Cultura e Società

Chernobyl di J. Renk. Recensione di A. Cordioli

15/07/19
Chernobyl di J. Renk. Recensione di A. Cordioli

Autore: Anna Cordioli

Titolo: Chernobyl

Dati sulla serie: regia di Johan Renk, sceneggiatura di Craig Mazin, produzione HBO, USA, U.K., release 6 maggio 2019, durata 5 puntate 60’ – 72’.

Genere: drammatico, storico

 

E questo, alla fine, è il dono di Chernobyl. Se una volta temevo il costo della verità ora chiedo solo: qual è il costo delle bugie?” (Legasov)

 

Capita a volte che i pazienti ci vorrebbero raccontare un film, ma temono di svelarci dettagli della storia: temono cioè di farci uno “spoiler”, togliendoci dalla condizione di essere degli spettatori come tutti gli altri, cioè ignari delle svolte in arrivo.

È innegabile che la nostra relazione con la precognizione degli eventi futuri sia un tema quanto meno ambivalente: c’è chi vuole già sapere se ci sarà un colpo di scena (nella a storia o nella vita) e chi vuole essere colto di sorpresa. De gustibus …

D’altro canto, noi facciamo un lavoro molto particolare, in cui ci vengono continuamente raccontate storie e molto spesso le prime cose che scopriamo sono proprio gli eventi traumatici, le macro-trame se non, addirittura, le conclusioni. Noi dobbiamo imparare ad avere a che fare con gli spoiler.

Come succede ai biografi o agli storici, il finale ci è già noto, lo “spoiler” è parte del nostro lavoro, perché ciò che ci guida non è (solo) la ricerca del “cosa” sia successo ma soprattutto del “come”.

È questa la scelta narrativa operata dalla serie TV “Chernobyl”. Fin dalla prima scena ci vengono dati tutti gli “spoiler” possibili: il crimine, il colpevole designato, il destino del paladino.

Il delitto è l’esplosione del reattore della centrale nucleare di Chernobyl, il 26 aprile 1986; i colpevoli sono il “direttorio” della Centrale Nucleare e sappiamo anche che destino avrà il paladino che ha lottato per scoprire la verità.

C’è qualcosa di evacuativo in questa prima scena: qualcosa nelle luci e nei dettagli, ci dice tanto tempo è stato consumato nell’ombra e che non si può più tenersi dentro ciò che si sa. Il costo di questa rivelazione è direttamente proporzionale alla forza del divieto che l’aveva ostacolata.

Ma, non appena svelato il finale, la tensione si sospende ed è solo allora che parte davvero la storia, e la storia è quello che abbiamo bisogno di ripensare, ripartendo dall’inizio, dal momento in cui ogni vita scorreva ignara.

 

Curiosamente, in “Chernobyl”, non esiste un narratore: la storia si svolge con salti temporali, all’indietro ed in avanti, e con spostamenti di località, dalle viscere claustrofobiche del reattore agli spazi sterminati della natura ucraina e bielorussa. Questo oscillare continuo spossessa lo spettatore del diritto di concentrarsi su un solo luogo o su una sola persona. Egli viene, invece, indotto a guardare in ogni direzione, come se fosse un’entità ubiquitaria, qualcosa che si irradia, e questo gli fa percepire una sorta di appartenenza diffusa, non tanto ad un singolo destino, ma a quello di una intera popolazione.

Questo elemento diventa via via un’àncora di salvataggio, che ci permetterà di vedere morire o sopravvivere singole persone, provando un vero dolore, ma senza restarne abbacinati; ma è anche il motivo della più profonda angoscia, poiché attraverso questa coralità, si riesce a misurare quanto grande sia stata reale la minaccia dello sterminio di coloro che sono uomini piccoli e senza volto, un crimine che la storia ha sempre, in fondo, emendato.

Proprio perché sappiamo già che il colpevole è stato condannato, è ben altra la giustizia di cui si sente forte il bisogno: non quella che punisce gli eventuali colpevoli, ma quella che salva gli innocenti.

Questo film in cinque puntate riesce ad evocare nello spettatore riflessioni scomode e complesse senza mai cedere alla retorica, senza puntare mai il dito contro un unico cattivo; ma semmai pone problemi, proprio perché si sofferma a comprendere il “come” più ancora del “cosa”.

Come si sono svolti gli eventi quella notte a Chernobyl? Come si sono prese le decisioni nelle stanze del potere? E nelle stanze degli ospedali come hanno affrontato un pericolo mai visto prima?

 

È fin doloroso vedere come la prima reazione del direttore della centrale è uno stolido diniego: la centrale non è esplosa, le centrali di quel tipo non esplodono, è solo un incendio.

Sappiamo che un Io rigido fatica ad accettare che sia avvenuto qualcosa di terribile e pericoloso per l’identità del soggetto ma, a Chernobyl, quel primo rifiuto della verità diverrà sineddoche di un funzionamento diffuso a tutti i livelli.

Come in un processo analitico, il superamento di questa posizione farà tremare tutto, come se accettare che una cosa è accaduta fosse ancora più traumatico dell’evento stesso. E se all’inizio della narrazione la questione è riuscire a comprendere gli eventi e i vissuti, ben presto il problema centrale diviene la ricerca della verità e il continuo ripensamento dei contributi di ciascuno.

Tre grandi scenari psichici ingombrano questo processo: l’ingenuità, la spinta a sapere e la vergogna.

È surreale e doloroso vedere gli abitanti di Chernobyl che, come falene attirate dallo spettacolo, si avvicinano quanto più possibile a quello che pensano essere un incendio. Per noi, europei del 2019, è un comportamento incomprensibile: noi fuggiremmo il più lontano possibile dalla fonte delle radiazioni, e proviamo disagio nel vederli sorridenti sotto le polveri. Ma quel dolore che sentiamo è il dono prezioso della consapevolezza, un dono che loro ancora non potevano avere.

A quelle persone, quella notte e per i giorni successivi, verrà detto che quello era solo un piccolo incidente e neppure le prime ustioni da radiazione farà loro capire la portata della menzogna.

L’ingenuità che ci vene mostrata è soprattutto uno stato di dipendenza psicologica nei confronti dell’istituzione statale, che è più che una fede: è soprattutto un affetto, cementato dalla gratitudine che lega i bimbi all’adulto ideale. Se non credi a ciò che ti dicono i grandi, sei prima di tutto un ingrato, poi sarai un traditore e poi verrai espulso dalla comunità.

Cosa è in fondo una esplosione nucleare di fronte al rischio di perdere tutto il proprio mondo?

Questo film ci mostra, senza dare facili giudizi, quanto facilmente si cerchi di non sapere per non dover entrare in scontro. La verità è un lusso che si possono permettere solo coloro che confidano di sopravvivere ad essa.

All’inizio sono solo pochi coloro che osano leggere la realtà e diviene fondamentale il contributo di un fisico nucleare, Legasov, che comincia a raccogliere gli indizi e a farsi un quadro sensato del dramma ma anche del rischio che ancora si sta correndo. La sua è la voce di una Cassandra che promette malattie, distruzione e morte per un arco di tempo che supera l’idea stessa delle generazioni.

Egli non viene ascoltato perché presagisce il disastro nucleare su ampia scala, ma perché la sua previsione, se si avverasse, comporterebbe di dover ammettere un fallimento, di fronte al mondo. È la minaccia della vergogna che costringe l’establishment a mandare qualcuno a controllare di persona la misura del danno.

Per tutto il tempo, verità e mistificazione si alterneranno, facendo guadagnare terreno alla comprensione, ma arretrando ogni qual volta lo svelamento divenisse troppo minaccioso. In tutto questo non mancherà di dire la sua il KGB, un’istanza paranoica ma anche cementante. Come per la tenuta dell’Io, anche in questo caso dobbiamo chiederci quale sia la quota di verità che la struttura può sopportare prima di frantumarsi.

Ma, una volta che il mondo si è accorto del disastro, che i satelliti del patto atlantico hanno mostrato a tutti le foto del reattore esploso, che la realtà buca le finzioni, cosa e come accade?

Non è meno terribile ciò che è successo: le deportazioni istantanee dei civili, lo sterminio degli animali, le mezze verità dette ai militari e ai lavoratori convocati presso la centrale.

Sono davvero moltissime le storie, le figure, le disperazioni che questo film ci permette di intravvedere ed alcune di loro resteranno fermamente impresse nella mente dello spettatore. Esse non sono solo spezzoni di storia realmente accaduta, ma sono anche archetipi di diversi modi di avere a che fare con la minaccia della morte. Chernobyl diviene via via una tragedia greca, in cui ogni dialogo è un grido di esistenza e il depositario di pensieri profondissimi.

Man mano che la storia avanza, e che le consapevolezze si consolidano, incontriamo via via persone sempre più capaci di trovare un loro personale impasto di verità e negazione, meno perverso e a tratti più dolce. Ciascuno di loro sa che è molto probabile che le radiazioni ricevute li avvicinerà alla morte e ciascuno si accosta a questo rischio con dignità e sensibilità molto diverse.

Mai una volta il regista indugerà su scene patetiche e gratuitamente strappalacrime. Ci viene anzi restituita una profonda dignità del popolo ukraino e russo: dalla moglie del pompiere alla vecchia che munge la sua mucca, tutti ci appaiono figure necessarie per capire.

In particolare è potentissima la ricostruzione delle vicende di una brigata di minatori chiamati a scavare dei tunnel, esattamente sotto il reattore, mentre questo stava fondendo il terreno e sarebbe sprofondato nelle falde acquifere. In un momento in cui non si poteva ancora dire la verità ai lavoranti, Legasov chiede al Generale Shcherbina se voleva che mentisse a quegli uomini sulle radiazioni a cui si stavano per esporre. Il generale risponde che è impossibile mentire loro, avrebbero capito tutto appena lui avesse aperto bocca: “Quelli lavorano nell’oscurità. Quelli vedono tutto!”. I minatori capiscono così bene la dimensione del sacrificio che gli veniva chiesto che lavorano totalmente nudi, almeno per meglio sopportare le temperature, tanto non sarebbe stato un semplice lembo di stoffa a salvarli dalle radiazioni.

 

Questa serie, bellissima, merita senza dubbio di essere guardata e ripensata. Tra i suoi tanti pregi, sottolineati anche dall’accoglienza entusiastica della critica e del pubblico, ha soprattutto quello di ricordarci che la ritessitura della Storia, anche di quella che pensiamo di ricordare, ci impone onestà e rispetto.

La verità non è un tribunale, ma dovrebbe essere un processo.

Inoltre, come la psicoanalisi, quest’opera ci ricorda che non è poi così facile abbracciare la verità tutta d’un colpo e che essa non arriva per “scoperchiamento” -quella è la “apofenia”, la rivelazione del delirio (Conrad, 1958) – ma che, semmai, ci si avvicina ad essa con dolorose perlaborazioni della realtà e sopravvivendo alla vergogna di esserci scoperti ingenui, fallibili, cattivi… morituri.

La differenza sta nella profonda volontà di tornare a riconoscere la verità in mezzo a tutte le bugie che ci hanno detto ma anche a quelle che ci siamo detti. Questa consapevolezza ci avrebbe salvato tante volte, se l’avessimo potuta avere, ma l’unico modo per acquisirla è tornare a guardare “come” si sono svolte le storie di cui pensiamo di sapere già tutto.

 

Riferimenti bibliografici

Conrad K. (1958). La schizofrenia incipiente. Fioriti Editore, Roma, 2013.

Luglio 2019

 

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