Cultura e Società

“Marx può aspettare” di M. Bellocchio. Recensione di C. Giraudi

20/07/21
"Marx può aspettare" di M. Bellocchio. Commento di C. Giraudi

Autore: Camilla Giraudi

Titolo: “Marx può aspettare”

Dati sul film: regia di Marco Bellocchio, Italia, 2021, durata 96’.

Genere: drammatico, documentario.

Tagliato il traguardo dei suoi 80 anni, collezionati i più importanti riconoscimenti per i suoi lavori, fino al prestigioso riconoscimento alla carriera con la Palma d’Oro d’Onore a Cannes, Marco Bellocchio torna alle domande che lo avevano portato a esplorare l’animo umano nelle sue più oscure profondità fin da quando era un giovane regista, in una ricerca di senso scomoda e coraggiosa. Ora che Marx viene messo da parte, è possibile per l’uomo e per il regista, rileggere la sua storia con uno sguardo presente e onesto.

Ripercorrendo le tracce della sua filmografia in una sorta di coazione a ripetere, rotta forse grazie all’ascolto degli altri, compreso di chi voce non ne ha mai avuta (come la sorella sordomuta o chi allora ancora non esisteva, come i figli del regista), Marco Bellocchio tratta i temi della famiglia, della sofferenza psichica, del suicidio, di una religiosità che può essere teneramente consolatoria o drammaticamente falsificante, della Verità. In questo intenso lavoro viene mostrato il dolore respirato nelle vicende familiari traumatiche dei Bellocchio, che si è concretizzato nel suicidio del fratello gemello ventinovenne del regista, Camillo. In questo film, molto apprezzato a Cannes e ora in sala, Marco Bellocchio affronta attraverso schietti confronti/interviste con i suoi fratelli, familiari, un prete e uno psicoterapeuta il suicidio di suo fratello e il suo senso di colpa per non averlo aiutato: Camillo rappresenta una parte fragile, sofferente, incapace di salvarsi da sola; un grumo di dolore inavvicinabile che, sommato a molti altri, non ha trovato spazio per essere visto, tantomeno affrontato. Ognuno si è messo in salvo come ha potuto e dove ha saputo ha trovato rifugio. Tessuta assieme a scene di storia e a brani di suoi vecchi film, quest’ultima opera di Bellocchio accenna anche a una madre “cieca”, a un padre morto troppo presto, a un fratello primogenito schizofrenico ingombrante, a un mancato riconoscimento, recuperato oggi attraverso la sorella superstite, della fidanzata del fratello suicida. Si parla cioè di un ambiente affettivo inaridito dal dolore, forse riscaldato da un appassionato investimento intellettuale, tra impegno politico e letterario, dei fratelli che hanno avuto successo.

Più livelli si intrecciano in questo potente miscuglio di immagini e musiche, solo in apparenza, un documentario intimo e personale: sono presenti, infatti, le vicende della famiglia del regista, attraversata da più parti dalla lama del dolore, ma anche le allusioni alla produzione filmica di Bellocchio, sempre potentemente ispirata e appassionata, il contesto culturale in cui queste narrazioni, vissute nella realtà storica e psichica, sono collocate e radicate. Una Storia altrettanto ferita, che forse ci mostra quanto la sofferenza unisca, ispiri grandi rivoluzioni, costringa al Pensiero, appiglio alla vita. Il confronto con Thanatos risuona nell’animo dello spettatore, accompagnato dalle musiche di Ezio Bosso. Il musicista con i suoi brani ci trasporta con un’immediatezza straordinaria e un’intensa vitalità in questo viaggio interiore, con la profondità di chi ha lottato corpo a corpo con il dolore e ha trovato nella passione, in Eros, una risposta alla paura e alla morte.

“Qual è il senso della vita? Parlo per me, perché tu hai la fede”, dice Mauro Ponticelli/Michel Piccoli in “Salto nel vuoto” (1980). Questa sembra essere la costante ricerca, apparentemente laica, di Bellocchio.

Il collage di immagini ottenuto dal montaggio di spezzoni di interviste, materiale d’archivio storico e brani dei suoi film più intimi, ci apre uno squarcio nella psiche del regista, svelando almeno in parte la sua Recherche per associazioni libere, rimandando altresì alle costruzioni e ricostruzioni personali che anche noi, nelle nostre menti, operiamo con i ricordi a tratti esaltati, trasfigurati, perduti o rimossi, come sul lettino dell’analista, o nei conti faticosi che ciascuno di noi fa, a un certo punto, con se stesso.

L’accostamento di materiali diversi di questo potente film ha portato la mia mente alle sculture di stoffa di Louise Bourgeois, che rammendava, rimetteva insieme e dava forma, con meticolosa cura, a brandelli di stoffe, abiti di se stessa bambina e stracci: gli stessi elementi primitivi e logori di cui siamo fatti, quando ci concediamo di guardare a noi stessi senza orpelli, senza ipocrite sovrastrutture. Il filo di Bellocchio sembra qui portarci però anche a qualcosa d’altro. Penso al filo che permise a Teseo di non perdersi nel labirinto, che rappresenta quella “fede” laica che ci permette di stare nel mondo e che nasce dall’incontro vero con l’Altro, che ci vede e ci accetta per come siamo. È il filo che permette di riemergere dallo spaventoso dedalo della nostra mente, dopo aver cercato e reso inoffensivo il Minotauro, quel mostro selvaggio e feroce, dominato dall’istinto animale, che alberga in noi, più o meno segregato nelle profondità della nostra psiche. Al buio del dolore, delle famiglie da cui si può sentire l’urgenza di fuggire per non sentirsi sacrificati, sembrava contrapporsi la luce della ragione, delle battaglie combattute per la giustizia, gli ideali, quelli di Marx, delle liberazioni sessantottine. Oggi Marco Bellocchio, sostenuto dalle calde parole e dai pensieri colmi di profonde riflessioni affettive dei suoi cari, integra la lingua grezza delle emozioni, quella primaria, primitiva, usata nell’Antico Testamento o descritta dall’orda primitiva del “Totem e tabù” freudiano trovando la sua Libertà -la riparazione dal senso di colpa?- affrontando lo sguardo di sua figlia (“e tu, gli hai risposto?”), accettando il proprio limite (“non me lo ricordo”), per perdonare se stesso e gli altri e ritrovarsi al tavolo dell’Unione, con i sopravvissuti e i discendenti, con un calice di vino dei Colli Piacentini, in una profana liturgia della riconciliazione.

La rivoluzione definitiva, sembra forse volerci dire Bellocchio, non è dunque quella marxista, ma quella che si muove tra il sentirsi in diritto e in colpa di esistere, tra il desiderio di vivere la propria vita e la colpa per non aver potuto sostenere chi non ha saputo crearsi il proprio spazio. Il “mostro” che crediamo fuori di noi e combattiamo nelle nostre gioventù (il genitore, il Capitalismo) si svela dentro di noi: grazie ai fili offerti dalle diverse Arianne delle nostre esistenze, gli amori, le passioni, le analisi, possiamo affrontarlo e riemergere da questo difficile viaggio nel profondo, reali e limitati, pacificati. La rabbia dei pugni chiusi nascosti nelle tasche (“I pugni in tasca”, 1965), impotenti e temuti, perché potenzialmente distruttivi, è così finalmente domata e lascia spazio alla comprensione onesta e colma di pietas, che permette un nuovo ritorno, che ci autorizza a sentirci in diritto di sederci al tavolo della vita, ciascuno al proprio posto.

Milano, 18 luglio 2021

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