Cultura e Società

“La mafia non è più quella di una volta” di F. Maresco. Recensione di A. Falci

23/09/19
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Autore: Amedeo Falci

Titolo: La mafia non è più quella di una volta

Dati sul film: regia di Franco Maresco, Italia, 2019, 1h 45min

Genere: documentario/commedia

 

DIMENTICARE PALERMO?[1]

Domani nella battaglia pensa a me. Indignato per il degrado delle celebrazioni per l’anniversario della strage di Capaci (23 maggio 1992) ad allegra festa popolare, tra autorità ingessate e studenti danzanti, Maresco replica con la sua docufiction, secondo il suo stile che ben conosciamo. L’avvio parte da un dialogo affettuosamente polemico tra il regista e Letizia Battaglia – fotografa free lance e pluripremiata, fondamentale testimone della Palermo insanguinata degli ’70, artista di rilievo internazionale – che è anche tra le figure di più assoluto e coerente e militante impegno antimafioso della cultura cittadina. Pessimista, negativo, caustico verso lo sfaldamento dell’impegno civile anti-illegalità, sostenitore dell’irredimibilità e della sconfitta della città, Maresco. Combattiva, fiduciosa nel cambiamento, sempre sostenitrice dell’amministrazione Orlando come unico baluardo per la tenuta politica e civile della città, la Battaglia. Su questa dialettica si innesta la fiction della festa canora in onore dei giudici Falcone e Borsellino giusto in uno dei quartieri più degradati, e a più alta illegalità, della città.

 

Les Misérables. Certamente veridica quanto vergognosa la realtà, che Maresco documenta, del disprezzo, della reticenza, della negazione omertosa del ‘popolo’ di Palermo rispetto ai giudici assassinati, e alla realtàdella mafia. Visione esasperatadel regista? O ritratto penetrante di una città spietata che, a livello di massa, non mostra segni di una redenzione etica e civile?In realtà non è lo stesso sgomento di fronte a tante realtà del nostro Paese, con fasce popolari storicamente legate ai sindacati e ai partiti di sinistra, adesso inneggianti a preoccupanti idee e programmi di una destra illiberale o peggio, e soprattutto rinneganti idee e valori che sembravano radicati? È  forseda ripensare la mitologia del progresso (civile, sociale e politico) che non è una freccia che necessariamente punti sempre in avanti. Gli eventi sociali, si sa, sono processi caotici, e non inquadrabili in semplici percorsi lineari. Ecco, in questa difficoltà a comprendere flussi e riflussi del sociale risiede forse il limite della legittima denuncia di Maresco. Non sa come leggere questo tradimento del popolo dei miseri, degli abietti, dei poverissimi, degli illegali, dei Misérables. Lo legge nel modo che gli è abituale, alla Cinico TV. Forse non di tradimento si tratta, ma di valori di isolazionismo familiare e familistico, di illegalità, di reticenza e negazione che sono sempre stati ben radicati lì. Maresco intuisce questo groviglio, ma traduce il tutto in farsa. O meglio lo traduce secondo la cifra cinica, ironica, corrosiva, sarcastica, comica e irrisoria che gli è caratteristica. Certo non si può che sorridere molto, ma molto amaramente, quando dal palco delle celebrazioni (ufficialissime!) di fronte al ben noto albero di Falcone, si sente commemorare la scomparsa dei due giudici (capite, dice la Battaglia, sono scomparsi!). Gli smontaggi culturali passano, si sa, attraverso operazioni linguistiche. Non dissimilmente, pochi anni or sono, sotto un governo di sinistra, retto da un furbissimo e loquacissimo premier, la festa del 25 aprile venne mediaticamente ed estesamente commemorata come “la festa della libertà”(sic). Le due parole, quella scritta e quella che pensate, non sono certamente la stessa cosa. Ci passa una guerra in mezzo.

 

Tristi tropici. Eppure Maresco ha una straordinaria capacità di comprendere, di conoscere e di saper fotografare il popolo vero di Palermo.  Quello che si arrangia, che tira a sopravvivere in ogni modo, che ha più di un parente in galera, che all’impegno antimafia (ma che è?) preferisce la canzone napoletana, la melodica struggente e strappalacrime, i babbaluci(chiocciole o lumache di terra) e la birra. E morte agli sbirri. Qui il regista funziona daantropologo che ben conosce linguaggi, usi e costumi dei ‘nativi’. Tuttaviaun antropologo non tanto interessato alle ragioni storiche della ‘miserabilità’degli ‘indigeni’, a comprenderne il degrado, a mostrare solidarietà e commozione, e a pensarne un riscatto. In parte maggiore è antropologo/regista intento a manipolarne la naïveté, facendone oggetto di spettacolarità ‘mostruosa’ e derisione. Riproduce i dialettismi, ma ne schernisce le grossolanità, gli equivoci con la lingua ufficiale. La vecchia storia dei letterati che ridono degli sbagli linguistici dei cafoni. Tipo: ‘Carenze musicali’ per ‘cadenze musicali’, e “lei lo sa, signor Mira, che significa ‘millantatore’”? Risate assicurate in sala. È lo stesso limitesegnalato per i pur geniali corti di Cinico TV del duo Ciprì e Maresco degli anni’90. Spaccati di un mondo estremo di emarginati miseri ‘mostruosi’ e ‘pazzi’, in un contesto degradatissimo di macerie, rovine e immondizie (immutato). Eppure fotografia spietata e attendibilissima di una città, antropologia di una plebe miserrima antica e storica, cha ha visto tutti e si è piegata a tutti: dai fenici ai piemontesi, allo Stato. Ma nelle interviste agli emarginati come separare quanto è documentazione da quanto è costruzione della gag, quadrettopreordinato, come da copione, sui punti fragili e risibili dei soggetti (o dei personaggi?).

 

Fescennini. Ecco la zona ambigua, in Maresco, tra reale e finzione. O meglio, l’uso decisamente manipolativo della realtà di cui pretende di essere reporter. Per rappresentare Les Misérablesoccorre esasperarne la materialità scurrile, i borborigmi intestinali, la lombrosiana laidezza morfologica? Potrebbe essere così. Certo si potrebbe rappresentare tutto questo, e ben altro, di peggio, ancora. Ma non se ne dovrebbe, forse, sollecitarela risata. Altrimenti cadiamo nel genere fescennino. Rappresentazioni licenziose del mondo agreste (che qui è l’enclave  segregata di un popolo urbano antico) caricaturato con lazzi e frizzi, e parlare osceno e sboccato, esibizione di falli, grandi divertimenti e sciarre(dall’arabo sciarr = guerra) lì tra i campi. Il registro estetico mareschiano si autodefinisce cinico, mentre è un caricaturale portato ai limiti del grottesco. Forse ai limiti della scorrettezza etica, anche cinematograficamente parlando. Come per il giovane cantante, presumibilmente un soggetto con seri disturbi neurologici e mentali (o il più grande attore dell’anno?), ripreso con insistenza, intrusività e irrisione davvero imbarazzanti. Dov’è la differenza rispetto alla presa in giro di un portatore di handicap nelle scuole e nel sociale? La pretesa docufictionè quindi sbilanciata su fictionper il palese uso della messa in scena: i personaggi ‘recitano’ la parte, i dialoghi ripresi segretamente a distanza sono sequenze da copione, lo spettacolo neomelodico ‘per’ Falcone e Borsellino è un set esterno, e il divertente palleggiamento sulla dichiarazione antimafia tra Mira e Mannino è una chiara citazione della lettera di Totò e Peppino con ‘punto, due punti, punto e virgola’. Impianto caricaturale e rilevanza della messa in scena confermano il paradosso di un film fatto come film ma che tende a presentarsi come non-film.

 

CinicoTV for ever.Se Maresco coglie nel segno nella denuncia civile, non riesce tuttavia a trovare un linguaggio all’altezza del suo progetto. Ricicla frammenti e schegge del linguaggio che già fu del modello Cinico TV, e di altri documentary tipoEnzo, domani a Palermo, 1999, e Belluscone, 2014, senza tuttavia la capacità di elaborare una nuova forma di scrittura e di realizzazione filmica compiuta che non sia dejá vù. Così, dopo una prima parte che coniuga l’impegno civile e una messa in scena comico-grottesca, il film si va arenando e disperdendo in situazioni ripetitive e frammentarie. Qua e là, qualche tentativo evocativo di una filmica più citazionista e svincolata da una ‘estetica del degrado’. Ad esempio nella scena di Battaglia e Zecchin (ma che ci fa Franco Zecchin in questo film, così mal utilizzato come comparsa?) con il transgender, l’assurdo, i dialoghi stralunati, il ritorno in taxi con i tre personaggi che non guardano in macchina da presa, la colonna sonora jazzistica anni ’20 (e Maresco è un fine esperto di jazz), sono una citazionedel migliore Woody Allen. Così come le prove di danza e canto nello studio televisivo sono un aperto omaggioaTano da moriredi Roberta Torre, 1997. Piccole cose in un film improvvisato e scompaginato, dove anche il continuo commento fuori campo del regista, anziché conferire autorialità, aggiunge una nota di invadente e opprimente presenza. Un film che non sa come terminare, e aggiunge in quasi finale lo sgangherato e incomprensibile accanimento contro Mattarella, tirato molto forzatamente in argomento per la vicenda della trattativa Stato-mafia. Non si comprende che cosa c’entri questo inserimento incongruo con il degrado dell’impegno morale civile e politico della città. In mancanza di un rigore costruttivo, e nella evidente angustiadell’indagine docufictiontroppo focalizzata sul quartiere degradato e non sul più esteso disimpegno di tutta la città, Maresco sembra fare operazione di accumulo di detriti per conferire all’operazione filmica una forza che non ha.

 

Premi speciali della giuria.Pur con i grandi meriti del regista, per la creazione di un genere cinematografico del tutto originale, va forse anche riconosciuto come quest’opera soffra diun insistente riciclaggio di formule espressive già conosciute e di una difficoltà creativa che non riesce a portare in alcuna direzione le inquietanti e serissime questioni da cui partiva. Che resta allora nel film non-film? Restano alcuni mirabili e unici filmati della città di trenta-venti anni fa. Resta la possibilità di vedere la performance di Letizia Battaglia, che è perfettamente e autenticamente sé stessa. Parla, fuma e agisce e non le manda certo a dire, esattamente come nella vita. Letizia è l’ombelico del film (e sono sicuro che la metafora non le dispiacerà affatto) che dà centro al corpo del film, ma anche l’occhio (e neanche questo le dispiacerà), più che fotografico, l’occhio etico del film e della Palermo civile e indignata che lotta per un riscatto. In finale l’assegnazione dell’Oscar degli Oscar spetta al supremo Ciccio Mira, l’approssimativo impresario degli spettacoli canori, mistero inafferrabile del film, già protagonista di “Belluscone”. Passa per un non attore preso ‘dalla vita’. Se lo fosse, allora merito della direzione registica che ha saputo guidarlo. Mira come esemplare prototipico del genius loci. Reticente, negazionista, omertoso, opportunista, miserabile e benestante, amico degli amici, accomodante vile e passivo con qualsiasi nemico, potere statale, mafioso, poliziesco e giudiziario, mezzo scemo e furbissimo, maschiosempre, anche da morto. Vedilo e capisci tutta la città. E la sua storia. E il suo futuro. Forse.

Nota

[1]‘Dimenticare Palermo’ è stato il titolo di un libro di Edmonde Charles-Roux, Oublier Palerme, 1966, ed anche il titolo di un film di Francesco Rosi, 1990, tratto dallo stesso romanzo. Il punto interrogativo invece è mio.

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