Cultura e Società

“La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro. Commento di Elisabetta Marchiori

20/02/18
"La forma dell’acqua" di Guillermo del Toro. Commento di Elisabetta Marchiori

Autore: Elisabetta Marchiori

Titolo: La forma dell’acqua (The shape of water)

Dati sul film: regia di Guillermo del Toro, USA, 2017

Genere: fantastico, drammatico

 

Trama

Vincitore a sorpresa del Leone d’oro alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, con una giuria presieduta da Annette Bening, “The shape of water”, del messicano Guillermo del Toro si era distinto per la semplicità e la poca originalità della storia, che propone altrettante semplici metafore sul mondo e sulla vita. “Assurda e assurdamente semplice”  la definisce il regista. Siamo negli anni ’60, durante la Guerra Fredda. La storia prende avvio dalla cattura a scopo di studio, da parte di scienziati cattivi, di un mostro marino antropomorfo e squamoso, ma al contempo intelligente, gentile e molto sensibile al contempo, una specie di tritone con pene “a scomparsa”. Questo particolare lo apprendiamo, grazie all’eloquente linguaggio dei gesti della carina, simpatica e intraprendente protagonista (Sally Hawkins), una giovane donna muta che fa le pulizie nel laboratorio dove è tenuto in attesa di vivisezione e che di lui si innamora. Seguono le vicissitudini di una storia d’amore impossibile, la ribellione e la fuga verso la libertà.

 

 

Andare o non andare a vedere il film

È un’opera fantastica, “una favola” come è stata definita, ma anche un miscuglio di tanti, forse troppi elementi, che rimandano a tanti film conosciuti, da quelli della Disney come “La Sirenetta”, “Cenerentola” e “La bella e la bestia”, a quelli di Spilberg come “ET” e “Il Ponte delle Spie”, fino alle saghe di supereroi (dove tipi del genere affollano i laboratori segreti), con un’atmosfera da fantastico mondo di Amélie combinata a un pizzico di horror.

La sceneggiatura appare piuttosto sconclusionata anche per un film fantasy, ma è talmente una miscela fluida che ci si può anche fare affascinare, perchè immerge in esperienze sensoriali di una certa intensità.

Il film ha ricevuto tredici nomination agli Oscar ed è considerato il favorito per l’Oscar più importante, quello al Miglior film.

 

 

La versione di uno psicoanalista

La forma dell’acqua «è quel tipo di film che, a raccontarlo, ti fa sembrare ubriaco anche se non lo sei», afferma ancora il regista. Ti ubriaca e ti innonda di immagini, e quando recuperi lucidità e torni all’asciutto, fuori dalla sala, può anche indurre tante riflessioni: sull’altro da sé, sul diverso (l’unico amico di Elisa è gay), sulla tolleranza, sull’incontro tra solitudini, sulla contrapposizione tra male e bene, umano-non umano, vivisezione sì, vivisezione no, e chi più ne ha più ne metta. La sensazione, tuttavia, è che sia inebriante ma che l’acqua, che pur ti travolge qualche istante, scorra via. Sembra cioè che tutti gli elementi rimangano in realtà in superficie, a pelo dell’acqua, e nulla vada in profondità. Non fosse per alcuni aspetti di violenza e di sesso (non necessari), sarebbe un magnifico film per ragazzini. Forse questo aspetto è ciò che entusiasma il pubblico e anche la maggior parte della critica, ed è anche il motivo che lo rende a suo modo interessante dal punto di vista psicoanalitico. Si può andare al cinema per tanti motivi, tra cui quello di coltivare l’illusione di potere essere reali, vivi, essere quello che si è, qualunque tipo di creatura tu sia, trovare la tua forma e il tuo contenitore. E anche di poter trovare una via di fuga da un mondo che sembra poter fare di te quello che vuole.

 

Febbraio 2018

 

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