Cultura e Società

“Happy End” di Michael Haneke. Commento di Maria Antoncecchi

4/01/18
"Happy End" di Michael Haneke. Commento di Maria Antoncecchi

Autore: Maria Antoncecchi

Titolo: Happy End

Dati sul film: Regia di Michael Haneke, Francia, Austria, Germania, 2017, 107′.

Genere: drammatico

Trama

“Happy end” è il titolo ironico di un film che descrive l’amara realtà dei Laurent, una famiglia borghese ricca di ambizioni, ma priva di umanità. Attorno all’ottantacinquenne George (Jean Luis Trintignant), stanco di vivere, si muovono i due figli, Anne e Thomas. La figlia (Isabelle Huppert), gestisce l’azienda di famiglia coadiuvata dal fratello (Matthieu Kassovitz), un medico che vive una relazione clandestina con una musicista. Poi ci sono i nipoti, Pierre e la giovanissima Eve, figlia del primo matrimonio di Thomas, costretta a trasferirsi a casa Laurent a causa di una overdose di farmaci della madre.

Andare o non andare a vedere il film?

“I miei film sono una forma di consapevole omissione del lato bello della vita”, ha detto il regista Michael Haneke, vincitore a Cannes della Palma d’oro nel 2009 con lo splendido “Il nastro bianco” e nel 2012 per “Amour”, che ha meritato il premio Oscar per il miglior film  straniero nel 2013. Haneke, con il suo stile freddo e distaccato, riesce a illuminare aspetti bui e profondi dell’animo umano. Il ritratto familiare offerto da questo film è la descrizione di personaggi assorbiti da se stessi e incapaci di autentiche relazioni affettive e mostra come l’assenza di umanità e di empatia possa generare, come dice il regista,“ gente sgomenta, impaurita e mortalmente (nel senso letterale della parola) aggressiva”.

La versione di uno psicoanalista

Al cuore della storia c’è Eve, una ragazzina tredicenne che, attraverso la videocamera del suo cellulare, ci racconta del suo nucleo familiare con la distanza emotiva a cui la vita l’ha abituata. Il suo sguardo e la sua voce descrivono i componenti della sua famiglia in modo freddo e spietato. Immaginiamo che il suo mondo interiore sia frutto di una serie di fallimenti emotivi e relazionali, che il regista ci mostra scorrendo un filo rosso che va dall’anziano capofamiglia George fino a lei. È una visione transgenerazionale quella che esprime il vecchio patriarca con questa frase che rivolge alla nipote: ”Benvenuta nel club”. La loro è una vicenda di traumi che si trasmettono di generazione in generazione, un codice anaffettivo che trova il suo concentrato nella “piccola” Eve, le cui riprese ci portano al centro della sua visione nichilista, del suo cinismo che la rende insensibile al dolore altrui e incapace di soffrire. È attraverso una delle scene iniziali, tra le più toccanti del film, che possiamo immaginare cosa le sia successo: come il piccolo criceto in gabbia si nutre fiducioso del cibo velenoso, così Eve si è alimentata di oggetti narcisistici e distruttivi che l’hanno cresciuta nel vuoto morale ed affettivo. L’eliminazione degli aspetti vitali del Sé e l’identificazione in oggetti crudeli e “assassini” la lasciano inconsapevolmente priva di fiducia e speranza. Lei è quella che “sa”, che nessuno della famiglia è capace di amare e lo comunica attraverso la sua totale assenza di empatia e di partecipazione emotiva. Simon Baron-Cohen nel suo libro “La scienza del male” (2011) collega l’origine della crudeltà alla mancanza di empatia, che porta a trattare l’altro non come una persona, ma come un oggetto. Winnicott (1958) ha messo in luce l’importanza dell’ambiente, sottolineando come il soggetto esista solo nella relazione con l’altro e come le cure materne si basino sulla sensibilità e sulla capacità empatica della madre. L’ambiente familiare dei Laurent, vuoto affettivamente ed emotivamente (pensiamo alla madre depressa), ha reso i suoi membri esseri privi di umanità, inconsapevoli portatori del virus del cinismo che in Eve si trasforma in crudeltà. René Kaës (1993, 2007) ha messo in evidenza che il gruppo precede il soggetto e che l’inconscio è prende forma all’interno dei legami intersoggettivi e delle alleanze inconsce che lo precedono. In questo senso l’intersoggettività viene a costituirsi come uno spazio psichico attraverso il quale possiamo accedere a formazioni psicopatologiche che assumono un significato solo se viste in funzione del gruppo di riferimento. Anche il luogo dove vive la famiglia, Calais, sembra rappresentare quel labile confine tra normalità e patologia, tra ciò che è narcisisticamente accettato e ciò che è tenuto fuori, lontano come sono gli immigrati in questa cittadina del nord della Francia.

“Happy End” è la storia di una trasmissione ereditaria del male, una catena della morte che da una generazione all’altra passa senza trovare ostacoli in un mondo privo di oggetti incapaci di amare e narcisisticamente ripiegati su stessi fino a raggiungere un risultato perturbante.

 

Bibliografia

AA. VV. (2000). Il male. Cortina, Milano.

Baron-Cohen S. (2011). La scienza del male. L’empatia e le origini della crudelta. Milano, Cortina, 2012.

Fogliato F. (2008). Il cinema di Michael Haneke. Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2008

Kaës R. (2007). Un singolare plurale. Roma, Borla.

Kaës R. et al. (1993). Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma, Borla, 1995.

Winnicott D.W. (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi. Firenze, Martinelli, 1975.

 

Gennaio 2018

 

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto