Cultura e Società

“Dogman” di Matteo Garrone. Recensione di Angelo Moroni

17/09/18

Autore: Angelo Moroni

Titolo: Dogman

Dati sul film: regia di Matteo Garrone, Italia, Francia, 2018, 102′

Genere: Drammatico

 

“Finché l’uomo sfrutterà l’uomo, finché l’umanità sarà divisa in padroni e servi,

non ci sarà né normalità né pace.

La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui”.

(Pier Paolo Pasolini)

 

 Il crudo neorealismo in cui “Dogman” immerge lo spettatore fin dalla prima inquadratura fa immediatamente toccare la cifra stilistica con cui Garrone sviluppa la sua poetica, iniziata con “L’imbalsamatore” (2002), e proseguita con “Primo amore” (2004), “Gomorra” (2008) e “Reality” (2012).

Come per “L’imbalsamatore”, il film trae spunto dal caso di cronaca nera del “Canaro della Magliana”, avvenuto negli anni ottanta a Roma: il brutale omicidio dell’ex-pugile Giancarlo Ricci, da parte di Pietro Negri, toelettatore di cani.

Garrone fa di un efferato delitto italiano l’occasione per una riflessione sulla necessità dell’uomo di sopravvivere nella desertificazione dell’umanità, in questo caso la periferia degradata di Castel Volturno, provincia di Caserta, luogo che ci appare come un Far West attraversato da emozioni primitive, nel quale vale solo la legge del più forte, e dove il desiderio, l’affetto, il legame umano incontrano solo il destino della sopraffazione.

Castel Volturno, estrema propaggine della pianura campana, “non-luogo” assoluto, archetipico in tal senso, nella sua povertà, nel suo rappresentare la condizione di “quasi-morte” (Joseph, 1981) di un sottoproletariato urbano che cerca di tirare avanti giorno per giorno, nonostante un ambiente completamente avaro di risorse umane, economiche, culturali. In questo non-luogo atrocemente inumano vive Marcello, mite ed esile uomo dedito alla conduzione del suo negozio di toelettatura e pensione per cani.

All’interno di questo ambiente fatto di degrado e abbrutimento quotidiani, nel quale non trova dimora nessuna speranza di riscatto e di futuro, di evasione liberatoria da quel microcosmo imprigionante, Marcello è tuttavia disperatamente attaccato alla vita, che vede innanzitutto negli occhi di sua figlia, la piccola Sofia, che porta a fare immersioni subacquee, oppure nell’accudimento dei suoi amati cani. Si tratta di piccole ma fondamentali oasi nel deserto, da cui Marcello trae la speranza per andare avanti. Ma non ci sono solo queste oasi, purtroppo, c’è anche Simone, il suo “amico” violento, vero ras del quartiere che tutti vorrebbero uccidere per sbarazzarsi della sua megalomania, della sua cieca violenza. Simone è un vero e proprio Döppelanger di Marcello, e Garrone ce lo presenta così, come un Doppio antitetico e speculare di Marcello, la forza bruta, l’assenza di controllo. A vedere il rapporto tra i due “amici” attraverso l’occhio di Garrone, viene in mente il Sam Peckinpah di “Straw Dogs” (“Cane di paglia”) (1971), film che condivide con “Dogman” l’idea, profondamente pessimistica, di una resa incondizionata ad ogni possibilità da parte dell’uomo di recuperare la felicità perduta, cioè il sogno ideale di un’umanità solidale, unita da valori vitali autenticamente condivisi. Come Peckinpah, anche Garrone vuole infatti descrivere l’escalation di violenza in cui viene spinto un uomo mite quando un ambiente fatto di pura sopraffazione invade il suo orizzonte etico-affettivo. Come in “Straw Dogs”, anche in “Dogman” il dolente paesaggio umano che viene disegnato dal regista è un ambito in cui le regole e il senso della convivenza vengono meno (in realtà sembrano non essere mai esistite): nel finale di entrambi i film, un mite professore (interpretato da Dustin Hoffman) e un tranquillo, amabile toelettatore di cani (interpretato dal vincitore di Cannes Marcello Fonte), compiono il loro personale rituale purificatore attraverso una terribile carneficina, rituale che porta il segno di qualcosa di intrinsecamente ed ineliminabilmente primitivo. Entrambi i film parlano della definitiva caduta dei “garanti metapsichici” (Kaës, 2009) facendoci cogliere, con toccante intensità emotiva, quel sentimento di Bewilderment (“smarrimento”) che caratterizza, secondo Bollas (2018) l’orizzonte melanconico in cui l’umanità sta vivendo il suo tempo attuale. In quest’ottica il film di Garrone possiede notevoli suggestioni psicoanalitiche, poichè pone cioè la crisi dell’umano nel cuore stesso del tessuto intersoggettivo, relazionale e gruppale in cui il soggetto viene oggi a trovarsi, a costituirsi e a costruirsi quotidianamente. Si tratta di un cinema che, come la pratica psicoanalitica, si fa trovare là dove vibra l’angoscia, il dolore, e se ne fa carico, cerca a tutti i costi un “unisono”, un’emozione condivisa, per rappresentarla. L’opera di Garrone ci descrive l’azione corrosiva e maligna di un’assenza, quella di uno sguardo, quello di uno Stato, di un Governo, di un’Etica, intesa come Terzo che vigili, faccia da testimone e si interponga tra chi è sopraffatto e abusato e chi si fa invece portatore di una violenza insensata, di un permanente “attacco al legame”. Infatti, l’unico legame che appare davvero stabile e continuativo, e rappresentato dalle splendide immagini di questo film, è quello di una simbiosi mortifera con un ambiente architettonico-urbanistico che avvolge in un abbraccio annichilente i protagonisti.

Gli unici “testimoni” rimasti, sembra volerci suggerire Garrone, sono l’occhio della regia e quello dello spettatore, che si rivolgono alla durezza della violenza senza soffermarsi su particolari cruenti e si muovono, in modo collaterale, sul piano di una tenerezza desiderosa di cogliere l’anelito affettivo, la dolcezza di un abbraccio tra padre e figlia, la mitezza che si trasforma in odio omicida per difendere se stessa, come in un estremo, tragico gesto attraverso cui Eros cerca di fermare Thanatos.

Questo dosaggio sapiente tra durezza e tenerezza mi ha ricordato una poesia di Attilio Bertolucci, che pone in una dialettica molto potente, come il film di Garrone, “assenza” e “presenza”. Con questa poesia di Bertolucci chiudo quindi queste note, aperte in esergo con una citazione di Pasolini, altro grande scrittore e poeta, tormentato testimone del degrado umano delle periferie urbane:

 

“Assenza.

più acuta presenza.

Vago pensier di te

vaghi ricordi

turbano l’ora calma

e il dolce sole.

Dolente il petto

ti porta,

come una pietra

leggera”.

 

Riferimenti Bibliografici

Bertolucci, A., (2014), Le poesie, Garzanti, Milano.

Bollas, C. (2018),  Meaning and Melancholia. Life in the Age of Bewilderment, Routledge, London

Joseph, B. (1982) Addiction to near-death, Assuefazione alla quasi-morte, in Equilibrio e cambiamento psichico, Raffaello Cortina, Milano, 1991.

Kaës, R. (2009), Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010.

Pasolini, P.P. (1999), Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano.

Settembre 2018

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