Cultura e Società

“Dio è donna e si chiama Petrunya” di T. S. Mitevska. Recensione di A. d’Arezzo

23/11/20
"Dio è donna e si chiama Petrunya" di T. S. Mitevska. Recensione di A. d’Arezzo

Autrice: Adriana d’Arezzo

Titolo: “Dio è donna e si chiama Petrunya” (“Gospod postoi, imeto i’ e Petrunija”)

Dati sul film: regia di  Teona Strugar Mitevska, Repubblica di Macedonia, Francia, Belgio, Slovenia, Croazia, 100’Croazia, Sky

Genere: Drammatico

 

 

 

“Imparare a disobbedire”

Nella prima inquadratura una donna sta immobile su una delle linee che segnano le corsie di una piscina vuota.

Il film è diretto da Teona Strugar Mitevska, una regista che mostra di conoscere a fondo le molte implicazioni celate dietro un banale fatto di cronaca. Si tratta di una storia minima che si svolge in un borgo piuttosto anonimo della Macedonia.

Durante una cerimonia religiosa, i giovani maschi lottano per conquistare “la croce” lanciata nel fiume dal prete alla fine della processione, al vincitore porterà fortuna per un anno. Una giovane donna, Petrunya, si getta nella mischia e nell’acqua gelida riesce a prendere il trofeo scatenando incredulità e ira.

Poco prima Petrunya aveva sostenuto un umiliante quanto inutile colloquio per trovare lavoro e si aggirava tra la gente sovrappensiero.

Si scatena una rissa, a stento domata dal celebrante, la ragazza scappa a casa con la croce, si barrica nella sua stanza come un’adolescente.

Petrunya vive con i genitori in un clima difficile, la madre la rimprovera spesso e la tratta da ragazzina, il padre la sostiene, ma non osa contrastare la moglie. Non è bella, un po’ sovrappeso, non fa niente per rendersi attraente come vorrebbe la madre che la spinge a mentire sull’età e la vorrebbe meglio vestita. Si presenta com’è, non cerca lo sguardo maschile per autorizzarsi a vivere. Cerca un lavoro, ma come laureata in storia non c’è niente per lei, se non l’arroganza del capetto di turno.

L’episodio della croce diviene oggetto di attenzione di una piccola troupe televisiva capeggiata da una giovane giornalista che decide di dare rilievo alla notizia. In poco tempo l’intera famiglia apprende dalla televisione quanto accaduto con grande scandalo della madre. Madre e figlia si confrontano con rabbia, ciascuna tenta forse così di trasformare le umiliazioni subite. Intanto la Polizia cerca la misteriosa ragazza, la rintraccia e la porta in questura.

In commissariato inizia una silenziosa quanto inattesa resistenza, la Chiesa, la Polizia, il branco tutti vorrebbero che Petrunya arretrasse spaventata, restituisse la croce e basta. O meglio, semplicemente, vorrebbero cancellare il gesto di insubordinazione che non possono pensare. Lo vorrebbero negare, non accaduto. I giovani feriti nell’onore gridano: “una donna non può prendere la croce”, “non è vietato dai testi sacri” sostiene Petrunya, il prete deve convenire, tenta di placare gli animi, ma non sa governare questa tempesta. Gli uomini delle istituzioni cercano di blandire, di aggirare, di corrompere. Il branco di giovani maschi si fomenta, insorge con le armi dell’insulto illogico, violento e cieco.

Il film, in uno stile originale, insieme divertente e tragico, mette a confronto modelli femminili differenti. Attraverso la descrizione di eventi quotidiani minimi ci mostra la fatica del vivere di ciascuna e il desiderio di emanciparsi da ruoli assegnati. Petrunya e sua madre, un’amica che si sente libera nel consegnarsi ad un uomo che la sfrutta, la giornalista, ciascuna tenta di conquistare uno spazio proprio.

 

Nell’ostilità tra madre e figlia si intuisce il peso della delusione, come se nel tempo l’investimento materno sull’unica figlia, forse l’aspirazione ad un riscatto sociale, sia diventata astio.

La giovane ha compiuto il gesto d’impeto, all’inizio non sa spiegarne le ragioni, timidamente sostiene che anche lei ‘vuole essere felice’, come il rito sembra promettere ai giovani maschi. Ma è proprio questo a scatenare odio.

In commissariato, Petrunya, in modo sorprendente resiste ai molti attacchi con l’uso della logica, con intelligenza pacata e senza urla costringe gli altri ad arretrare. Svela il trucco della pecora travestita da lupo, disarma con la sua fermezza.

Perché vedere questo film?

Ci propone di riflettere ancora su aree di difficile trasformazione nel rapporto maschile – femminile, impensabili resistenze al tempo di internet. Mostra momenti in cui il pensiero si ferma e il gruppo riprende funzionamenti primitivi e diventa branco. Ci mostra, inoltre, come a partire da un gesto non calcolato, sfuggito al controllo, come un lapsus, prenda forma una strategia vincente che rende pensabili difficoltà lungamente sofferte e apre nuove prospettive nella mente di una giovane donna, oltre che aprire un varco nel gruppo dei maschi. Uno dei poliziotti, infatti, si distacca dal gruppo e le offre il suo aiuto.

Si potrebbe sostenere che nelle nostre comunità le cose non stanno più così da tempo, che le donne occupano posizioni di rilievo in moltissimi settori e continuano ad erodere terreno una volta di esclusivo dominio degli uomini. Le donne sono a capo di governi, dirigono aziende ed esercitano ogni professione. In questi giorni la prima donna in Italia è diventata rettore dell’Università La Sapienza di Roma.

Ma se è vero che nei nostri contesti sociali le donne sono sempre più presenti ai vertici delle carriere è altrettanto vero che la violenza sulle donne incredibilmente non si ferma e prende mille forme. In famiglia come nei posti di lavoro sopravvivono disparità e troppo spesso violenza.

Questo film, inoltre, ci invita a riflettere ancora una volta sui rischi connessi all’amore tra genitori e figli. Rischio, nell’educazione dei figli, di spingere troppo nella direzione dell’adattamento alla realtà, alle richieste del mondo esterno a discapito del sostegno al dispiegarsi della giovane soggettività.

Petrunya afferma il proprio diritto senza piegarsi alla logica della guerra. Nel sorprendente finale chiarisce quanto il suo agire non mirasse solo ad affermare sé stessa contro l’altro, quanto, piuttosto, ad istituire un terreno in cui poter finalmente esprimersi, sperimentare complicità, rispetto delle differenze e capacità di rinnovarsi.

Uscire dalle corsie assegnate non è facile. Questo il senso dell’inquadratura iniziale.

Il manichino di donna o forse di uomo che alla fine della lotta galleggia nell’acqua rappresenta, mi piace pensare, quanto l’adesione cieca a schemi rigidamente trasmessi, tradizioni comprese, possa trasformare le persone in inutili forme senza volto.

 

Novembre 2020

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