Cultura e Società

Forza maggiore

6/05/15

Autore: Elisabetta Marchiori

Titolo: Forza maggiore (Turist)

Dati sul film: regia di Ruben Östlud, Francia, Danimarca, Germania, 2014, 118’

Trailer : 

Genere:drammatico

Trama
Una bella famiglia, troppo bella: Tomas (Johannes Kuhnke), marito e padre, pare il tipo d’uomo che “non deve chiedere mai”, sempre con cellulare a portata di mano per non perdere telefonate di lavoro; Ebba (Lisa Loven Kongsli), moglie e madre, bella, gentile e dotata di santa pazienza; Vera e Harry, i figli, due bimbetti biondi davvero carucci. La loro settimana bianca inizia con una serie di scatti fotografici, che li immola, tra montagne innevate, nella loro splendente bellezza e armonia, nelle loro impeccabili tenute da sci, a scambiarsi sorrisi e sguardi amorevoli. Si concedono un meritato pranzo, dopo impavide sciate fuori pista, su una soleggiata terrazza quando, improvvisamente, accompagnata da un sordo rombare, una valanga minaccia di travolgerli. Tomas appare tranquillo – “è tutto sotto controllo” – dichiara, e si accinge a filmare l’evento. Che sotto controllo non è: mentre Ebba abbraccia e protegge i figli dalla neve con il suo corpo, Tomas afferra il suo telefono e scappa. Il biancore delle nuvole di neve acceca per un attimo lo spettatore, poi si diradano. La tragedia è scongiurata, la famiglia si ricompone, si spolvera di dosso la neve e torna a mangiare, come se nulla fosse. Ma nulla certamente è più come prima: la valanga seppellisce quelle belle immagini iniziali, i sorrisi si trasformano in smorfie di sconcerto e sofferenza, gli sguardi si evitano sospettosi. Tomas a più riprese nega il suo comportamento, vuole convincere Ebba di essersi sbagliata: hanno due versioni diverse dei fatti, tutto qui. È proprio la ripresa fatta da Tomas mentre scendeva la valanga – con quel telefonino strumento principe di disvelamento e di bugie, e di crimini e misfatti della nostra era – a inchiodarlo alla verità. La crisi si consuma in un hotel di lusso in un’atmosfera kubrickiana: il poverino crolla miseramente, si vergogna, si dispera e piange, perdendo credibilità e dignità.
L’amico di Tomas, Mats (Kristofer Hivju), tenta di giustificarlo: “Solo pochi sono gli eroi, quelli che pensano agli altri prima che a se stessi. La gente calpesta anche i cadaveri pur di salvarsi da una nave che sta colando a picco”. Causa di “forza maggiore”, come suggerisce il titolo italiano, o storia di “turisti” per caso, come evoca invece il titolo originale, storia di ordinaria follia di gente in vacanza?
Non basta, infatti, ad Ebba questa spiegazione, Tomas si è mostrato un codardo e le ha mentito, diventa dura e intollerante, sono crollate le sue sicurezze: “Non ti riconosco più e non riconosco più me stessa”, gli dice.
A questo punto inizia, per i protagonisti, un percorso per ritrovare se stessi e l’altro. Finale simbolico, ci si può vedere quel che si vuole. Certo è che la strada è parecchio lunga, dura e faticosa.

Andare o non andare a vedere il film.
Opera seconda, dopo Play (2011), del quarantunenne regista svedese Ruben Östlud, il film ha meritato il Premio della Giuria della Sezione Un Certain Regardal Festival di Cannes 2014, è stato evento speciale della terza giornata del 63esimo Trento Film Festival ed è stato proiettato durante il 28esimo Congresso della Federazione Psicoanalitica Europea alla fine di marzo 2015, presentato dal collega Anders Berge che ha condotto l’incontro con il regista. Di sicuro interesse per gli psicoanalisti, è un film che riesce a coinvolgere profondamente ogni spettatore, mantenendo una suspance degna di un thriller, mescolando il pathos della tragedia all’ironia della commedia. I paesaggi agorafobici dell’alta montagna si alternano agli spazi claustrofobici dell’hotel, il biancore abbagliante della neve che acceca lo spettatore si alterna alle luci fredde o soffuse degli interni, colori che trasmettono lo stato emotivo dei protagonisti, che fanno cadere a poco a poco la maschera scoprendosi dolorosamente per quello che sono, al di là dei ruoli stereotipati che si erano cuciti addosso.

La versione di uno psicoanalista
Ho visto il film a Stoccolma al citato Congresso dal titolo evocativo Too much – Not enough che si intona perfettamente alle tematiche del film (o viceversa). Troppa neve, troppa “famiglia”, troppi sorrisi, troppi pianti, troppo sciare, troppa solitudine, non abbastanza tempo per parlare e per pensare, non abbastanza coraggio per ammettere i propri errori, non abbastanza tolleranza per i propri limiti … la lista dei too much e dei not enough potrebbe essere infinita, a guardare questo nostro mondo civilizzato sopraffatto da eccessi e mancanze, così come a esplorare, da psicoanalisti, il nostro mondo interno e quello dei nostri pazienti.
Da regista, Östlud sofferma il suo sguardo su questa dicotomia e, nel suo intervento (con mia vergogna) ha paragonato Tomas al nostro Capitano Schettino, che senza pudore ha continuato a negare le proprie responsabilità, mettendosi in salvo mentre i passeggeri della sua nave morivano. Lo ricorda anche l’intelligente e condivisibile recensione di Natalia Aspesi a tutta pagina in la Repubblica del 4 maggio, dal titolo incisivo Famiglia spezzata. Una valanga sulle alpi e la figura del padre svanisce.
Il film è una critica sagace e spietata del tramonto dei ruoli tradizionali all’interno delle famiglie, in particolare quello del padre “in tempi di crisi della mascolinità che non sempre riesce ad accettare la propria autentica fragilità umana e la perdita di potere sulle loro donne e la loro indipendenza” (N. Aspesi).
Al di là della crisi della famiglia, al di là del problema dei padri “svaporati” in una nuvola di neve, il film pone altre questioni di interesse psicoanalitico che si giocano sulla polarità too much – not enough.
Il film ci fa interrogare su come eventi esterni o interni possano disvelare aspetti “animali” dell’essere umano, dall’istinto di sopravvivenza alla protezione dei “cuccioli”; come la nostra identità sia instabile, multipla (direbbe Pessoa) e come alle domande “Chi sono io? Chi sei tu?” non si possa rispondere in modo definitivo. I personaggi entrano nei film “normali”, ma un evento determina la rottura di una perfetta normalità – too much normality – che determina una trasformazione, resa visivamente non con effetti speciali ma con il cambiamento di espressione dei protagonisti, profondo e intenso. Tutto diventa not enough per i protagonisti del film.
Ma la psicoanalisi insegna, e si propone come obiettivo, come ha sostenuto nella sua relazione al Congresso FEP Too much, not enough – from quantitative fallacy to nameless dread Björn Salomonssos, che bisogna uscire dall’attitudine emotiva che aderisce al paradigma quantitativo che collega too much e not enough da una parte al piacere e alla felicità e dall’altra al dispiacere e alla mancanza, portando a trascurare l’aspetto qualitativo nelle nostre interazioni con noi stessi e con gli altri. Non è avendo molto, troppo poco, o abbastanza che si allevia il nostro caos interiore, ma attraverso relazioni ragionevolmente libere dall’ambivalenza. Ci viene in aiuto Winnicott: relazioni imperfette, ma good enough.

Maggio 2015

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto