Cultura e Società

Kubo e la spada magica

28/11/16

Recensione di Elisabetta Marchiori

Regia di Travis Knight, USA, 2016, 101’

Genere: animazione stop-motion, fantastico, avventura, drammatico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Non battete ciglio da ora! Se solo vi distraete, se volgete gli occhi altrove, qualcosa di terribile potrebbe capitare ai protagonisti di questa storia!”.

Queste parole introduttive, che tornano nel volgersi della storia, pronunciate dal giovane Kubo, costringono da subito lo spettatore a non distrarsi, richiamano il suo sguardo e la sua attenzione, legandolo inesorabilmente alle immagini, i suoni, le sensazioni di un film di di cui non si deve perdere nemmeno un fotogramma.

Raccontare la trama rischia di distrarre lo spettatore e impedire che la magia del cinema si manifesti appieno nella visione di un film che è un assoluto capolavoro, nel suo intreccio tra suggestioni del folklore giapponese e elementi del mondo occidentale.

Basti sapere che Kubo è un cantastorie e, suonando il suo shamisen (strumento a tre corde della famiglia dei liuti che appartiene alla tradizione giapponese), anima origami che popolano le sue storie, che non riesce a concludere perché al tramonto, proprio quando le feste in paese si fanno più vivaci, deve tornare dalla madre, nella caverna in cui abitano. Lo reclamano, infatti, dal mondo degli spiriti, su cui regna il suo potente nonno (che ha già rubato a Kubo un occhio), deciso a vendicarsi dell’affronto fattole dalla figlia (la madre di Kubo), che ha rinunciato all’immortalità per sposare un Samurai, padre di Kubo.

È come viene raccontata la storia, più che la sua originalità, quello che incanta e commuove, con qualche tocco di horror compensato con qualche tocco di commedia.

Andare o non andare a veder il film.

Travis Knight, americano classe 1973, ex-rapper ora animatore e presidente della Laika Entertainment, qui al suo debutto alla regia, ci offre un’opera di eccellenza tecnica nell’ambito della stop-motion, con l’ausilio di una straordinaria computer grafica, superiore ai precedenti Coraline e la porta magica e Boxtrolls. La stop-motion è una tecnica di animazione che consiste nel costruire ambienti e personaggi in miniatura e poi creare l’animazione attraverso minimi spostamenti, fotogramma per fotogramma. Sono state necessarie 145mila fotografie per completare i 101 minuti di durata della pellicola, il che significa anni di lavoro!

Un’opera che ipnotizza visivamente, colpendo la retine degli spettatori con inquadrature di fisicità sorprendente (trattandosi di pupazzi!).

Nello stesso tempo, la storia si snoda a livelli differenti di profondità, che non entrano mai in conflitto tra loro, cosicché lo spettatore può farsi trascinare liberamente a seconda della propria “soglia di tolleranza” e le proprie difese.

La canzone sui titoli di coda è magnificamente evocativa. Si tratta della cover, cantata da Regina Spector, di un celebre brano dei Beatles, While My Guitar Gently Weeps: “Guardo il mondo e mi accorgo che sta girando/mentre la mia chitarra piange dolcemente/con tutti gli errori da cui sicuramente dovrò imparare”.

Anche se il doppiaggio non è male, sarebbe da vedere in lingua originale: le voci sono interpretate, tra gli altri, nientemeno che da Charlize Theron, Matthew McConaughey, Ralph Fiennes.

La versione di uno psicoanalista

Il mondo degli spiriti, o meglio degli immortali, è un mondo buio, dove non servono gli occhi perché non si vuole vedere l’umanità delle persone. La madre di Kubo ha pagata cara la sua scelta, perdendo volontariamente la vita eterna per il piacere di essere vista e guardata con amore dal suo Samurai, che a sua volta viene punito privandolo della memoria. Se fosse derubato di entrambi gli occhi, Kubo potrebbe avere quell’immortalità, ma sarebbe privato della sua storia, del piacere di vivere, di entrare in relazione, di suonare e narrare incredibili avventure. A differenza di tanti film di animazione, Kubo non strizza l’occhio allo spettatore con i soliti espedienti più o meno umoristici, ma si immerge, come nella sequenza iniziale, tra i flutti dell’inconscio, in bilico tra i più arcaici terrori e la più dolce e tenera bellezza. Tocca le corde (metaforicamente e non) dei legami con i genitori e la famiglia di origine, la competizione tra sorelle, l’importanza della storia e della memoria, e della narrazione intesa come mezzo per fornire di senso la vita, preservando ricordi, affetti, valori.

Kubo la sua storia la vive e la canta con il suo shamisen dalle tre corde, a simboleggiare il legame tra figlio, padre e madre.

Le vicissitudini di Kubo si possono leggere come il passaggio dall’infanzia all’età adulta, una serie di riti d’iniziazione che prevedono l’inizio di un doloroso distacco dai genitori e nello stesso tempo il progressivo recupero delle proprie origini. Per questo è necessario accettare la sofferenza della perdita e nello stesso tempo elaborarne il lutto.

Ma Kubo e la spada magica, soprattutto, è una vera fiaba, ormai rara e tanto più preziosa, così come la definisce Cristina Campo (Gli imperdonabili, Adelphi, 1987): “La fiaba è un ago d’oro, sospeso ad un nord oscillante, imponderabile, sempre diversamente inclinato, come l’albero maestro di un vascello su un mare ondoso. Offre di volta in volta la scelta – ma è una scelta velata da veli diversi – tra semplicità e sapienza, durezza e soavità, memoria e oblio salutare”. È “un campo magnetico dove convergono da ogni lato, a comporsi in figure, segreti inesprimibili”.

E Kubo è il puro eroe di fiaba: “Egli dovrà dimenticare tutti i suoi limiti per misurarsi con l’impossibile, vigilare senza riposo su quei limiti per attuarlo (p. 32)”.

Novembre 2016

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