Cultura e Società

FOURTH EUROPEAN PSYCHOANALITIC FILM FESTIVAL EPFF4

12/01/09

 

La serata di apertura ha offerto l’opportunità di assistere alla proiezione del cortometraggio “Laid down” (2006) della ventiseienne regista inglese Emily Cooper, seguito dalla discussione con Peter Fonagy, psicoanalista della BPS. Il film è un’opera toccante che, con un linguaggio sperimentale di grande effetto, vuole guardare il mondo con gli occhi del neonato “sdraiato”, appunto, sulla sua culla. La Cooper ha proposto un’analogia tra l’essere regista e l’essere genitore, definendo il film come “suo figlio” e parlando di quanto in esso ci sia di lei bambina. Per girarlo è stata distesa, si è rotolata lei stessa sul pavimento, si è dondolata, si è messa a gattoni, provando a riprodurre gli effetti che potrebbero avere sulla mente del bambino le immagini che lo circondano e gli eventi, anche traumatici, cui può essere esposto. Il film è stato per lei un’esperienza anche “terapeutica”, soprattutto nella fase di montaggio, definita come “l’esperienza di essere adulti alla luce della ripetizione di esperienze passate”: l’esperienza analitica, che la regista ha sperimentato, è stata come “il montaggio della sua vita”. Il bambino appare solo nell’indimenticabile immagine finale, mentre si guarda come in uno specchio, da cui Peter Fonagy ha preso spunto per il suo intervento, focalizzato sulla necessità che si debba esistere nella mente dell’altro per diventare se stessi. In sintesi, si può dire che si tratta di un film su “come si diventa umani”.

 

Le giornate successive sono state ricche di panel, proiezioni di film e discussioni tra psicoanalisti, esperti di cinema, registi, attori, sceneggiatori, montatori ed altre figure di spicco della cultura europea e americana, in sessioni parallele, a cui il pubblico ha partecipato con grande interesse e coinvolgimento.

Questo il programma, di cui riferiamo di seguito di ciascun evento in modo più approfondito, ringraziando Massimo De Mari e Roberto Simeone per averci fornito il loro contributo.

 

Venerdì

  • Panel: The Princess and the Psychoanalyst: a new family romance. Laura Mulvey (chair), Catherine Portuges, Jeff Kline

  • Panel: Fantastical projections in the pursuit of love. Donald Campbell (chair), Diana Diamond, Alexander Stein

  • Film: Zozo (Josef Fares, 2005, Sweden – 105 min), discussione con Franziska Ylander (chair) e Cecilia Hector

  • Film: A song is not enough (Elissavet Chronopoulou, 2003, Greece – 118 min), discussione con Marina Perris (chair), Elissavet Chronopoulou, Yannis Kokiasmenos

  • Film: Alice (Marco Martins, 2005, Portugal -102 min), dicussione con Frederico Pereira (chair), Marco Martins, Teresa Flores

  • Film: Caché (Michael Haneke, 2005, Austria/France -117 min), discussione con Elisabeth Skale (chair), Michael Hudecek, Lissa Weinstein, Bettina Reiter

  • Lecture and clips: Dreams that money can buy, Ian Christie, Sara Flanders (chair)

  • Film: The third man (Carol Reed, 1949, Great Britain – 104 min)

 

Sabato

  • Lecture: From Freud’s Vienna to the Vienna of The Third Man: The city Freud left behind and Graham Greene rediscovered, Brigitte Timmermann, Andrea Sabbadini (chair)

  • Panel: Time does not heal: ongoing struggles in the later films of Ingmar Bergman, David Bell (chair), Marie Nyreröd, Bruce Sklarew, Ira Konigsberg

  • Panel: Intersubjective filmmaking: The Israeli television series ‘In Treatment’, Emanuel Berman (chair), Nir Bergman, Roni Baht, Shimshon Wigoder

  • Film: La Maison de Nina (Richard Dembo, 2005, France – 112 min), discussione con Murielle Gagnebin (chair), Pascal Verroust, Adama Boulanger

  • Film: Thomas est amoureux (Pierre Renders, 2001, 97 min, Belgium), discussione con Susann Wolff (chair), Pierre-Paul Renders, Philippe Blasband, Aylin Yay

  • Film: Vitus (Fredi M. Murer, 2006, Switzerland – 117 min), discussione con Candy Aubry (chair), Fredi M. Murer, Carole Bach

Domenica mattina

  • Presentazione del primo Festival del Cinema e Psicoanalisi ungherese.

  • Film: Vormittagsspuk [Ghosts Before Breakfast] (Hans Richter, 1927-28) e Seelische Konstruktionen [Psychical Constructions] (Oskar Fischinger, 1926-30)

  • Discussione plenaria con Laura Mulvey, Andrew Webber e Andrea Sabbadini e chiusura dei lavori

 

Il PANEL La principessa e lo psicoanalista: un nuovo romanzo familiare è stato condotto da Laura Mulvey, docente di cinema al Birbeck College dell’Università di Londra.

Catherine Portuges, docente di letteratura comparata all’Università Amherst Massachusset ed esperta di cinema, ha presentato un lavoro dal titolo ‘La principessa, lo psicoanalista e il regista: Catherine Deneuve sul divano di Freud’, basato sul film “Princesse Marie”, di Benoît Jacquot (Francia/Austria, 2004), di cui Catherine Deneuve è la protagonista nel ruolo di discepola, amica e protettrice di Freud. Utilizzando trailers del film, interviste, materiale biografico e spezzoni di film d’archivio, la Portuges ha rivisitato una fase drammatica della storia della psicoanalisi, esplorando le prospettive e i ruoli, interconnessi e conflittuali del regista, dell’attrice e dello psicoanalista nell’opera di Jacquot.

Jeff Kline, docente di letteratura francese all’Università di Boston, con il contributo “Il romanzo familiare di Freud con la Principessa Marie: Benoit Jacquot fa rinascere la teoria della seduzione” ha ulteriormente approfondito alcuni aspetti che emergono dal film di Jacquot. Tre scene in particolare suggeriscono sottilmente come si può ripensare all’elaborazione di Freud della teoria della seduzione e del suo repentino abbandono. La sfrontata modalità seduttiva di Marie Bonaparte nei confronti di Freud, insieme al desiderio della Principessa di tradurre il lavoro su Leonardo e poi ottenere la corrispondenza tra Freud e Fliess rivela una serie di particolari riguardo all’imbarazzante e non ortodosso trattamento di Maria, così come sulla controversa storia della teoria della seduzione. Il film in questione si presta infine come esempio della potenza seduttiva insita nel cinema.

Il PANEL Proiezioni fantastiche nell’inseguimento dell’amore è stato presentato dallo psicoanalista inglese Donald Campbell, già Segretario Generale dell’IPA.

Alexander Stein, psicoanalista americano, ha presentato un contributo sul film L’arte del sogno di Michel Gondry’ del 2006 (La Science des Rêves, The Science of Dreams or The Science of Sleep). Quest’opera racconta la storia del timido Stephane (G.G. Bernal), convinto dalla madre, dopo la morte del padre, di tornare nella sua casa natale in Francia, prospettandogli un lavoro interessante. Il protagonista è dotato di una grande creatività e di una particolarmente sviluppata e fantasiosa attività onirica, al limite del delirio, che minaccia continuamente di prendere il sopravvento sulla sua vita durante la veglia. E’ molto deluso quando scopre che il lavoro è un banale impiego da illustratore in un piccolo ufficio, ma la sua vita cambia nel momento in cui conosce la sua dirimpettaia, Stephanie (C. Gainsbourg), per la quale sviluppa una grande attrazione che fatica ad esprimere, travolto dalla confusione tra sogno e realtà. Stein sottolinea come il seducente intrico narrativo del film, con i suoi confini sfumati tra sogno e veglia, induca interessanti riflessioni su temi quali la perdita, la separazione, i processi di maturazione. Le immagini sono interpretabili come una produzione del sogno manifesto indotto da residui diurni, memorie affettive ed esperienze derivate dall’inconscio. Attraverso la distorsione tipica del lavoro del sogno, esse riescono a rendere efficacemente le complesse costellazioni di conflitti nei quali il protagonista è impantanato, in particolare nel lavoro del lutto per la perdita del padre, nello sganciarsi dalla relazione con una madre narcisistica e nella realizzazione della sua indipendenza psico-sessuale.

Diana Diamond ha discusso il lavoro “Empatia ed identificazioni in La vita degli altri”. Questo apprezzato film di Von Donnersmarck, vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 2007 e mirabilmente interpretato dal compianto U. Muhe, è ambientato a Berlino nel 1984 ed è un’accurata raffigurazione del terrore psicologico indotto dalla Stasi, la Polizia Segreta Tedesca. Il film racconta la trasformazione interna di un agente della Stasi, Wiesler, che ha il compito di sorvegliare un promettente scrittore e la sua amante, un’attrice. L’Autrice focalizza l’attenzione sui meccanismi attraverso i quali Wiesler inizia ad empatizzare e ad identificarsi con coloro che sorveglia, sostenendo che i processi empatici e identificativi sono meccanismi inconsci e pre-riflessivi di “simulazione incarnate (embodied simulation)”, come le definisce Vittorio Gallese. Attraverso queste le azioni, le emozioni e le sensazioni di altri attivano le nostre stesse rappresentazioni interne di stati del corpo ed espandono la nostra comprensione del potere della scena primaria, il principale organizzatore delle fantasie inconsce e dei conflitti della vita, che costituisce la metafora centrale del film.

 

Il FILM Zozo (Josef Fares, 2005, Sweden – 105 min) narra la storia di un bambino di dieci anni, Zozo che, durante la Guerra in Libano, perde la sua famiglia durante un bombardamento, proprio mentre si stava apprestando a fuggire in Svezia dai nonni. Zozo decide di intraprendere il viaggio da solo, riesce a raggiungere i nonni e cerca di adattarsi all’ambiente spesso ostile del nuovo paese. Sino al confine il bambino porta con sé un pulcino, con cui parla, e che sembra rappresentare l’oggetto transizionale o una parte di sé fragile ma estremamente vitale. Zozo saluta il suo pulcino in Libano e in Svezia trova un colombo, con cui prova a parlare, ma non ci riesce: il bambino sta crescendo, il confine tra infanzia e prima adolescenza sta per essere attraversato.

Il regista Josef Fares ha appena compiuto trent’anni e, come Zozo, è nato a Beirut in una famiglia di classe media fuggita alla guerra recandosi in Svezia, quando Josef aveva l’età di Zozo. I parallelismi tra Josef e Zozo sono molti, tuttavia il film non è un’autobiografia ma, sostiene il regista, un attraversamento dell’incomprensibile mondo degli adulti visto dagli occhi di un bimbo. Colpiscono le sequenze in cui Zozo sogna la madre, una figura estremamente dolce e accogliente, oggetto buono interiorizzato che sembra rendere il bambino capace di affrontare i traumi terribili che gli sono stati inflitti. Il nonno che, con la nonna, lo accoglie nella nuova terra, assume un ruolo importante di riferimento per Zozo, sostenendolo nelle sue capacità di relazionarsi con gli altri e di superare le frustrazioni e le paure.

Per Fares dirigere questo film è significato realizzare un sogno, dopo aver girato una cinquantina di cortometraggi: “Ondeggiava nella mia mente tutto il tempo”. Le psicoanaliste svedesi Franziska Ylander (chair) e Cecilia Hector hanno animato la discussione, centrata sui temi del trauma, del lutto e della crescita.

 

Il FILM A song is not enough (Elissavet Chronopoulou, 2003, Greece – 118 min) ha come sfondo politico il periodo del regime militare nella Grecia degli anni ’60. Irene, una giovane e ambiziosa attrice, viene arrestata con l’accusa di resistenza politica. Sua figlia di nove anni, Olga, vive questo drammatico evento come un traumatico abbandono e non vorrà più incontrarla. Della bambina cerca di prendersi cura il padre, un giovane alcolista che con Irene ha una relazione molto conflittuale. Mentre in carcere Irene scopre lati nascosti di sé e della sua vita, che la renderanno una persona diversa quando verrà scarcerata, la relazione tra Olga e il padre si evolve, seguita dal regista con grande sensibilità. Olga rimarrà molto segnata da queste vicissitudini che avranno delle forti ripercussioni anche nel suo percorso di crescita personale.

Marina Perris, psicoanalista della BPS, ha moderato la discussione nella quale erano presenti la regista e uno degli attori protagonisti. L’interesse suscitato dal film si è concentrato sull’influenza che eventi traumatici, come la carcerazione politica, possono avere sulla persona che li subisce. Inoltre, è stata apprezzata la delicatezza con cui il regista ha affrontato i vissuti di perdita di Olga, la sua incapacità ad elaborare il trauma dell’abbandono, la difficile relazione con i propri genitori.

 

Il FILM Alice (Marco Martins, 2005, Portugal -102 min) è stato proiettato a Cannes nel 2005 e ha ricevuto numerosi riconoscimenti a vari festival. Il protagonista del film, Mario (N. Lopes), è un giovane uomo che perde sua figlia. Egli reagisce a questo terribile trauma sviluppando una serie di rituali ossessivi e filmando da varie postazioni della città, Lisbona, la folla anonima. E’ attore, e ogni sera ripete a teatro la stessa recita, eppure solo in quel contesto sembra recuperare una certa vitalità. Quando rientra a casa, rivede i film girati nella speranza di riconoscere la sua bambina, sviluppa fotogrammi, li attacca al muro, con speranze ogni volta deluse di riparare magicamente la perdita. Si allontana così sempre di più dalle relazioni reali tanto che la moglie, che si dispera da sola a casa, tenta il suicidio. Quest’evento sembra riportarlo alla realtà ed alla possibilità di elaborare il lutto.

La discussione, intensa e ricca, ha ampliato molto le riflessioni al di là dell’evento raccontato nel film, che rimanda alla storia della recente scomparsa in Portogallo della piccola Madelein McCann, una bimba proprio come Alice, o a quella di Denise in Italia e dei tanti bimbi scomparsi nel mondo. La psicoanalista portoghese Teresa Flores ha focalizzato l’attenzione sull’impossibilità del lutto in una situazione di isolamento e solitudine tipici della società di oggi. La ripetitività, per il protagonista, è un modo di evitare la perdita e la separazione, non può pensare, non può fermarsi, agisce come un automa. Frederico Pereira, anch’egli psicoanalista portoghese, ha evidenziato l’associazione tra l’ossessività della ricerca del protagonista attraverso i filmini e la scena primaria, evidentemente in questo caso di natura traumatica. Ha definito Mario uno zombie, termine inteso come “stato della mente”, in lui non c’è né vita né morte, così come non esistono più tempo e spazio: la bambina può essere ovunque, in qualsiasi momento, quindi in nessun luogo e mai più.

Alcune scene, tuttavia, sembrano ben rappresentare aspetti tipici dell’elaborazione di un lutto traumatico, a prescindere dall’evento specifico: il senso di colpa, la perdita dell’onnipotenza nella possibilità di proteggere l’oggetto amato, la rabbia, l’impossibilità dell’accettazione.

Il regista Marco Martins, che ha parlato con diverse coppie che hanno vissuto la perdita di un figlio, ha rilevato quella ripetitività ossessiva che ha così ben descritto nel film. Ha definito la sua opera come un film sull’assenza, che Mario non può accettare e riempie con la creazione di un proprio mondo parallelo, fuori dalla società in cui vive. Mentre cerca Alice, Mario si avvicina ad altre persone che, come lui, sono sole nel seno della città in cui vivono.

Ripensando al film in un secondo momento, la trama rimanda al romanzo di Ian McEwan “Bambini nel tempo” (1978), non citato dal regista né durante la discussione. Vale la pena confrontare l’evoluzione delle due storie, che prendono avvio dal medesimo trauma: la scomparsa di un figlio (“forse rapito, forse fuggito, forse svanito in una smagliatura temporale”).

 

Nel FILM Niente da nascondere (Caché) (Michael Haneke, 2005, Austria/France -117 min) il conosciuto regista di “La pianista” per la prima volta usa la telecamera ad alta definizione. Il protagonista, Gorge (D. Auteuil), è il conduttore di successo di un talk-show culturale su opere lettararie, ha una moglie, Anne (J. Binoche), editrice, e un figlio adolescente. La tranquilla vita borghese di questa famiglia ha una svolta inquietante dal momento in cui Gorge comincia a trovare, sulla porta di casa, misteriose videocassette con immagini sue e dei suoi familiari riprese di nascosto da una telecamera piazzata di fronte alla sua casa. Inizialmente si pensa ad uno scherzo di cattivo gusto, ma cassette successive hanno registrate immagini della casa natale di Gorge, strade di periferia e porte di appartamenti popolari, accompagnate da perturbanti disegni infantili. A poco a poco si rivelano vecchi segreti dell’infanzia di Gorge, sepolti e nascosti nella sua memoria e mai rivelati. Questi eventi hanno una portata devastante nella relazione tra marito e moglie e inducono strani comportamenti nel figlio. Il disvelamento progressivo del passato di George e le sue ricadute sul presente dei protagonisti, con un finale che lascia aperte numerose, inquietanti ipotesi, rende il film particolarmente adatto alla discussione su questioni di grande interesse psicoanalitico.

La discussione, introdotta da un breve contributo della psicoanalista austriaca Elisabeth Skale, è stata dominata dall’intervento di Michael Hudecek, montatore del film, di stampo di tipo tecnico con alcune considerazioni sulla relazione con il regista, molto presente in tutte le fasi della lavorazione dell’opera. Una domanda classica che l’ambiguo finale induce nello spettatore è quella su chi possa essere l’autore dei filmati. E’ Andrea Sabbadini ad intervenire con una risposta paradossale: Haneke ne è l’autore! E così si riapre l’insatura elucubrazione, che si tratti di un sogno del regista, di un incubo ad occhi aperti del protagonista, di una sfida crudele verso gli spettatori, dell’apertura verso orizzonti interni sconosciuti che guardano al passato, al presente, al futuro.

 

La LECTURE AND CLIPS di Ian Christie, con Sara Flanders (chair) Dreams that money can buy è stato un intervento particolarmente interessante. Christie, docente di storia del cinema al Birkbeck College dell’Università di Londra, è uno dei massimi esperti del mondo di cinema russo. Il suo lavoro prende il titolo da un film americano del 1947, scritto, prodotto e diretto dall’artista surrealista Hans Richter, cui collaborarono, tra gli altri, Marx Ernst, Marcel Duchamp, Fernard Léger. Il protagonista ha la capacità di creare sogni, potendo “penetrare” nella propria mente ed in quella degli altri attraverso gli occhi. Inizia quindi a “vendere” sogni, ed il film si svolge sulle sequenze dei sogni “comprati” da una varietà di frustrati e nevrotici clienti.

Partendo dalla considerazione che cinema e psicoanalisi sono nati insieme, l’autore ha evidenziato che il cinema ha spesso utilizzato come espediente drammaturgico il “sogno sintomatico”, portando alla riflessione che, nel ventesimo secolo, l’esperienza del sogno ha senza dubbio attinto nella drammaturgia per raffigurazione dei film dei sogni, mentre la generazione successiva di registi ha attinto dalla psicoanalisi per l’elaborazione dei sogni. Offrendo alla platea una serie di immagini molto suggestive tratte diversi film di registi tra i quali Sokurov, Eisenstein, Bunuel, Ruiz , si è soffermato sui paradossi risultanti dalla celebrazione surrealistica del sogno sulle implicazioni di una modalità narrativa del sogno che disorienta radicalmente lo spettatore.

Sara Flanders, psicoanalista della SPB, ha introdotto la discussione sottolineando la bellezza delle immagini che erano state proiettate. I commenti del pubblico hanno evidenziato la ricchezza e l’intensità del materiale, che sicuramente meritava uno spazio molto più ampio

 

Il venerdì sera è stato proiettato il classico FILM Il terzo uomo (Carol Reed, 1949, Great Britain – 104 min). Il giorno dopo Brigitte Timmermann e Andrea Sabbadini hanno presentato il PANEL Dalla Vienna di Freud alla Vienna di “Il terzo uomo”: la città che Freud lasciò e Graham Greene riscoprì.

La discussione ha evidenziato come Sigmund Freud e il classico film “Il terzo uomo” di Graham Greene, benchè in modi differenti, risultino i punti di riferimento dell’immagine che il mondo ha di Vienna: Freud come l’icona intellettuale di una Vienna cosmopolita all’apice del suo splendore, e “Il terzo uomo” come lo specchio della capitale austriaca nel suo periodo peggiore, durante la devastazione intellettuale e morale conseguente all’occupazione nazista, alla guerra e al terrore. E’ un’operazione affascinante quella di giustapporre la squallida Vienna del dopoguerra con la città dove nacquero pionieri dell’arte, della musica, della letteratura e delle scienze. Questo contributo si focalizza su come Green, in collaborazione con la regista e produttrice Carol Reed, sia riuscito a far virare un semplice thriller in uno studio complesso sui conflitti dell’esistenza umana, pieno di sublimi venature nascoste. Preparato a Vienna e registrato in esterni “Il terzo uomo” riflette come un microcosmo la storia del mondo al tempo della Guerra Fredda. Greene tratta con ammirevole sensibilità complesse problematiche psicologiche così come cerca di catturare il reale spirito e l’atmosfera di Vienna. Egli potrebbe avere cominciato a sviluppare questa sensibilità quando, all’età di diciassette anni e dopo un tentativo di suicidio, affrontò un trattamento psicoanalitico. Egli ne trasse giovamento non solo per il suo equilibrio mentale: lo aiutò anche a sviluppare uno sguardo verso il mondo che andava ben oltre gli obbiettivi limitati della tradizionale educazione scolastica di Berkhamsted.

 

Il PANEL Il tempo non rimargina le ferite: I conflitti continuano negli ultimi film di Ingmar Bergman

Presentato da David Bell (chair), psicoanalista della BPS, sponsorizzato dal “Forum for Movies and Mind”, è stato proposto in onore del recentemente scomparso Ingmar Bergman, regista tra i migliori nella storia del cinema di film in grado di sondare profondamente l’inconscio. Dopo l’uscita di Fanny and Alexander nel 1982, Bergman annunciò il suo ritiro dalla regia, tuttavia continuò il suo percorso esplorativo, un aspetto fondamentale del suo lavoro, attraverso i suoi film. Cominciando nel 1992 egli scrisse la sceneggiatura di una serie di film, di cui uno fu anche regista, più apertamente personali e autobiografici, come se stesse ripercorrendo la sua vita. Ha raccontato della sua relazione con i propri genitori e ha cercato di affrontare i conflitti con i quali si è cimentato durante la propria vita, ma con la prospettiva di un uomo anziano.

Il Panel prende in considerazione un insieme di film, da Best Intentions, uscito nel 1992 quando Bergman aveva 74 anni, a Saraband, uscito nel 2003 quando ne aveva 85, focalizzandosi sulle problematiche relative alla perdita e al lutto, all’ansia rispetto all’avanzare dell’età e alla morte e all’integrazione rispetto alla disperazione (Erikson). Ira Konigsberg, docente di cinema e lingua inglese all’Università di Michigan, autrice di molti lavori di letteratura, cinema e psicologia, ha approfondito le tematiche emergenti da questi ultimi film ed in particolare in Sunday’s Children (1994), il lavoro in cui appare più chiara la consapevolezza e la comprensione dei problemi che coinvolsero il regista in quel periodo.

Bruce Sklarew, psichiatra e psicoanalista americano, ha offerto un interessante contributo riguardo Saraband, l’ultimo film di Bergman, che delinea la predisposizione mentale di Bergman nel momento in cui egli ripercorre all’indietro il lungo corridoio della sua vita.

L’ultimo relatore, Marie Nyreröd, regista del recente ad acclamato Bergman Island, nonchè amica di Bergman, che ha utilizzato questo documentario per raccontare le basi biografiche di questi film.

 

Il PANEL Filmare l’intersoggettività: la serie televisiva israeliana ‘In Treatment’, è stato condotto dallo psicoanalista isreliano Emanuel Berman (chair).

Il titolo si riferisce al serial televisivo “In treatment” che nel 2005 ha ottenuto in Israele un grande successo di critica e pubblico. Esso si inserisce in un filone di telefilm in cui vengono narrate storie e vicissitudini di persone nel proprio ambiente lavorativo. E’ stato messo in onda per nove settimane con cinque uscite settimanali, quattro delle quali dedicate alle sedute dei pazienti con lo psicoterapeuta, la quinta al colloquio settimanale dello psicoterapeuta con il suo supervisore. In questa occasione sono stati presentati alcuni trailers esemplificativi delle storie cliniche raccontate. Tra queste, una ha come protagonista una donna che si innamora del suo terapeuta, con implicazioni che riguardano anche il coinvolgimento personale di quest’ultimo, che discute di questi aspetti con il suo supervisore. Un’altra riguarda le problematiche di una coppia in crisi, in cui emerge anche il conflitto sull’intenzione di tenere il bambino che la donna ha in grembo, il tutto con le implicazioni che questa scelta può avere sulla salute della coppia. Una terza mostra il caso di un’adolescente, ginnasta agonista che, a causa di un investimento da parte di un’auto, si frattura entrambe le braccia. Viene sviluppato il rapporto tra la ragazza e lo psicoterapeuta: dopo una fase di diffidenza, in cui si evidenzia un atteggiamento squalificante e provocatorio da parte della paziente, si vede come si evolva l’alleanza terapeutica, che le permette di fidarsi e far emergere le proprie angosce di vuoto, avvicinandosi all’idea che l’incidente fosse stato un impulsivo tentativo di suicidio con scarse componenti di consapevolezza. Nell’ultimo trailer è stato mostrato il colloquio tra lo psicoterapeuta e il suo supervisore.

Il team che ha realizzato il serial è composto da cinque persone, tra cui Nir Bergman (regista e sceneggiatore) e Roni Baht (psicologo consulente), presenti al panel. Uno degli aspetti più significativi trattati è stato il confronto tra i componenti del team rispetto all’opportunità di accentuare la componente drammatica, al limite sensazionalistica, delle storie trattate per avere più presa sugli spettatori. Bergman e Bath hanno portato avanti con fermezza la linea, dimostratasi vincente, di aderenza alla realtà del processo terapeutico e di non banalizzarlo, creando un vivace dibattito culturale pubblico sul valore e sui limiti della psicoterapia. Il serial ha avuto un forte impatto anche sui veri pazienti e terapeuti, facendo sviluppare processi di identificazione e controidentificazione, come evidenziato da un gruppo di discussione su internet.

In effetti, come immagine d’insieme, il serial appare un’opera delicata, abbastanza rispettosa della figura del terapeuta e dei propri pazienti, che si distingue per stile e contenuti da produzioni di cultura americana. Bergman è intervenuto per sottolineare la validità di tale tipo di esperienza e l’adeguatezza dei "tecnici" che hanno realizzato l’opera.

 

Il FILM La Maison de Nina (Richard Dembo, 2005, France – 112 min) già con le sue prime immagini ci spinge dentro ad una storia intensa e coinvolgente: due bambini, soli, camminano per una strada deserta, cercando Nina, la donna che li accoglie in una grande casa. Dembo, il regista purtroppo mancato durante la fase di montaggio del film, ha voluto raccontarci con coraggio dei bambini orfani, abbandonati, sopravvissuti dei campi di concentramento provenienti da tutta l’Europa ed accolti in Francia, tra il 1944 e il 1946, in grandi case gestite da giovani donne, come la protagonista, Nina. A. Jaoui interpreta questo personaggio pieno di calore, di bellezza, di tatto, di capacità di mediazione e di vitalità, che riesce a comprendere ed amare, nonostante le difficoltà, questi piccoli costretti a subire i traumi della guerra e della schoa. Non è facile pensare che l’impegno di Ninà possa portare a cambiamenti radicali nell’evoluzione della vita dei suoi piccoli ospiti, tuttavia nel corso del film qualcosa si trasforma in loro: riuscire a vivere in comune, fidarsi gli uni degli altri, abbandonare un comportamento cameratistico che scimmiottava quello degli adulti, riappropriarsi delle proprie tradizioni religiose per ricostruire l’identità perduta.

Murielle Gagnebin (chair), psicoanalista francese e docente di psicoanalisi dell’arte e del cinema alla Sorbona, ha aperto la discussione ponendo la questione se sia possibile, come si chiede Adorno, “fare arte dopo Auschwitz”, conciliandola con l’idea che “una persona deve smettere di soffrire un giorno”. Adama Boulanger, psicoanalista francese, ha presentato un breve contributo dal titolo “Alla ricerca di Dembo”, focalizzandosi su alcuni dettagli che rivelano la dinamica del lavoro del regista, che tende ad oscillare tra “girare” (turn) e “esprimere” (expression). Durante la discussione sono emerse molte domande. Come e perché le ombre che per una volta hanno attraversato i nostri occhi, da bambini, vivono nel presente? Come, perché e dove si rianimano? Il cinema ci aiuta ad affrontarle? Il bambino è come uno schermo oggetto di proiezioni? E lo è l’artista?

 

 

Il FILM Thomas est amoureux (Pierre-Paul Renders 2001, 97 min, Belgio) ha come protagonista Thomas, un trentaduenne gravemente agorafobico con una madre fatua e intrusiva, la cui unica forma di comunicazione con il mondo esterno è lo schermo del computer, che gli permette di non uscire mai di casa. Per quanto egli si dichiari soddisfatto di una tale esistenza sostanzialmente eremitica, il suo psicoterapeuta – con il quale comuncia via "web-cam"-, decide che Thomas ha bisogno di uno scossone e lo iscrive ad un club per "appuntamenti" via internet. E’ così che alcune donne lo approcciano e Thomas, dapprima estremamente diffidente, all’inizio le rifiuta o le utilizza solo per intrattenervi sesso-cibernetico. Una di queste donne tuttavia lo coinvolge e lo colpisce, facendogli vivere (finalmente!) un profondo conflitto interno tra il bisogno-desiderio di contatto umano e lo stato di sofferente stallo narcisistico. Il film è a momenti un’esilarante e stupefacente avventura nel mondo cibernetico e altri una faticosa prova di forza tra malattia e vantaggi secondari della stessa, e permette alcune riflessioni sull’avvento del cyber-sex, della psicoterapia via internet, sulle compagnie assicurative sanitarie rappresentate ormai come un "grande fratello" che gestisce l’esistenza delle persone, sulla difficoltà di distaccarsi dall’incombenza della figura materna, e sull’eterno struggimento amoroso. Alla vivace discussione hanno partecipato la psicoanalista Susann Wolff (chair), il regista Pierre-Paul Renders, lo sceneggiatore Philippe Blasband e l’attrice protagonista Aylin Yay. E’ stato molto interessante constatare collettivamente il crescente "disagio della civiltà" rappresentato nel film e anche riflettere sulla dolente impasse tra nuove infinite possibilità di soddisfacimento narcisistico e il diniego, di conseguenza reso più tollerabile, della necessità del padre-terzo separante (di cui nel film non a caso non è fatto alcun cenno) che provoca grandi difficoltà nell’evoluzione di relazioni adulte mature con l’oggetto, vissuto come invasivo o, in alternativa, abbandonante fino alla persecutorietà.

 

Il FILM Vitus (Fredi M. Murer, 2006, Switzerland – 117 min) è la fiaba contemporanea di un bambino dotato di un’intelligenza ed un’abilità per la musica eccezionali. Oltre a questo, ha grandi qualità umane, tanto da non sopportare di essere considerato un bambino prodigio e fare di tutto per uniformarsi agli altri, nonostante le pressioni dei genitori, ed in particolare della madre, non arginata da un padre distratto ed immerso nel suo lavoro. Ama stare con il nonno Bruno, un’eccezionale Bruno Ganz, con cui ha un rapporto caratterizzato da grande autenticità e rispetto reciproco. Con lui condivide la grande passione del volo e il desiderio di diventare un pilota. Ribellandosi alla rinuncia alla sua stessa infanzia Vitus, dopo una caduta (che rimanda all’idea di un suicidio-rinascita), riesce a fingersi “normale”, mostrandosi impedito a suonare e cercando di integrarsi con i bambini della sua età, mentre la madre cade in depressione. Il nonno tuttavia scopre questo segreto, che rivelerà solo alla sua morte, dopo aver esaudito, grazie a Vitus, il suo desiderio di volare ed essendo riuscito ad aiutare lo stesso Vitus a spiccare il volo.

Storia giocata tra fiction e documentario (le scene in cui Vitus suona provengono da concerti svoltisi realmente) da parte di un regista svizzero considerato “visionario”, ha come ingredienti grazia e leggerezza, ironia e fantasia, che portano lo spettatore a commuoversi e nello stesso tempo a non perdere il senso critico.

La discussione, cui hanno partecipato, oltre al regista, gli psicoanalisti svizzeri Candy Aubry (chair) e Carole Bach, è stata estremamente ricca. La Bach ha sottolineato non solo la difficoltà e la solitudine di un bambino dotato all’interno della famiglia e nel contesto ambientale, ma anche il delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza e le sue vicissitudini.

Il regista si è generosamente concesso parlando a lungo della realizzazione del film e delle componenti autobiografiche. Anzitutto, ha dichiarato di aver voluto fare questo film su un bambino prodigio perché lui non è stato affatto un bambino prodigio, aggiungendo che la figura del nonno rappresenta una realizzazione di un suo desiderio, in quanto ha due figlie che non gli hanno dato nipoti: “me lo faccio io il nipotino e il nonno che avrei voluto essere”.

Stranamente, non ha fatto cenno all’ispirazione all’opera di Saint-Exupery, da “Il piccolo principe” a “Volo di notte”, nonostante i riferimenti fossero piuttosto evidenti, dalla maglietta con stampato il disegno del Piccolo Principe indossata da Vitus in una delle prime scene, ai dialoghi tra il bambino e il nonno, con richiami al volo, alle stelle e all’unicità delle relazioni. Un’altra associazione con un’opera letteraria, questa forse sconosciuta al regista: “Staccando l’ombra da terra”, di Daniele del Giudice. Una curiosità: il maestro di volo del protagonista si chiama Bruno, come il nonno di Vitus.

 

 

Durante la mattinata finale, condotta da Andrea Sabbadini e Laura Mulvey, è stato lasciato spazio alla presentazione del Primo Festival di Cinema e Psicoanalisi svoltosi in Ungheria lo scorso anno. Quindi Andrew Webber, docente di tedesco e cultura comparata all’Università di Cambrige ha introdotto due interessanti cortometraggi Vormittagsspuk [Ghosts Before Breakfast] (Hans Richter, 1927-28) e Seelische Konstruktionen [Psychical Constructions] (Oskar Fischinger, 1926-30). Si tratta delle opere di due esponenti leader dell’avanguardia tedesca negli anni ’20, interessati agli aspetti psicodinamici della visione filmica. Attenzione alla tecnica, animazione, composizione musicale si incontrano creando un’atmosfera tra il magico e l’onirico e mostrando il passaggio da contenuti più astratti all’umanizzazione degli scenari e al fascino dell’inconscio. Il film di Richter, impregnato di dadaismo e surrealismo, fa da ponte al film "corale" Dreams that Money Can Buy (1947), già citato da Jan Cristie. Gli oggetti prendono vita da soli, ma il loro comportamento anarchico è orchestrato sulla base delle proiezioni dell’inconscio. Il film è stato realizzato in collaborazione con Paul Hindemith, che vi compare in qualche ripresa, ma la colonna sonora è andata dispersa nel 1933, a seguito della messa al bando del film da parte dei nazisti. Il film di Fischinger proviene dai suoi lavori sperimentali e dal periodo in cui si sono diffuse le colonne sonore create appositamente per il mondo del cinema e lo propone come un pioniere nel campo dell’animazione (si occuperà degli effetti speciali nei film di Fritz Lang, nel disneyano Fantasia e in altri più commerciali). Di fatto utilizza le coreografie spettacolari dei comportamenti di un ubriaco per esplorare le forme fluide ma insieme costruite nella disinibizione fisica.

A questo proposito dal pubblico alcuni interessanti interventi hanno riguardato le non banali associazioni tra modalità filmica del cinema di animazione e la tecnica di reverie psicoanalitica intesa come animazione trasformativa del materiale dei pazienti: in sintesi, pur con varie difficoltà ma grazie alla tenacia creativa dei pionieri del cinema, si è passati dalla "ripetitività" alla ricerca di una narratività, ovvero dalla sequenze microscopiche (fotogrammi più fotogrammi) nel loro ripetersi ossessivo, si giunge, per via della loro giustapposizione-svolgimento temporale, alla creazione di una vera e propria "storia" con un inizio e una fine, grazie alla trasformazione possibile dei singoli elementi filmati.

Laura Mulvey ha individuato come elementi conduttori dei lavori presentati in questa edizione i temi del trauma e della memoria, sottolineando come si possa rappresentare qualcosa del bambino anche se il bambino non è il protagonista del film.

Sabbadini ha concluso i lavori ringraziando collaboratori e presenti, preannunciando che la prossima edizione del Festival si focalizzerà sul cinema dei Paesi dell’Est, ed incoraggiando la possibilità che altri paesi e altre Società Psicoanalitiche propongano iniziative analoghe a quella inglese e ungherese.

 

 

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