Cultura e Società

Divorce. Recensione di Rossella Valdré

11/01/17

Divorce, Prima Stagione, dieci episodi

Ideata da Sharon Hogan, USA, 2016

Genere: Commedia

Trailer:

Sky Atlantic, in onda.

di Rossella Valdré

Si sono conclusi alla fine di dicembre i primi dieci episodi di “Divorce”, l’attesa serie TV che la stampa annunciava come seguito di “Sex and the City”, ideata da Sharon Hogan per l’HBO, interpretata e co-prodotta da Sarah Jessica Parker, incontrastata regina dell’intero entourage.

Delle quattro indimenticabili amiche della serie più premiata, più newyorkese, divertente, irriverente, continuamente riproposta ancora oggi, che vinse innumerevoli Golden Globe ed Emmy Awards, non è rimasto più nulla, se non Sarah Jessica Parker, non più io-narrante di Carrie di “Sex and the City” ma, vent’anni dopo, diventata Frances.

Ai sogni di Carrie che rincorreva l’ambiguo e fascinoso Mr. Big per farsi sposare nella sfavillante Manhattan della ricostruzione anni ’90, tra feste, cocktail, chiacchiere notturne, splendida amicizia femminile e l’illusione che ogni realizzazione fosse possibile, si sostituisce oggi la cinquantenne Frances, sul cui bel corpo gli anni non hanno aggiunto un etto, ma la vita ha fatto inesorabilmente il suo corso.

Come piccolo inciso personale, premetto che non sono un’amante delle serie TV, le ho praticamente perse tutte: non ho pazienza, troppo lunghe, manca la magia del cinema, eccetera. L’unica di cui potrei ripetere a memoria circa metà delle battute è “Sex and the City”: l’incastro tra la geniale sceneggiatura di Darren Star, l’assoluta novità (rispetto alle soap fino ad allora) di quattro donne belle, benestanti, inquiete e indipendenti che si buttavano nella location più ghiotta del mondo come in un buffet a testa alta, ricavandone delusioni e risalite, ribaltando i ruoli e, tuttavia, sognando ironicamente la favola dell’amore, scandita con dialoghi piccanti e mai banali.

Era veramente un congegno d’intelligenza imperdibile. Si disse che rovinò due generazioni di trentenni, illudendole che ovunque si sarebbe vissuto come in “quella” Manhattan (e, fin qui, i danni sono, in fondo, limitati perché il cinema ha sempre creato sogni) e che l’amore corrispondesse a quell’idea, quella fantasia d’amore: che tutto appaga, che sempre coccola, che è piacere intelligente, ricchezza e gioventù.

Siamo così inevitabilmente approdati a “Divorce”, cui non potevo rinunciare, consapevole che di quel mondo, per ragioni artistiche, narrative, e anche realistiche, non vi avrei ritrovato che qualche lieve ombra.

Non più Manhattan e l’adorato appartamento da single, ma la contea di Westchester, New York, sommersa di neve, dove esistono ampie case con giardino ed è più agevole far crescere, per molti, i bambini; una galleria d’arte di prossima apertura e un marito, Robert (Thomas H. Church, candidato all’Oscar per “Sideways”) che, a differenza di Mr. Big, dalla mascella volitiva e una certa testardaggine, non risulta sulle prime molto simpatico.

Il primo episodio è come un sogno d’analisi: in una fulminante scena d’apertura, abbiamo già tutto. Frances e Robert, stanchi coniugi con due bambini che trascinano un matrimonio come tanti, vanno a una cena da amici (gli amici che ritroveremo in tutta la serie).

Si celebrano i cinquant’anni che l’amica, ubriaca, non vorrebbe avere, l’odio verso un marito di cui non sopporta la vista (“guardate com’è grasso”) e, in un’atmosfera sempre più pesante, ma autenticamente dolorosa come può capitare in tante feste, sotto l’ebbrezza di un bicchiere di troppo, gli spara un colpo.

Con la messa in scena dell’odio coniugale, dell’amicizia, del rimpianto, del tempo che passa, dalle fantasie inconsce di far fuori l’altro per sopravvivere, si apre “Divorce”.

“Vince chi arriva a uccidere l’altro”, scriveva del matrimonio l’arguto commediografo Emannuel Schmitt (2003).

Dal fulminante inizio (che resta, a mio avviso, l’episodio migliore della prima serie), il seguito di questo contemporaneo “scena da un matrimonio” non sarà sempre così tragico, né così arguto. Si deve riconoscere però a “Divorce”, così come a “Sex and the City” – e che trovo ancora impensabile nelle analoghe serie nostrane – tanto coraggio per la verità: a metà della vita, epoca dei bilanci, il matrimonio può non essere quello che le quattro amiche di vent’anni prima sognavano.

La serie non risparmia il vero dell’ambivalenza che vacilla, i rancori e l’odio prendere il sopravvento. Se vediamo la scena come, appunto, un sogno o un atto simbolico, l’apertura è dura: sto diventando vecchia e vorrei farti fuori, quello che siamo diventati mi fa orrore. Mettendo il lui l’eccedenza che la disgusta (il grasso) e sottolineando lui il passare degli anni di lei, capiamo già che non si lasceranno; se lui sopravvivrà, come accade, tutto tornerà come prima, al né-con-te, né-senza-di-te.

L’episodio ha un forte impatto su Frances che, in crisi da tempo con Robert, si interroga sul suo matrimonio. È finito, lo sa. Non tanto per l’improbabile amante che si è scelta, un professore di letteratura che Robert si ostina ridicolmente a definire “francese” (lo straniero, l’intruso alle nostre vite), ma è finito parchè le cose finiscono, si sono allentanti, non hanno più nulla da dirsi. Soprattutto Frances.

Scritta da una donna, interpretata e coprodotta da una donna, “Divorce” non nasconde il suo taglio e l’identificazione che muove nel pubblico per Frances in primis, e per le amiche, gli altri personaggi femminili, in generale. È Frances che apre la crisi, è Frances che chiede la separazione e affronta l’attonito Robert, è Frances che sperava nell’amante il quale, secondo clichè, al sentire che diventa libera si defila, è Frances che tenta di rinnovarsi aprendo la galleria d’arte nel succedersi degli episodi, è Frances che tenta la mediazione familiare prima di ricorrere agli avvocati, è Frances la prima che vuole parlarne ai bambini.

Frances, la donna, come rivelano statistiche e media, quella che sembra portare il peso dell’emancipazione, nel bene e nel male: essere attiva. È con lei che lo spettatore (forse prevalentemente femminile) tende ad identificarsi; se i “fatti” sembrano condannarla (aveva un bislacco amante), i suoi percorsi mentali sono più empatici e raffinati.

Venuto a conoscenza dell’amante, al secondo episodio Robert la caccia di casa; rigido fin quasi il caricaturale, non cede di un passo e, in visita all’amico ferito in ospedale che nel frattempo ha perdonato e si è riappacificato con la moglie, mantiene ferma gelosia e ostilità e la estende, con classica reazione machista, a tutte le donne. L’evidente reazione difensiva, che lo rende spigoloso e quasi ottuso, si scioglie in alcuni attimi dei successivi episodi; “ho fatto quello che ho potuto”, dirà a Natale, nella non facile visita alla casa dei genitori di lei.

“Divorce” narra dunque, letteralmente, senza infigimenti, eccessi drammatici e inutile ilarità, la storia dolceamara (più amara che dolce) del lungo divorzio tra Frances e Robert. Inizia dove generalmente i film finiscono, così per come realisticamente avviene nella maggior parte dei casi, tra la gente comune: problemi economici non facilitano (mentre la galleria di lei va bene, gli affari di Robert vanno male); come dirlo a bambini che, come i tipici bambini di oggi sembrano sempre sapere già tutto e sono incapsulati nei loro iphone; come dirlo ai vecchi genitori; il tentativo inutile della terapia di coppia, fino all’entrata in scena degli avvocati. Il salto dalla mediazione, voluta da Frances, all’aggressività degli avvocati, voluti da Robert con una certa iniziale ingenuità, cambia le carte in tavola e immette un “terzo” sulla scena che spinge paradossalmente i coniugi sullo sfondo: il sistema legale. Da un certo episodio in poi, si fa quello che dice l’avvocato.

Acuta e moderna analisi dei paradossi, delle crepe, dei costi e dello strapotere degli avvocati nei divorzi, in un significativo passaggio – che segnala il passo dei tempi in un vero cambio di paradigma che gli Stati Uniti in genere anticipano – Frances deve rinuciare a un nuovo renumerativo lavoro. Accettarlo la costringerebbe a dover pagare costosi alimenti a Robert, molto meno abbiente, il cui avvocato ben gli consiglia di restare povero e approfittarne.

Il mondo è cambiato. L’emancipazione si è ritorta contro la donna?

È uno degli interrogativi che la serie lascia aperti, non certo l’unico.

Ma, riletto in chiave simbolica, coglierei, tra gli altri, il dialogo intorno alla vendita della casa come chiave tematica di questa prima trance:

– Vale la pena cambiare quello che si ha? O tanto vale tenerselo?

– E se dietro il nuovo non ci fosse niente?

È questa la domanda che chiunque abbia attraversato un divorzio, almeno una volta dovrebbe essersi posto.

“Divorce” cattura proprio per la forza della normalità, chiunque può ricoscervisi: eccetto le star hollywoodiane e i calciatori che fanno tutto in una settimana, le persone normali entrano, non di rado, in un processo lungo, doloroso sul fronte interno, che li trova impreparati su quello esterno: avvocati, estenuanti attese, ricorsi, spese, ripicche, la solidarietà residuale trasformata in inimicizia obbligata da un Sistema che per tutelare mette l’uno contro l’altro, anche loro malgrado, come Frances e Robert.

Intorno, quattro coppie che non se la passano meglio. Si respira ironia, poiché il tono vuole essere lieve, ma assolutamente sincero e, lo ripeto, questo è il pregio, si respira infelicità.

Frances, dei due, è la più disposta a correre il rischio. Rimettersi in gioco a cinquant’anni. Ancora bella, due figli, le ferite della vita, le nostalgie … Sarà un continuo ripianto? Un lutto poco consolabile? Un’illusione dietro alla quale non c’era niente? Una nuova opportunità?

Li seguiremo nella seconda stagione su Spiweb!

Bibliografia

Schmitt E. (2003): “Piccoli crimini coniugali”, E/0, Roma, 2006

Gennaio 2017

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