Cultura e Società

“Favolacce” di F. e D. D’Innocenzo. Recensione di E. Marchiori e A. Talamini

15/06/20

Autori: Elisabetta Marchiori e Anna Talamini

Titolo: “Favolacce”

Dati sul film: regia di Fabio e Damiano D’Innocenzo, Italia, Svizzera 2020, 98’

Genere: drammatico.

 

 

“Favolacce”, Orso d’Argento a Berlino per la sceneggiatura, è il secondo film dei gemelli  Damiano e Fabio D’Innocenzo, dopo “La terra dell’abbastanza”, ed è disponibile in streaming e, speriamo, nelle sale ora riaperte.

Il film si apre con una voce narrante maschile che racconta la storia del ritrovamento del diario di una bambina, una sorta di “c’era una volta”. Ma l’atmosfera da favola stride con la scena di una famiglia seduta sul divano di uno squallido salotto attorno alla televisione e che assiste imperturbabile a un drammatico servizio di cronaca nera.

“Favolacce” è ambientato in un “non-luogo”, un’area di Roma Sud che potrebbe essere la periferia di qualsiasi città, e i protagonisti sembrano aggrappati per la loro sopravvivenza psichica a una quotidianità di relazioni scarne, fatte di silenzi o di grida, di discorsi superficiali, di circostanza, spesso in un dialetto incomprensibile allo spettatore. Non è il contenuto dei dialoghi, ma la loro forma sgangherata, sghemba, ambigua, a immergere lo spettatore in una condizione di profondo disagio, insieme alle sonorità stridenti della colonna sonora.

Lo stile narrativo frammentato dei registi, giocato tra squarci di crudo realismo e sequenze oniriche, è ugualmente spiazzante e crea uno stato di attesa angosciosa verso l’inevitabile tragedia, il cui sapore si fa via via sempre più amaro e acido.

Gli sguardi acuti e penetranti dei fratelli D’innocenzo seguono le vite di Bruno Placido (Elio Germano) e Pietro Rosa (Max Malatesta), due uomini che sono anche padri, che vestono quasi in divisa, appaiono simili tra loro per desideri, fantasie e progetti di vita, ma l’uno si dichiara uomo di grande successo, mentre l’altro è un fallito: sul lavoro, perché altro nella vita non sembra interessare, se non il profitto scolastico dei figli ancora preadolescenti, i fratelli Dennis (Tommaso di Cola) e Alessia (Giulietta Rebeggiani) e Viola (Giulia Melillo), che usano come oggetti di competizione. Essi rappresentano le appendici dei loro bisogni insoddisfatti e sono vittime mute della incapacità affettiva e della crudeltà dei genitori. Le loro madri inconsistenti Dalila Placido (Barbara Chichiarelli) e Susanna Rosa (Cristina Pellegrino) si muovono come fantasmi sullo sfondo, presenze incapaci di cogliere e comprendere il malessere crescente dei figli, che tramano un piano distruttivo nei confronti dell’intero quartiere, avendo perduto ogni desiderio di giocare creativamente.

I loro oggetti d’amore e di investimento sono affettivamente morti e loro sembrano alla disperata ricerca di qualcuno che li veda e li ascolti. L’unica figura adulta accogliente è il loro Professore di Scienze (Lino Musella), a cui Dennis chiede approfondimenti per i suoi piani distruttivi, ma anche lui sbaglia, scambia le richieste di attenzione con reale desiderio di conoscenza, non è in grado di capire i veri motivi delle tante domande e alla fine, sentendosi manipolato e tradito dai suoi allievi (ma non spoileriamo), si vendica su di loro in modo atroce.

Intrecciate a queste storiacce, le vite – o meglio le vitacce – di Amelio Guerrini (Gabriel Montesi) con il figlio Geremia (Justin Korovkin), che abitano in una baracca in mezzo ai campi e si muovono ai margini, e quella di Vilma Tommasi (Ileana d’Ambra). Lei è una ragazzona poco più che adolescente, incinta, che sembra sospesa tra il desiderio di essere adulta e il bisogno infantile di continuare a giocare con quei bambini pur nella “confusione delle lingue” (Ferenczi, 1932) dove il linguaggio della sessualità è scambiato con il linguaggio della tenerezza. Il ritmo lento e sincopato del film sembra seguire la gravidanza indesiderata e inconsapevole di Vilma, nell’attesa di una nascita che non ha spazio nella mente della madre.

I registi hanno una straordinaria capacità, che li accomuna a Garrone (di cui sono sceneggiatori), di mettere in scena la desertificazione degli affetti e la perversione delle relazioni, che distrugge la vitalità dell’infanzia.

I bambini di “Favolacce” guardano gli adulti con uno sguardo distaccato e privo di speranza, cercano goffamente di imitarli e rendersi indipendenti, mentre mirano a distruggere il mondo in cui vivono, forse nell’illusione di crearne uno a loro misura.

Sono i bambini che la società dell’apparenza, dell’inganno, dell’isolamento e dell’odio sta facendo crescere fisicamente ma spegnere affettivamente, devitalizzati fino a scegliere loro stessi di non sentire più nulla, o tornare in quell’utero acquoso da cui sono venuti al mondo.

Non è una vendetta, una ribellione fino all’ ultimo respiro, quella dei bambini di queste brutte favole, ma il tentativo ultimo, come quello dei protagonisti di “La terra dell’abbastanza”, di trovare qualcosa di cui non conoscono la natura, ma ne intuiscono la necessità, che possa fornire di senso la loro esistenza, di avere importanza per qualcuno.

Il film si chiude sulle note di una composizione classica, la cui origine è ignota,  “Passacaglia della vita”, il cui ritornello “Non val medicina, non giova la China, non si può guarire, bisogna morire” è un verdetto che pesa su ciascuno di noi e oggi, con la pandemia ancora in corso e l’incendio delle rivolte per i diritti umani ancora negati dal razzismo, appare una sorta di profezia. Quel ritornello penetra nella mente e non si può dimenticare.

Giugno 2020

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