Cultura e Società

Eight European Psychoanalytic Film Festival, 29 ottobre – 1 novembre 2015, BAFTA, London.

9/12/15

Turning Points. Individuals, Groups, Societies.

Elisabetta Marchiori

Punti di svolta: individui, gruppi, società. Il Festival Europeo di Cinema e Psicoanalisi, giunto alla sua ottava edizione (epff8), ha affrontato un tema drammaticamente attuale e nello stesso tempo universale, quello del cambiamento.

La rivista Eidos. Cinema, psiche e arti visive, ha dedicato al Festival un numero monotematico bilingue (in italiano e in inglese), offerto ai partecipanti e reperibile nelle librerie Feltrinelli e attraverso il sito (www.eidoscinema.it), con i contributi di diversi psicoanalisti IPA sui film presentati, introdotti da un articolo di Barbara Massimilla, psicoanalista junghiana, redattrice della rivista, e Andrea Sabbadini, direttore del Festival, di cui Bernardo Bertolucci è Presidente Onorario. Vi vengono esaustivamente illustrate la genesi e le motivazioni complesse che hanno portato alla scelta di questo tema, che qui posso solo accennare.

I punti di svolta, che fanno parte della Storia del mondo e dell’umanità così come delle nostre storie individuali, richiedono di essere compresi e dotati di significati, sin dalle loro origini. Mai come in questi tempi drammatici una riflessione sul cambiamento e le trasformazioni in atto nel mondo è stata tanto urgente. Il cinema ci offre delle rappresentazioni che hanno iscritto in sé proprio il senso della trasformazione e della prospettiva (Casetti, 1996) e ci consentono di affrontarle, in un vero e proprio corpo a corpo.

Il benvenuto ai partecipanti è stato dato giovedì sera, presso la sede della Royal Society of Medicine, da Nick Temple, Presidente della British Psychoanalytical Society, che ha rilevato come il Festival sia un evento unico nel suo genere e a questo si debba il successo di tutte le edizioni. Ha focalizzato la centralità dei “punti di svolta” nel corso di ciascun trattamento psicoanalitico: ogni paziente, ogni individuo, ogni contesto macro e micro sociale tende ad opporsi ai cambiamenti ed è vitale valorizzarne gli aspetti creativi, contenendone la distruttività intrinseca e affrontando gli aspetti difensivi.

Andrea Sabbadini ha ricordato che il Festival è un’occasione per creare un dialogo costruttivo, in uno spazio libero di pensiero, tra psicoanalisi e cinema, che ha ormai completamente superato l’idea di un’applicazione dell’una all’altro. La nostra esperienza non è mai lineare, ma è costellata da eventi più o meno traumatici, vissuti come improvvisi e sorprendenti, che ne spezzano la scorrevole continuità. Usando una metafora del cambiamento a lui cara, quella del “ponte”, ha sottolineato come i film selezionati, così come i panel proposti, permettano di affrontarlo da diversi vertici. Ha ricordato la sua personale esperienza lavorativa presso un “Centro di Crisi” con pazienti in scompenso psicotico acuto e l’importanza di un intervento adeguato in un momento di cambiamento che può evolvere in senso positivo o negativo.

È quindi stato proiettato il cortometraggio Splitting Hairs (UK, 2014, 20’) diretto da Nathalie Abbott, scritto e prodotto da Diana Tatarca, vincitore del concorso per studenti proposto da epff8. Un’opera interessante, dove il protagonista è affetto da una forma di “feticismo per i capelli”, determinata da un trauma infantile. Tatarca ha raccontato di essersi ispirata a un suo sogno fatto da adolescente, e l’atmosfera onirica è ben resa dalla giovanissima regista, con uno stile che rimanda alle opere di Buñuel, Lynch e Hitchcock.

È stata poi offerta agli spettatori la visione di Behzin Meadow (Behzin lug, di Sergei Eisenstein, Unione Sovietica, 26’), su cui Eisenstein ha lavorato dal 1935 al 1937 per poi essere interrotto dal governo sovietico centrale per ragioni politiche. Ritenuto per lungo tempo perduto durante la Seconda Guerra Mondiale, nel 1960 sono stati ritrovati frammenti del film con cui ne è stata intrapresa la ricostruzione basata sulla sceneggiatura originale. La storia, realmente accaduta, è quella di un ragazzo di campagna che tenta di fermare il padre determinato a tradire il governo e viene da lui ucciso, diventando un martire politico: “Se il figlio tradisce il padre, uccidilo come un cane”, citano dalla Bibbia i sottotitoli.

Ian Christie, profondo conoscitore del cinema russo, ha spiegato le vicissitudini del film e i tormenti del regista, sottolineando come in questi fotogrammi si possa ritrovare, in nuce, la genesi del cinema russo. Lo spettatore rimane incantato alla visione di queste immagini in sequenza, ognuna delle quali appare un’opera d’arte. Segnalo che è reperibile nel web e vale davvero la pena di vederlo (https://www.youtube.com/watch?v=uidYVgnbeb4).

Venerdì e sabato si sono susseguite le proiezioni dei film – otto lungometraggi, due documentari e alcuni cortometraggi – e le rispettive discussioni in panel estremamente interessanti, oltre a tavole rotonde di approfondimento su particolari argomenti inerenti al tema, arricchite da clip sui film citati e approfonditi.

Ad aprire i lavori la tavola rotonda “Punti di svolta: prospettive storico-culturali, cinematografiche e psicoanalitiche”, durante la quale lo storico e psicoanalista Daniel Pick, l’esperta di cinema Laura Mulvey e lo psicoanalista Michael Brearley hanno discusso, coordinati da Andrea Sabbadini, queste diverse prospettive. Pick si è focalizzato sui cambiamenti della percezione e del giudizio sugli eventi nella Storia, mentre Mulvey, attraverso alcune sequenze del film Piccadilly(di Ewald André Dupont, 1929), come profonda conoscitrice della storia del femminismo, ha incentrato il suo intervento sugli elementi di modernità del femminile che questo film introduce con la figura della sua protagonista, la danzatrice esotica Shosho, che risolleva le sorti di un night club in declino, ma innesca una catena di eventi che porterà la storia fino alla tragedia.

La relazione di Brearley ha approfondito la correlazione tra i “punti di svolta” con la nozione psicoanalitica di cambiamento psichico, che può svilupparsi nella direzione di un cambiamento, di una regressione o di una reazione patologica. Ogni “punto di svolta” richiede prontezza sia da parte del paziente sia dell’analista nell’affrontarlo. Si possono individuare alcuni requisiti fondamentali delle interpretazioni ed è necessario valutare, nei momenti più critici, di poter anche “agire” psicoanaliticamente. In ogni caso, qualunque sia la decisione dello psicoanalista rispetto al tipo d’interpretazione o “azione” che offre al paziente, i risultati non potranno mai essere certi.

Due tavole rotonde sono state dedicate all’esplorazione di film che abbiano dato, come ha affermato Sabbadini, un contributo fondamentale allo sviluppo della storia del cinema europeo. Studiosi e psicoanalisti esperti della storia del cinema europeo hanno scelto un unico film ritenuto “punto di svolta” e hanno spiegato in modo convincente le ragioni della loro scelta: per l’Inghilterra Charles Drazin, per la Francia Phil Powrie e per la Russia Ian Christie, coordinati da Michael Halton; per la Spagna Peter Evans, per la Germania Martin Brady e per l’Italia Lesley Caldwell, coordinati da Catherine Portuges.

Andreas Hamburger, psicoanalista tedesco, Vivian Pramataroff-Hamburger, psicoterapeuta tedesca e Camellia Hancheva, psicoanalista bulgara, hanno presentato un’interessante esperienza di utilizzo della visione di film con gruppi di bambini provenienti da situazioni familiari problematiche e in parte istituzionalizzati. Si è discusso del diverso approccio dei bambini rispetto agli adulti alla visione di un film, che tende a essere maggiormente creativo ed espressivo, oltre che proiettivo. A seguito di questa esperienza i bambini hanno mostrato un miglioramento sul piano della mentalizzazione e dell’empatia, grazie anche alla funzione contenitivo-materna del gruppo di lavoro.

Grande apprezzamento per il film Il capitale umano (di Paolo Virzì 2013, Italia 109’), con la sala gremita per il panel, con chair Rossella Valdrè, cui ha partecipato l’attore Fabrizio Gifuni e la psicoanalista Lesley Caldwell, esperta di cinema italiano. Il film, che ha ricevuto numerosi premi ed è stato candidato all’Oscar, ha come tema centrale il fallimento dell’Etica nel mondo contemporaneo. Valdrè ha proposto di discutere i tre livelli su cui si articola il film: la società (l’avida middle-class dell’era Berlusconiana), il gruppo (le due famiglie protagoniste) e l’individuo. Ha insistito sull’incestualità, come la intende Racamier, dei legami familiari, basata sul ricatto del denaro e il segreto. Caldwell ha evidenziato le caratteristiche tipicamente italiane del film, il ritratto quasi sarcastico di un Paese alla deriva. Ci si è chiesti quali siano i rapporti tra l’individuo e il suo ambiente e se possa ancora esistere una possibilità di scelta e la capacità di assunzione di responsabilità. Gifuni ha colto con grande sensibilità questi spunti, raccontando come cerca sempre di comprendere lo specifico umano dei suoi personaggi per renderli tridimensionali e, in questo film, interpretando il ruolo di un ricco imprenditore senza scrupoli, ha potuto dotarlo di umanità. Si è focalizzato sull’importanza della voce “una delle zone più misteriose del corpo” per entrare, attraverso il suono, nella carne e nella mente dei personaggi: con le parole si può mentire, ma con il corpo no. Le domande del pubblico hanno portato alla considerazione che i film che più appassionano, come questo di Virzì, sono quelli che riscrivono sempre le stesse storie (dalla tragedia greca ai drammi shakespeariani) in una prospettiva nuova.

Al discorso di Gifuni si può agganciare il tema dell’importanza dei ruoli e dell’identità dell’attore e della profondità della recitazione, che va oltre la tecnica e “i trucchi del mestiere”, affrontata dal film Ottobre Novembre (Oktober November, di Götz Spielmann 2013, Austria 110’), discusso con il regista e la psicoanalista austriaca Elisabeth Skale. La domanda “come reciterai questa parte?”, posta all’inizio del film, ne è il filo conduttore: l’attore è chiamato a incarnare l’identità di un personaggio e nello stesso tempo differenziarla dalla propria. Attraverso le vicissitudini di un padre dispotico e delle sue due figlie, di cui un’attrice, e il modo in cui affrontano i cambiamenti della vita, quest’opera evidenzia, come ha affermato Skale, come nello sviluppo psichico e nella recitazione, allo stesso modo che nel processo psicoanalitico, è essenziale porre una linea di demarcazione tra role-plaiyng, role responsiveness e senso d’identità dell’Io. Quest’ultimo è un processo in continuo divenire, che deve essere necessariamente flessibile per fronteggiare i punti di svolta in modo evolutivo e creativo.

Il tema della voce fa da ponte, invece, con lo straordinario film-documentario Annunciazioni (Announcements, Nurith Aviv 2013, France, 68’), discusso con la regista franco-israeliana da Caroline Bainbridge e Lesley Caldwell (Chair), dove il mistero “incarnato” della parola e del suono diviene forza generatrice di vita. Il film si basa sui racconti di sette donne che hanno come filo conduttore l’Annunciazione, così come viene narrata nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e nel Corano, mostrando le origini comuni delle religioni monoteistiche e la profondità dei legami tra storie individuali, storie di nazioni e storie di religioni. Come ha detto Caldwell (Eidos, 2015): “Nello snodarsi tra immagini e parole il film propone queste storie che toccano origini comuni e la loro intensa relazione con la parola detta, il discorso […] ogni donna, introdotta con la stessa tecnica filmica di farla venire alla luce, di farla essere nel film e attraverso il film, presenta allo spettatore origini e valori condivisi, un entusiasmo per la vita nella miriade delle sue forme”.

Dalle storie di angeli passiamo a storie di demoni con il film Leviathan (Andrey Zvyagintsev, 2014, Russia 140’), il cui panel ha avuto l’onore di ospitare il grande regista Andrey Zvyagintsev, che ne ha parlato con Ian Christie e Igor Kadyrov (Chair). Il Premio per la migliore sceneggiatura a Cannes ne ha permesso la distribuzione in Russia e già questo evento, ha commentato Kadyrov, ha rappresentato un punto di svolta che ha generato dibattiti senza precedenti nella cultura russa. Infatti, Leviathan, ispirato al biblico Giobbe, mette in luce il sistema statale perverso e corrotto a livello istituzionale politico e religioso, sotteso dai contratti omertosi che i personaggi stipulano con se stessi e con gli altri, attraverso la storia di Kolia, onesto meccanico con un figlio adolescente e una giovane compagna. A lui il sindaco locale è determinato a espropriare la terra, per costruire un nuovo complesso abitativo. Il regista, con la parabola biblica di Giobbe incarnata in Konia, mette in scena “il Leviatano collettivo” statale, corrotto e perverso, che si poggia sui contratti sociali omertosi che i personaggi stipulano con se stessi e gli uni con gli altri. Kadyrov ha scelto, tra le varie chiavi di lettura psicoanalitiche che il film propone, quella dell’esistenza di un Super-Io distruttivo dell’Io che ne soffoca ogni potenziale creativo e riparativo. Come i commenti del regista e quelli del pubblico hanno mostrato, il film permette allo spettatore di conservare il proprio “Io creativo”, per riflettere su un’opera filmica di potenza straordinaria.

I “punti di svolta” di un individuo possono essere anche i momenti in cui si trova ad affrontare segreti trans-generazionali rimossi o denegati, e affrontare verità fino ad allora nascoste.

Come accade nel film documentario autobiografico The Flat (Arnon Goldfinger 2011, Israel 97’), discusso con il regista dagli psicoanalisti israeliani Gabi Bonwitt ed Emanuel Berman (Chair). L’appartamento cui si riferisce il titolo è quello di un’anziana nonna, dove figli e nipoti s’incontrano per svuotarlo dopo la sua morte, e alcuni di loro, tra cui il regista, colgono l’occasione per riscoprire una storia familiare drammatica, d’immigrati ebrei tedeschi trasferitisi a Tel Aviv per sfuggire ai nazisti. Il film solleva domande inquietanti e cruciali intorno al segreto, al non-detto e ai meccanismi di difesa messi in atto per negare l’esistenza del male da parte di un’intera generazione di ebrei immigrati: solo la generazione successiva potrà affrontare la scoperta della verità.

Sul tema della questione ebraica si sviluppa, su un registro altrettanto intimistico il film Ida (di Pawel Pawlikowski, Polonia 2013, 80’) presentato da Ian Christie e Emanuel Berman (Chair). Vincitore del Premio Oscar 2015 come migliore film straniero, Ida è davvero un’opera d’arte: girato in bianco e nero, con sfumature di grigio che lo rendono pieno di luce, una fotografia che trasforma ogni inquadratura in un quadro perfetto. Siamo nella Polonia degli anni ’60. Anna è una giovane orfana cresciuta in un convento che si accinge a prendere i voti, ma prima le viene imposto di incontrare la sorella della madre, Wanda, sua unica parente, un procuratore del regime, conosciuta come ‘la sanguinaria’ per le tante condanne a morte emesse nei confronti dei ‘nemici del popolo’. Da lei, donna ancora affascinante ma rovinata dal fumo e dall’alcol, che riempie la sua solitudine con sgradevoli uomini sconosciuti, la ragazza scoprirà di chiamarsi Ida, di essere ebrea e che i suoi genitori sono morti a causa della persecuzione nazista. Ida esprime il desiderio di recarsi al suo paese natale per visitare la loro tomba e Wanda, che porta con sé segreti e dolori ancora inconfessabili, si propone di accompagnarla. Le due donne intraprendono un viaggio alla ricerca delle proprie radici e della propria identità, che le porterà entrambe a decidere del proprio destino. Ogni elemento della narrazione filmica risulta necessario, teso a estrarre l’essenza delle due protagoniste e da queste far emergere la loro ‘umanità’ universale di sopravvissute, determinate a scoprire una verità che non potevano più nascondersi, con il desiderio di condividere “memoria e desiderio”. Si scontreranno entrambe con “lo strato roccioso” di ciò che non può essere detto ma che, nell’incontro, può venire alla luce.

Il tema della memoria e della sua ricostruzione lo abbiamo trovato anche nel film In the Crosswind (di Martti Helde 2014, Estonia 87’). Al panel hanno partecipato il regista, lo psicoanalista Kari Tuhkanen (Chair) e il giornalista Karlo Funk. Il punto di svolta della vita di Erna, la giovane donna protagonista di quest’opera straordinaria, è la sua deportazione dall’Estonia alla Siberia, destino condiviso da milioni di esseri umani nel 1940. La voce fuori campo di Erna ci racconta la sua storia attraverso fotografie, in bianco e nero, che sono i suoi stessi “ricordi congelati”, il cui movimento è dato solo dalla macchina da presa. Una storia individuale diventa storia di gruppi e società, di cui si impone non se ne perda memoria. La scelta narrativa del regista apre una riflessione sulla memoria, personale e collettiva, sulla storia e su come l’utilizzo creativo dell’immagine possa offrire l’opportunità allo spettatore di immaginare, e sentire profondamente, realtà altrimenti inimmaginabili e indicibili.

Il film Still life (di Uberto Pasolini 2013, Italia, UK, 87’) affronta con estrema delicatezza il tema della morte come “punto di svolta”: mi ha fatto pensare, già la prima volta che l’ho visto alla Mostra del Cinema di Venezia, vincitore della Sezione Orizzonti, a un verso del poeta portoghese Fernando Pessoa “la morte è la curva della strada, morire è solo non essere visti”. Il panel di discussione, di cui sono stata chair, è stato in realtà una vivace e coinvolgente conversazione tra lo psicoanalista David Bell, il regista e il pubblico.

Come ha sottolineato Bell, il titolo, Still Life, in inglese ha vari significati: “natura morta”, in relazione all’arte figurativa, “vita ferma” e “ancora vita”. Ognuno di questi si ritrova a dipanarsi nella trama della narrazione filmica. La storia è quella di John May, impiegato come funeral officier in un ufficio comunale di Londra, con il compito di occuparsi delle esequie di persone morte in solitudine, cui si dedica con attenzione e cura ossessive. Attraverso gli oggetti trovati nelle case dei defunti – una collana, un rossetto, una cartolina, un disco, una fotografia – John ricostruisce, nel suo immaginario, le loro storie. Impregnandole dei propri bisogni e desideri, le condensa in commoventi necrologi, offrendo alla vita di queste persone “invisibili” significato e riconoscimento, oltre ad offrire la sua mente come “contenitore” di elementi in elaborati del lutto. Il “punto di svolta” nella vita di John è il suo improvviso licenziamento da parte di un arrogante capo-ufficio che ritiene il suo lavoro superfluo e lo invita ad accoglierlo come “un nuovo inizio per una nuova vita, per un lavoro dove le persone sono vive, tanto per cambiare”. Con determinazione, John vuole chiudere il suo ultimo “caso”, quello di un alcolizzato, ritrovato nell’appartamento di fronte al suo: attraverso la ricostruzione della vita di quell’uomo e l’incontro con le persone che conosceva, John entra poco a poco in contatto con i propri affetti aprendosi alla dimensione dell’altro. Tali cambiamenti sono resi anche a livello visivo: aumentano i movimenti della macchina da presa, i colori si scaldano, la fotografia è più nitida, e anche la colonna sonora è più vivace. La vita di John, che ha dato dignità e riconoscimento a tante vite “invisibili”, grazie al suo tatto, all’umiltà, al rispetto, tornerà a essere “ferma”, ma “ancora viva” e “visibile” attraverso i legami che ha creato.

Pasolini ha raccontato come il film abbia preso avvio dalla lettura di un’intervista a un impiegato che svolge davvero il lavoro di John e la curiosità per una realtà completamente sconosciuta lo abbia portato a riflettere sulla solitudine, sui rapporti tra le persone e sulle proprie vicissitudini personali. Con grande generosità, Pasolini ha condiviso con il pubblico aspetti della sua storia personale e riflessioni di grande profondità, che si sono concluse in commozione.

Come di tradizione, il venerdì sera è stato proiettato un “classico del cinema inglese”, Addio Mr. Harris (The Browning Version, di Anthony Asquith, 1951, UK 87’), discusso la mattina seguente dagli studiosi di cinema Charles Drazin e Peter Evans (Chair) e lo psicoanalista Michael Halton. Tratto da una pièce teatrale di Terence Rattigan e interpretato da un intenso Michael Redgrave, è la storia del congedo del professor Crocker-Harris dal suo lavoro d’insegnante di greco in un college britannico. Momento di resa dei conti: egli sa di essere detestato dagli allievi, poco amato dai colleghi e tradito dalla moglie, e ha vissuto una vita all’insegna del fallimento. Il gesto sincero di un suo studente, l’unico a mostrarsi a lui affezionato, nel regalargli la versione in versi dell’Agamennone di Eschilo del poeta Robert Browning, lo tocca al punto di determinare un punto di svolta e di trovare la determinazione, nel suo discorso di commiato, di mettere a nudo i propri fallimenti: “Mi dispiace perché non vi ho dato quello che avevate il diritto di domandarmi come vostro maestro: simpatia, conforto morale, umanità. Ho avvilito la vocazione più nobile che un uomo possa seguire: la cura e la formazione dei giovani”. Come ha commentato Peter Evans, nessun altro film inglese degli anni ’50 ha drammatizzato con maggiore intensità i desideri e le inibizioni emotive di un individuo imprigionato negli atteggiamenti dominanti della sua epoca, senza moralismi o eccessi di didascalismo.

Il Festival si è concluso la domenica mattina, con la proiezione di due intensi cortometraggi. Il primo You Are Me (di Peter Speyer 2013, UK, 11’) mette a confronto due estranei, incontratisi in un parco di Londra, sulle rispettive esperienze traumatiche di vita. Il secondo Home Movie (di Caroline Pick 2013, 17’), è il montaggio costruito da filmati amatoriali girati dal padre della regista negli anni ’30 in Cecoslovacchia e nel Regno Unito, disvelando la drammatica storia della sua famiglia che le era stata nascosta. La psicoanalista Kate Barrows, lo psicologo e regista Peter Speyer, che lavora con i rifugiati bosniaci e la regista Caroline Pick hanno proposto una serie di riflessioni sui temi proposti dal film.

Ogni edizione del festival ha dato spazio a iniziative a esso ispirate, sviluppatesi in vari paesi europei: questa volta Irina Nistor ha presentato il Romanian Psychoanalytic Film Festival, che si svolge ogni anno a Bucarest.

Anche la discussione conclusiva con il pubblico è stata animata, e Sabbadini ha invitato tutti a inviare, attraverso il sito di epff (www.couchandscreen.org/epff8) le proprie considerazioni e proposte. Credo che un’altra apprezzata caratteristica di epff sia quella di offrire a ogni spettatore la possibilità di intervenire con commenti e domande in tutta libertà, rendendolo protagonista dell’evento. Gli interventi dei relatori non sono mai ipersaturi, cosicché il cinema, come ha scritto Canova (2001), dimostra davvero di essere, in occasioni come questa, un fertile “territorio relazionale”, “un luogo che permette di riconnettere in una storia dotata di senso in frammenti sconnessi di esperienza con cui ci fa cozzare la vita”. Viene mantenuta una “una tensione creativa”, uno scambio intenso, tra il film e gli spettatori, che consente, tramite le successive riflessioni, di mettere in gioco in maniera attiva la capacità di pensiero. Ogni film prescelto si arricchisce, alla luce della psicoanalisi, di significati sorprendenti, grazie anche agli “sconfinamenti” nei territori della cultura cinematografica e artistica, le associazioni sul lavoro clinico, le esperienze che vengono condivise dagli artisti.

Grazie ad Andrea Sabbadini, alla commissione di selezione dei film e ai consulenti europei, che con passione autentica ed estrema competenza s’impegnano a mantenere alta la qualità dei film proposti, con la partecipazione di ospiti d’eccezione. Per questa edizione, inoltre, voglio ricordare che la commissione ha selezionato ben due film italiani che sono stati molto apprezzati, così come i panel: Still life e Il Capitale umano.

Grazie anche a Rossella Valdrè, che mi ha segnalato “Il capitale umano” e che ha lavorato con me per l’organizzazione e la realizzazione del panel di cui è stata chair.

Dicembre 2015

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