto invece nell’inquadratura del volto di Paulina, quando chiede  a Miranda di confessare, dopo aver respinto il suo alibi prefabbricato: l’espressione contenutissma, ma intensa di Sigourney Weayer riesce a comunicare improvvisamente in pochi secondi qualcosa di più profondo del bisogno verità di Pauline, così come i movimenti lenti e calmi con cui improvvisamente lo lascia libero e si allontana.

Intrigante il finale, con il violento stacco dall’inquadratura dello strapiombo sul mare in tempesta (sul cui ciglio si trova Miranda, lasciato solo a se stesso dopo la confessione) all’irrompere della musica di Schubert su un fotogramma buio, a cui segue la scena del teatro, con cui si era aperto il film: che si tratti della stessa scena è provato anche dal fatto che Pauline e Gerardo si trovano nello stesso teatro, ad ascoltare la stessa esecuzione del quartetto di Schubert e sono vestiti nello stesso identico modo. Forse la ricerca ed il riconoscimento della verità del nostro vissuto da parte degli altri non è che il sogno della realizzazione di un desiderio inappagabile?

 

Queste mie riflessioni critiche sul film non vogliono dire che esso sia privo d’interesse e di valore, ma solo sottolineare  l’esistenza  di un notevole scarto tra ciò che il film vorrebbe o potrebbe voler dire e ciò che effettivamente riesce ad esprimere.

Alberto Tovaglieri

 

Diario di una schizofrenica di Nelo Risi

 

Glauco Carloni, stimatissimo psicoanalista e grande appassionato di cinema, era solito chiamare il cinema e la psicoanalisi “sorelle gemelle” alludendo alla celebre affermazione di Cesare Musatti che indicava nella psicoanalisi la sua sorella gemella ponendo come riferimento il 1897. In questo anno i Lumiere proiettano il filmato con l’arrivo del treno alla gare de Lyon mentre Freud e Breuer pubblicano il primo libro di argomento psicoanalitico, gli studi sull’isteria. Contemporanee sono anche le riflessioni di Freud circa l’origine del sogno e cioè come i pensieri inconsci possono trasformarsi durante il sonno in forme visive e percettive. Freud individua nel sogno gli occhi della mente, una magica esperienza capace di travasare le nostre emozioni, le nostre fantasie e paure, i nostri desideri in forme plastiche e visive, i nostri avvenimenti psichici in immagini. Cinema e psicoanalisi quindi non solo coetanee ma anche simili: entrambe attente al confine tra sogno e realtà, tra ragione ed emozione.

“La magia del cinema è evocare ciò che non c’è e renderlo presente: ma non è forse questa un po’ la funzione dello psicoanalista? “(Goisis, 2006). Lo stesso Musatti descrive lo spettatore sicuro nella sua poltrona in una sala al buio immerso in un’esperienza regressiva ma emozionante, una condizione passiva ma recettiva, alquanto simile all’inibizione motoria che sperimentiamo durante il sogno. La sensazione di spaesamento conseguente all’improvviso ritorno nella realtà, alla fine di un film coinvolgente, quando si riaccendono le luci, è simile alla sensazione che accompagna il risveglio da un intenso sogno. E anche a quella che proviamo quando, al termine di una seduta, ci alziamo dal lettino e rientriamo nella sfera della realtà quotidiana, scontata e condivisa.

Federico Fellini definiva un film “il sogno di una mente in stato di veglia” e Bernardo Bertolucci ha più volte affermato che i suoi film si avviano spesso da un percorso onirico. Non sempre però la relazione tra psicoanalisi e cinema può dirsi soddisfacente, molto spesso quest’ultimo ha forzato concetti e metodo psicoanalitici al solo fine di creare spettacolo. Stereotipi e luoghi comuni hanno non di rado descritto psicoanalisti come macchiette superficiali o come personalità bizzarre se non patologiche e perverse. Si sono colti spesso in pellicole ispirate alla psicoanalisi i ricavati più grossolani delle teorie freudiane, oppure descrizioni del setting che molto hanno di cinematografico e assai poco di psicoanalitico. In Europa, dove, a differenza degli Stati Uniti, la cinematografia è più attenta a trame riflessive e tempi tecnici più dilatati, le complesse dinamiche della mente sono state affrontate in modo più approfondito e così pure la sofferenza psichica, basti pensare ad alcuni straordinari registi come Bergman, Trouffaut, Fellini, Wenders, Kubrick, Hitchcock.

 

Nel panorama del mondo psicoanalitico italiano, e in particolare della Società Psicoanalitica Italiana, si osserva una stretta e oramai consolidata collaborazione tra cinema e psicoanalisi. Una tradizione le cui origini risalgono alla consulenza scientifica che Franco Fornari, accettò di dare al regista Nelo Risi per la realizzazione del “Diario di una schizofrenica” presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre del 1968, in piena contestazione, dove venne accolto da lunghissimi ed unanimi applausi. In tutto nove riconoscimenti nei festival dove è stato presentato, un successo cinematografico provato dalla quantità di elogi che ha riempito la critica dell’epoca. Ascoltiamone alcuni: un capolavoro di rara penetrazione psicologica condotta sul filo di uno psicodramma freudiano, con un linguaggio di poesia (archivio nazionale cinematografico della resistenza). Il merito di Nelo Risi è quello di aver trattato un argomento di grande interesse, per nulla attraente dal punto di vista spettacolare e di averlo fatto con mano sicura, riuscendo a tenere vivo l’interesse degli spettatori, senza un attimo di rallentamento (Claudio Giorni, La rivista del cinematografo, 1968). Un film scommessa che Nelo Risi vince d’un lampo, grazie a un’intelligenza nel vedere, e una penetrazione nel sentire, tanto più rare quanto più gravi sono i rischi che il cinema corre quando corteggia la psicoanalisi (Giovanni Grazzini, Corriere della sera, 7-9-1968). Dell’opera di Nelo Risi lascia attoniti la carica di fiducia nella persona umana che ne costituisce il leit-motiv, <…> un rispetto quindi dell’uomo che è alla base dell’opera (Achille Frezzato, Cineforum, ’68). Risi ha avuto il coraggio di farci vedere comportamenti e gesti difficili da rappresentare ad un pubblico di “sani”, correndo il rischio di suscitare una imbarazzata ilarità …ma ha vinto la battaglia per la delicatezza con cui ha affrontato l’argomento e per l’estremo rispetto portato ai suoi personaggi anche nei momenti più difficili (Ermanno Camuzio, Cineforum, ’68).

 

Il film è tratto dall’omonimo Journal d’une schizofrène pubblicato nel 1950, di Margherite Andrée Sechehaye, eminente psicoanalista ginevrina; sebbene il libro sia apparso sotto il nome di quest’ultima, esso è scritto dalla paziente stessa, Renèe, nel film Anna. Esce in Italia nel 1955 corredato da una esauriente e interessante presentazione di Cesare Musatti che non esita a definirlo un documento scientifico di inestimabile interesse, uno straordinario documento umano, un’opera d’arte che con il suo linguaggio riesce a recuperare e rivelare a noi stessi un patrimonio di esperienze altrimenti ignorate. Renèe con una “notevole acutezza introspettiva sullo stato della sua vita interiore durante la malattia”, una grave malattia mentale, descrive l’apparizione progressiva dei successivi sintomi, le fasi di parziale remissione, le tappe della faticosa normalizzazione. Già nella presentazione del diario, Musatti parla di un giovane regista italiano che, innamoratosi di questo libro, chiese alla signora Sechehaye di farne un film: di tentare cioè di riprodurre, col proprio linguaggio artistico, quello cinematografico, questa che è già di per sé aveva definito un’opera artistica. Nelo Risi, non a caso medico e soprattutto poeta di alto impegno etico e civile, incontrò molte difficoltà per realizzare il suo progetto. Madame Sechehaye, interessata alla cosa, si mostrò perplessa e accordava il suo consenso solo per un film di esclusivo interesse medico. I problemi che venivano posti erano sostanzialmente due: o si registrava dall’esterno la malattia di Renèe, contravvenendo all’essenza del Diario, o si rappresentava la sofferenza mentale della protagonista con grandi rischi di esiti grotteschi e approssimativi. Nel 1965 Marguerite Sechehaye muore e, solo dopo aver superato le resistenze dei suoi editori, Nelo Risi riesce ad avviare il suo progetto: scrive la sceneggiatura con Fabio Carpi e chiede la consulenza scientifica al prof. Franco Fornari.

 

La ventottenne Renèe del caso autentico diventa una ragazza italiana di 17 anni, Anna, primogenita di una ricca coppia borghese, una sorella minore. Ella presenta i primi disturbi della personalità, non riconosciuti, a 6 anni, interrompe gli studi alla terza media e da quel momento si succedono ripetuti ricoveri in casa di cura fino ad un serio tentato suicidio. Le consuete cure non producono nessun miglioramento e, oramai in un grave stato regressivo, Anna viene ricoverata in una clinica svizzera dove c’è Bianca, Madame Sechehaye, “che cura senza le medicine”. Anna soffre molto, un universo minaccioso, il “sistema”, di idee deliranti, di terrori autopunitivi e di allucinazioni uditive paralizzano il suo sviluppo psichico e intellettuale. Le prime sedute sono disperanti, Anna è chiusa nel silenzio e il suo comportamento incomprensibile. La cura è lenta e la famiglia sfiduciata, quando la situazione sembra però schiarirsi una drammatica ricaduta, scatenata dall’incontro con un’altra paziente, provoca un nuovo e grave tentato suicidio. Anna precipita in uno stato di profonda e irraggiungibile regressione e Bianca decide di portarla casa sua dove solo la morfina riesce a placare le sue sofferenze. A poco a poco Anna riemerge, occorrono diciotto mesi perché possa ricostruirsi attraverso l’assoluta dedizione di Bianca e la sua tecnica terapeutica, la tecnica della realizzazione simbolica, così elaborata e definita dalla stessa madame Sechehaye nel diario e fondamentalmente costruita sopra un unico caso, quello di Renèe, Anna. Una tecnica che la psicoanalista afferma di avere ideato grazie a un modello suggerito dalla paziente stessa. E’ Anna che, procacciandosi furtivamente le mele, esprime il suo desiderio di nutrimento affettivo, indicando in tal modo la natura dei suoi bisogni e il mezzo per soddisfarli simbolicamente. Il suo desiderio è però un desiderio proibito, pericoloso e quindi non può essere soddisfatto non solo per un’impossibilità reale (la paziente non è una poppante, l’analista non è una nutrice) ma anche perché il senso di colpa non glielo consente. Occorreva, ci spiega la Sechehaye, soddisfare questo profondo bisogno in forma puramente allusiva e la forma simbolica lo poteva consentire. La realizzazione simbolica (attraverso la tigre, la culla, la bambola) di situazioni non direttamente affrontabili consente in Anna un progressivo adattamento alle esigenze di quella realtà sentita come insopportabile.

Fin dalle prime immagini la malattia di Anna viene presentata con chiarezza e semplicità, la sua scheda clinica viene letta dalla calda e solida voce di Bianca (Lilla Brignone) che descrive la gravità della sofferenza mentale in cui la giovane paziente si trova. Allo spettatore solo poche concessioni estetiche ai fini dello spettacolo, la materia è insidiosa e la scelta è di raccontarla con distaccata limpidezza, guardarla con occhio asciutto, gli ambienti sono pochi e sempre gli stessi, rari gli esterni, predominano il bianco e i colori freddi, gli effetti flou per i ricordi di Anna. Una regia rigorosa che adotta un’efficace semplicità di linguaggio e una struttura narrativa in cui Bianca e Anna sono lo “spettacolo” da osservare con partecipazione, il loro dramma intimo e personale che Risi ci presenta con straordinaria umanità.

Dopo una serie di ricoveri in cliniche private Anna viene affidata alle cure di Madame Blanche, una psicoanalista, che dopo un lungo trattamento, riesce a entrare in comunicazione con lei. Un procedimento terapeutico che si colloca fra l’avventura scientifica e l’avventura umana e nei momenti più efficaci del film è l’interesse umano a nutrire quello scientifico fondendosi in un’unica dimensione. Ingenuità di rappresentazione, eccessive schematizzazioni, qualche effetto melodrammatico e ridondante fuori chiave, sono difetti che si possono perdonare alla luce della grandezza umana delle due attrici protagoniste, due complesse figure femminili, sapientemente scelte dal regista: Ghislaine D’Orsay, all’epoca esordiente, studentessa diciassettenne e candidata come migliore attrice nel ruolo di Anna; perfetta e toccante Margarita Lozano nella parte di Madame Blanche, una figura di donna dimessa ma ricchissima di doti umane e di autentico valore. Un po’ sfuocati e di maniera i genitori, Umberto Raho e Marija Tocinowsky.

Sebbene Risi ritenga la sua opera dotata di un impianto rigorosamente scientifico, il compito attribuito dal regista allo spettatore non è quello di giudicare il valore scientifico del film ma quello di recepire attraverso le immagini (e qui uso le sue stesse parole con cui egli introduce la sceneggiatura definitiva del film) “un caso clinico assoluto, paradigmatico e che come tale può assurgere facilmente a simbolo del mondo alienato in cui viviamo. L’estraniamento di Anna dalla realtà esteriore conduce a un approfondimento di quella interiore che solo una malata guarita è in grado di rivelarci; cose impenetrabili vengono così alla luce non come astrazioni difficilmente rappresentabili ma come fatti reali, deliri vissuti, angosce sofferte, come sconfitte e vittorie del personaggio prescelto. Anna è un individuo murato vivo che sente e patisce ma non è in grado di comunicare. Nel film l’autore è dalla parte del malato, e lo spettatore sarà portato a identificarsi con lui, a soffrire e a trionfare con lui. La solitudine di Anna,17 anni, bellissima, bionda e fragile, ma con un fuoco dentro, incontra sulla strada la guaritrice. Allora la disgregazione dell’Io, per un atto d’amore, pazientemente viene ricomposta, e la tentazione dell’annientamento cede di fronte all’amore della madre-analista. Per questo – continua il regista – è un film d’amore, nel vero senso della parola. Ed è per un miracolo d’amore che Anna ritrova la realtà e scopre il mondo”.

Si potrebbero porre due domande differenti riguardo a questo film: 1) se, nei termini dell’estetica cinematografica, possa essere considerato un film riuscito, valutandone la trama, la regia, la sceneggiatura, la recitazione degli attori, la fotografia eccetera; 2) quale valore documentario possa avere dal punto di vista psicoanalitico, cioè se rappresenti in maniera sufficientemente attendibile e rigorosa il processo terapeutico.

Abbiamo già detto del primo punto, ricordando il generale apprezzamento, che qualche volta sfiorò l’entusiasmo, con cui il film fu accolto dal pubblico e dagli ‘addetti ai lavori’. Quanto al secondo punto, qualche riserva è inevitabile. Riserve, beninteso, che riguardano il film e non il libro a cui si ispira. Una, in particolare: il regista tende a offrire un’immagine idealizzata dell’analista come una specie di fata buona e salvifica, inoltre, lascia in ombra il conflitto latente nella relazione tra paziente e analista e, in generale, l’ambivalenza transferale e controtransferale. Quasi onnipotente, Bianca in soli diciotto mesi compie un miracolo. Questa osservazione ci riporta a quanto detto all’inizio: la rappresentazione cinematografica dello psicoanalista, quando non è oggetto di satira o di burla, cioè quando è presa sul serio, tende a polarizzarsi intorno a due figure-simbolo: il Genio del Male e l’Angelo Salvatore. Del resto, questa immagine realistica è un’ardua conquista anche per i nostri pazienti, e viene conseguita solo al termine di un lungo e difficile cammino analitico.

L’argomento è quindi complesso ma ritengo che in ogni caso dobbiamo a questo libro e a questo film un’importante precisazione. Freud, nel 1932 (Nuova serie di Lezioni introduttive alla psicoanalisi, lezione XXXIVa) parla di “totale inaccessibilità delle psicosi da parte della terapia psicoanalitica”. E, un po’ più avanti, sempre a proposito delle psicosi dice: “Noi le comprendiamo al punto che sapremmo benissimo dove inserire le leve, ma queste non sarebbero ugualmente in grado di smuovere il peso”. Renèe fu inviata a Madame Sechehaye intorno al 1930 da uno psichiatra con queste parole: “Si tratta dell’inizio di una schizofrenia e la psicoanalisi è inutile, si può però arrecare un certo sollievo all’ammalata cercando di farla parlare”. A rigore, dunque, Madame Blanche non conduce una psicoanalisi di una schizofrenica, giacché la tecnica e il setting psicoanalitico sono del tutto alterati o addirittura assenti, bensì usa la propria formazione di psicoanalista e un modello teorico relativo alla schizofrenia per costruire un setting e una tecnica specifici. E’, insomma, una psicoanalista che cura una schizofrenica, e non una psicoanalista che sottopone ad analisi una schizofrenica.

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