Cultura e Società

“Dolor y Gloria” di P. Almodóvar. Recensione di M.G. Gallo

10/06/19

Autore: Maria Grazia Gallo

Titolo: Dolor y Gloria

Dato sul film: regia di Pedro Almodóvar, Spagna 2019, 113’.

Genere: drammatico

 

 

Giova ad Antonio Banderas, che in “Dolor y Gloria” interpreta magistralmente l’alter ego di Pedro Almódovar, la sua età matura: non più il bel “Zorro” sexy , dallo sguardo seduttivo e accattivante, ma un viso espressivo, segnato dalla vita ed uno sguardo intenso e nostalgico, alla ricerca e rivisitazione del proprio passato.

Banderas è Salvador/Pedro, un regista in crisi esistenziale, un po’ malato vero, un po’ malato immaginario, i cui traumi emotivi hanno segnato il corpo e l’anima: il “peso” della vita ha reso fragile la sua colonna vertebrale, ha dolori diffusi e frequenti emicranie che lo rallentano o paralizzano, costringendolo a vivere in penombra, tutti a significare un blocco emotivo e depressivo.

Di fatto, Salvador è un “rifugiato” dalla vita, vive in ritiro sociale nella sua casa “mausoleo” e galleria d’arte dai colori vivacissimi e squillanti, dove tutto parla di un suo passato di gloria, appunto, ma anche di difesa maniacale dalla depressione.

Spesso si strozza e fa fatica a mandar giù i “bocconi” amari della vita e a nutrirsi: una sindrome rara gli ha causato quello che teme essere un tumore maligno.

Si tratta di avere il coraggio di affrontarlo, guardarlo in faccia e capire di cosa si tratta, esattamente come il “tumore” della sua anima, che non gli permette di nutrirsi di buoni oggetti interni e di colmare il vuoto depressivo.

Cosa è successo a Salvador? E cosa ci sta confessando il Pedro divertente e dissacratorio di tutti i suoi precedenti film attraverso quest’ultima opera sulla propria vita?

Da poco tempo è morta la madre e il lutto sembra aver riattivato le vicende traumatiche emotive profonde e il senso di solitudine del piccolo Salvador, diventato adulto: la sua elaborazione può essere possibile solo dopo aver ripercorso tali vicende e “ripararle”.

Tutto ruota intorno alla figura centrale materna e al suo rapporto con il figlio.

Il piccolo Salvador è un bambino solitario, precocemente adultizzato, che ricopre un ruolo sostitutivo di marito/padre, quest’ultimo forse morto in giovane età e che nel ricordo e nella narrazione compare solo in quanto lavoratore che ha procurato alla famiglia (ricongiuntasi a lui nel luogo di lavoro) una casa/grotta: come ”le catacombe dei cristiani”.

La “catarsi” avviene attraverso i ricordi del Salvador adulto e sofferente che a poco a poco affiorano anche sotto l’effetto dell’eroina, ultimo tentativo di auto-cura: a Salvador piace quella grotta dove, incoraggiato dalla madre, s’improvvisa “maestro” di scrittura e lettura del giovane analfabeta Eduardo che, in compenso, la ridipinge e ristruttura. E che è bravo a disegnare, così da fare un ritratto al suo “maestro bambino” fissandolo per sempre a quell’infanzia adultizzata.

È in quella grotta che il piccolo Salvador subisce il fascino conturbante della vista dello scultoreo corpo maschile dai muscoli guizzanti del suo allievo adulto mentre fa il bagno, tanto da perdere i sensi.

I ricordi proseguono: le letture solitarie di cui si nutriva e che gli facevano compagnia, il seminario che è obbligato a frequentare per poter studiare e dove canta come solista.

Ma soprattutto la memoria dei film al cinematografo all’aperto della sua infanzia, che sapeva “del profumo di gelsomino, della brezza estiva e dell’odore di pipì”.

Questo è il suo” mondo”, il suo rifugio/ritiro e tale rimane nel suo lavoro futuro di regista e di narratore di storie che prendono spunto dalle sue vicende di vita.

Salvador ha tanti “conti in sospeso” e cicatrici dolorose. È il figlio caricato di aspettative materne che, nonostante gli sforzi di riscatto personale e sociale della propria vita di bambino povero e carenziato, sente la “colpa” della separazione da lei che lo voleva stretto a sé e di essere stato “altro”, un figlio “strano”. La madre glielo rimprovera in tarda età dicendogli “Non sei stato un buon figlio”, quello che lei avrebbe desiderato, che non le rifiutasse di vivere insieme quando si è trasferito dal paese a Madrid.

È anche l’amante abbandonato dolorosamente dal compagno tossicodipendente, grande amore della sua vita, ma che l’amore non è bastato a guarire.

È l’amico/regista che ha litigato e rotto definitivamente il legame con l’attore protagonista del suo film più intenso “Sabor”, perché questi non rispettava il suo personaggio ed era dipendente dalla droga.

Ora è lui dipendente, in un gioco rovesciato delle parti, e scopre che la dipendenza e l’estraneità che rimproverava all’amico ora appartiene a lui ed è l’attore/ex amico che lo convince a mettere in scena un se stesso più autentico e ritrovato.

L’attore/amico recita “lui” e per lui e gli permette inconsapevolmente di re-incontrare non solo se stesso ma anche il grande e antico amore perduto, per poterlo lasciare andare e riconciliarsi con con l’amico e con se stesso.

Anche madre e figlio si parlano chiaramente, quando lei sa di dover morire e, quindi, di dover separarsi definitivamente dal figlio e dal mondo. Parole e gesti riparano simbolicamente il passato e il lutto: la madre gli dona l’uovo con cui ricuciva i “buchi” – dei calzini e non solo – e il figlio pone il velo nero sul capo, a segno di una possibile riparazione del lutto e di restituzione del suo ruolo anche di moglie, rimasta vedova troppo presto.

Le ferite aperte incominciano a guarire, le cicatrici a spianarsi, i legami a ricostruirsi e a ripararsi. Lentamente la vita “riprende”: i cattivi oggetti interni incistati lasciano il posto a quelli buoni, che nutrono e restituiscono vita e respiro. Salvador ora può riprendere in mano il “film” della sua vita e ri-narrarla: così rinasce dal liquido amniotico e salvifico della piscina in cui è immerso nella scena iniziale, torna la creatività del pensiero generativo e la proiezione di sé in un futuro. Palma d’Oro, dunque, meritata al grande Banderas – che durante il film mostra la vulnerabilità dei recenti problemi al cuore – e Palma d’oro ci sentiamo di attribuire noi anche ad Almódovar per aver saputo così magistralmente offrire a tutti noi, che in non poche parti ci siamo riconosciuti, la rappresentazione di Sé e della propria vita e del possibile suo processo di riparazione.

 

Giugno 2019

 

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