Cultura e Società

Mad Men. Recensione di Cecilia Ieri

21/11/16

Creata da Matthew Weiner, Usa 2007-2015, 7 stagioni, 92 episodi

Genere Period Drama

Sito ufficiale http://www.amc.com/shows/mad-men

In streaming http://eurostreaming.tv/mad-men/

Commento di Cecilia Ieri

Non sono un’appassionata di serie televisive, ma quando ho incontrato Mad Men non ho potuto evitare di guardarla. Nella storia e nelle immagini c’era qualcosa.

Quella che segue sarà una recensione necessariamente “infedele”, non sono un critico e la mia memoria, soprattutto inconscia, attingerà da alcune immagini-stimolo, residui nella mia mente, da usare come un gomitolo da srotolare per sviluppare dei pensieri.

Mad Men è una serie di qualità creata da Matthew Weiner che ha ricevuto numerosissimi premi, quali 15 Emmy Awards e 4 Golden Globes”; trasmessa da AMC, racconta la vita americana degli anni sessanta attraverso un’agenzia pubblicitaria di New York e gli occhi di Donald Draper, ha debuttato nel 2007ed è andata avanti per otto anni e sette stagioni, conquistando pubblico e critica.

Mi è parsa seguita poco, rimaneva nell’ombra mentre si parlava molto di In Treatment e, in effetti, ha qualcosa a che fare (anche) con le ombre.

La psicoanalisi non è solo un dialogo tra due persone: non è forse la presenza/assenza dell’analista, la sua particolare posizione – interna ed esterna – la precondizione necessaria che consente la messa in forma e il dispiegarsi di qualcosa che rimanda (anche) ad altro rispetto al qui e ora della relazione?

Ho pensato che il rapporto queste due serie potrebbe essere come quello tra il sogno manifesto e il sogno latente: il primo, In Treatment, sembra richiamare molta attenzione, ma la pertinenza con la psicoanalisi, a mio sentire, era solo apparente; mentre il secondo, Mad Men parla di una questione che potrebbe o, meglio, dovrebbe, interrogare continuamente la psicoanalisi. Mi riferisco necessità di errare al fine di incontrare lo straniero, l’inconscio, dentro di sé, potendo sentire la paura creativa e il turbamento che questo inevitabilmente comporta, potendo tradire e cercare continuamente se stessi per comprendere qualcosa dell’Altro.

Mad Men – e già la doppia valenza del titolo è interessante – ha come protagonista Donald Draper, uno tra i primi pubblicitari di New York negli anni ‘60 alle prese con la sua realtà, interna ed esterna, con un’origine rinnegata, e quindi sempre sulla scena, di un uomo che si barcamena tra scissioni più o meno funzionali e i proprio desideri, consci e inconsci.

Donald Draper, Don, è il suo nome e allo stesso tempo non lo è: un nome rubato, che il protagonista cerca di fare suo costruendosi una pseudo-identità e una pseudo- normalità che lo tenga lontano dalla verità della sua storia e da un se stesso sentito, forse, troppo deprivato, fragile e indegno. Infatti egli è in realtà Dick, il residuo del figlio-bambino di una prostituta, senza padre, rimasto orfano e cresciuto da uno zio violento in una casa-bordello da cui a un certo punto egli fugge via.

Don è un nome che deriva da un furto d’identità, vitale, ma che, nello stesso tempo, devitalizza la vita “perbene” che Don cerca di costruirsi per negare e, nello stesso tempo, costruire se stesso.

Una vita normale che prende forma e che nel frattempo estranea sempre di più Don da qualcosa che egli ha dentro, da quel qualcosa che egli non conosce e che per questo lo influenza, che lo porta alla ricerca incessante di altro rispetto all’apparente normalità con cui cerca di proteggersi e di raccontarsi.

Don è un creativo, sta a modo suo nelle cose, spesso ha difficoltà con i colleghi, difficoltà a riunire in una sola donna la corrente sensuale/sessuale e quella della tenerezza. È un uomo alla costante ricerca di qualcosa che non sa cos’è e che stenta a prendere la forma di un desiderio definibile.

È anche, come acutamente sottolinea uno degli autori di Serialmente – uno dei tanti siti internet che trattano di serie televisive – “l’appagamento allucinatorio del desiderio infantile di Dick”.

È interessante notare che, in tempi di presunta crisi della psicoanalisi, questa stessa continui ad affacciarsi nelle pieghe, sicuramente colte, di mondi altri, forse meno preoccupati di giustificare i propri pensieri e per questo meno inevitabilmente timorosi di averne.

Chi è Dick se non il bambino alle prese con un Io ideale, con un sogno su se stesso?

Ma anche: chi è Dick se non il sessuale infantile in cerca di oggetti e che smuove continuamente Don portandolo a inventare, a vivere, continue avventure avvolto in un’inquietudine di cui egli sembra non avere mai (troppa) paura.

Don non ha paura di errare, di perdersi, di ritrovarsi alle sei del mattino in ufficio a infilarsi una nuova camicia pulita per iniziare l’ennesima giornata di lavoro dopo una notte inquieta e inquietante. L’oggetto primario, non posseduto abbastanza, compare continuamente nelle sue ricerche. Il passato continua, infatti, ad accadere nel presente, l’intreccio dei tempi che l’analisi costantemente ci obbliga a toccare e Don, inevitabilmente, può continuare a desiderarlo proprio perché non lo potrà possedere mai.

Come accade nell’esperienza del lavoro analitico là dove occorre tollerare di non sapere, di accettare che non si possiederà mai la Cosa, la psicoanalisi, la verità, la scienza.

La giovane, bella e infantile moglie di Don, che gli sta a fianco, piano piano diventa sempre più l’immagine di se stessa, offesa dalla realtà e prigioniera dei propri bisogni infantili che non le consentono di uscire dall’idea irraggiungibile di sé instillata in lei – si può pensare – da una madre che l’ha usata narcisisticamente perché forse troppo fragile e capace di sostenersi solo a patto di identificazioni adesive con ciò che la circonda.

Nel frattempo Don si cerca e si perde sempre di più, la sua scissione sembra definitiva quando il giovane cugino, colui che sa, che sembra essere l’unica connessione possibile con il suo passato, muore suicida.

Don rischia ora di diventare davvero chi non è: non c’è più alcun testimone del suo furto e le sue origini, quando compaiono all’orizzonte, sembrano risvegliare timore di crolli, angosce intollerabili, che ovviamente Don può non sentire finché può essere contemporaneamente uno e un altro.

Nello stesso tempo sembra che un qualche contatto che Don mantiene con qualcosa di originario gli consente di barcamenarsi e di rimanere fedele alla sua creatività: una fedeltà che sembra richiedergli di poter essere continuamente infedele.

Cos’è che gli consente di immaginare, di trovare l’idea pubblicitaria sempre giusta, se non la sua capacità di dimenticare se stesso e di identificarsi con i bisogni, i desideri dell’altro per trovare la formula per vendere quel prodotto? Che cos’è che gli consente di parlare all’inconscio degli altri se non un qualche contatto con il proprio desiderio e con la propria inquietudine?

Don cerca qualcosa, una via, un modo possibile di “stare” ricordando “l’uomo tragico” e la professione dello psicoanalista, la capacità di costruire continuamente castelli sulla sabbia sapendo/non-sapendo dell’illusorietà ma, anche, del valore di questo momento d’illusione per procedere. Don non ha paura di vagare; ferisce, si ferisce, cerca di vivere, non fa sconti e non si fa sconti; non si accomoda; non ha paura dell’abisso che c’è dentro di sé, va incontro agli abissi degli altri. Si perde, ma mai del tutto.

Almeno in parte egli fa incontri che gli consentono di contattare degli aspetti di sé mobilitati dalle sue avventure e da quella spinta interna che non gli permette di sostare troppo a lungo da nessuna parte.

Un personaggio certamente discutibile, che per lunghi periodi fatica a trovare un contatto con se stesso e, a tratti, rischia di perdere la sua creatività perché alle prese con le pressioni interne ed esterne che talora fanno sembrare le cose solo ciò che sono: l’opprimente senso di realtà che spesso contrasta la possibilità di mantenere attivo un pensiero sognante su se stessi e sull’Altro? Don butta all’aria matrimoni, famiglie, il lavoro e risorge ogni volta, scommette ogni volta, ha un suo stile a discapito di non sapere bene chi è. Anzi, forse possiamo dire che il suo stile lo abita e lo guida alla ricerca del suo vero sé, che lo spinge come una forza pulsionale, al di là delle forme di se stesso che egli cerca di darsi. Don affronta un percorso di ricerca attraverso l’ignoto, verso cui va forse nel tentativo di riappropriarsi della propria storia libidica, forse nel tentativo di cercare quel vero Sé che non deve mai essere trovato ma che sarebbe un peccato se non fosse cercato mai.

A mio avviso, questa sorta di romanzo in immagini può essere visto come una moderna versione televisiva del romanzo proustiano; qui le immagini-cartolina e i brevi dialoghi stanno al posto delle lunghe e bellissime introspettive – descrizioni del mondo interno ed esterno di N., il famoso narratore. I due personaggi, Don e N., apparentemente hanno poco in comune ma chissà … Forse una domanda di fondo è identificabile: come fare a vivere?

Forse entrambi parlano anche dell’Altro come oggetto di desiderio attraverso cui si cerca se stessi.

In chiusura un pensiero, facile, sul doppio significato – giocoso – del titolo: Mad Men, così venivano chiamati i pubblicitari di NY nell’epoca della nascita della pubblicità, ma anche uomini matti: forse un rimando all’uso creativo, possibile, della pazzia.

La psicoanalisi si occupa ancora della follia?

Gli psicoanalisti continuano a coltivare una paura (creativa) dell’inconscio? Nell’attuale preoccupazione di giustificare se stessa, la psicoanalisi corre il rischio di lasciare in ombra qualcosa d’importante, di perderlo senza poterne fare il necessario lavoro del lutto.

E se la vera follia fosse l’impossibilità di fare il lutto delle proprie origini, il procedere con la negazione delle stesse (la madre sensuale e prostituta di Don, le origini ipnotiche e l’identificazione primaria, il sessuale infantile indomabile) per andare incontro a una sopravvivenza sotto forma di immagini senza radici, in cerca di affiliazioni psicologiche o neuroscientifiche, apparentemente legittimanti e all’insegna, di fatto, di una inevitabile diversità epistemologica fondatrice? Mad Men, insomma, anche come immagine-stimolo per continuare a interrogarsi rispetto a quale sopravvivenza/pseudo-sopravvivenza viene resa possibile da un furto di identità. Quale identità è possibile per chi non può accedere a un pensiero creativo, mobile ma, anche, inevitabilmente fondato sulle proprie origini?

Inaspettatamente Don, in chiusura della penultima stagione, porta i figli, che non hanno mai saputo nulla della sua vita e della sua storia, di fronte alla casa-bordello in cui è nato lui/Dick e in cui egli ha passato la propria infanzia. Don dice loro semplicemente: “È qui che sono nato”. Possono stare insieme in silenzio a guadare la scena che si apre, il passato non fa più troppa paura e si ricongiunge a un presente. Sembra la fine della storia, il ritorno possibile all’origine, a una verità emotiva che consente un contatto maggiore con il presente della propria vita.

Questa scena non è il finale, è solo uno dei finali possibili, un punto di svolta che apre al nuovo, a una nuova serie, a un altro clima, a un Don necessariamente diverso che di nuovo piega e deforma la sua immagine (e la nostra di lui).

La serie si chiude in modo ancora più inaspettato, ironico e creativo… con una parodia del supposto pensiero libero che finisce invece per creare superficiali adesioni: Don sembra finito in una setta hippie, medita in gruppo insieme ad altri capelloni che si sentono al di là e al di sopra della realtà, sembra finalmente inserito, appartenente a qualcosa.

Ma Don sorride, la scena si rompe: il flusso del suo pensiero creativo ha trovato un’altra immagine da vendere a un pubblico che desidera e che va in cerca di forme, spesso precostituite.

Non lui, non Don. L’immagine che Don riesce ad afferrare diventerà paradossalmente il simbolo di un’epoca, quella della pubblicità e del consumo di massa, della libertà diventata prodotto da vendere, da svendere così come il pensiero, quando esso diventa semplice, lineare, chiaro, volto a spiegare … volto a prendere le distanze dall’ombra.

L’ombra così necessaria per un pensiero psicoanalitico che non abbia (troppa) paura di parlare dell’inconscio e della sua irriducibilità, di errare, di confondersi, di non sapere, di essere a sua volta instabile, incerto, transitorio, paradossale, in divenire, pur avendo chiaro quale è il suo posto nella storia e nella cultura di un’epoca.

Settembre 2016

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