Cultura e Società

“Ogni cosa è illuminata”: una parabola sull’amicizia

25/02/10

In margine a Ogni cosa è illuminata

 

Arnaldo Ballerini (1)

 

Tre anni fa Fausto Petrella mi inviò la registrazione di un film. Il film era intitolato “Ogni cosa è illuminata” e mi entusiasmò al punto che cercai il libro da cui era tratta la vicenda e non smisi di riproporlo agli amici.

Ci sono verbi che connotano una visione del mondo che un dato tipo di ricerca propone: così è della coppia comprendere-spiegare per la psicopatologia clinica o del verbo  interpretare per l’ambito psicoanalitico o di vedere-illuminare per l’ambito fenomenologico. Illuminare non significa comprendere né stabilire nessi causali ma trovare, o meglio donare, un nucleo di senso, un eidos: è questo senso delle cose passate che illumina il presente.

La tragedia nella quale la vicenda di questo film è immersa, lo sterminio degli ebrei ucraini con la distruzione dei loro villaggi, non impedisce all’autore di offrirci un umorismo scintillante, una leggerezza che rende ancora più espliciti e infine godibili  molti degli scenari di vita sullo sfondo dei quali si sviluppa la vicenda.

Questo è un film immerso, imbevuto di mestizia, ma non lacrimoso: sfiora con mano lieve eventi tristissimi, tranne forse nel finale, un orrore al quale ci conduce attraverso la bellezza del paesaggio, i ruderi delle centrali nucleari sovietiche, l’adolescenziale scintillio di Alex. Nel complesso certamente un testo drammatico ma soffuso di leggerezza dalla genialità dell’autore.

Mi sembra che le linee portanti del film siano: la memoria, l’ identità, l’ amicizia.

E’ stato detto che si può discutere all’infinito sulla vacuità dei simulacri, sulla loro ingannevole capacità di sostituirsi all’esperienza reale delle cose; tuttavia resta l’ esperienza che una fotografia o un ciondolo o una manciata di terra possano non solo ricordare la perdita ma parzialmente supplire l’assenza perché, funzionando come reliquie,  sono una parte stessa della cosa piuttosto che la sua rappresentazione.

E’ evidente l’intreccio di questo film fra le cose che illuminano e le cose illuminate, fra memoria e identità. Esso sembra suggerire la possibilità che la ricerca dell’identità giochi un ruolo nello stabilire un rapporto che sia l’emblema del modo di essere dell’amicizia.

La vicenda propone una parabola sull’identità e sull’amicizia. La “molto rigida ricerca” del giovane americano è un viaggio verso un luogo che non esiste più come luogo geografico, che non è più indicabile con un nome nella cartografia attuale, ma che sopravvive nel cuore della donna che ne ha pazientemente collezionato le tracce, anzi le reliquie: perfetta antitesi del comportamento del nonno ucraino che ha cancellato la propria identità ebraica dopo essere  miracolosamente sopravvissuto all’ esecuzione dei nazisti.

Il concetto di identità personale è complesso e scomponibile in vari aspetti costituenti. Quanto alla indispensabile, ma non sufficiente, funzione della memoria nella costruzione della normale identità, John  Locke alla fine del Seicento, nel testo “Of Identity and Diversity”, definiva l’identità come frutto di una comparazione della medesimezza a sè stessa (sameness with itself): questa comparazione deve poter essere retroattivamente estesa dalla memoria in modo da trasformare un vissuto puntiforme in una continuità possibile. Un autore più vicino a noi nel tempo, Paul Ricoeur, distingue tre superfici dell’ identità: 1) identità-idem, relativa a essere “lo stesso di prima” e che ha molto a che fare con la identità di ruolo; 2) identità-ipse relativa all’ essere  “se stesso”; 3) identità narrativa frutto della confluenza delle prime due superfici in una narrazione biografica possibile. Sotto questa luce, il  postulato di Locke  della estensione retroattiva dalla memoria nella direzione di una continuità significa passare inavvertitamente dalla identità come  medesimezza alla identità come ipseità, da essere lo stesso ad essere se stesso. E’quanto mi sembra accadere al vecchio nonno di  Odessa -la cui identità posticcia si reggeva sull’ abiura del suo essere ebreo- il quale  chiude con il suicidio quella sorta di notte dell’identità nella quale era a lungo vissuto.

Del resto, la memoria ha certamente un ruolo in relazione al concetto di “identità narrativa”  (G. Bernegger, 2004). Se la nostra identità è il racconto di noi stessi, noi non siamo semplicemente quello che siamo stati, ma precisamente quello che ricordiamo essere stati. Nel contempo, noi attualizziamo i ricordi da un contesto ben più ampio di modo che la nostra identità narrativa  è soltanto una delle possibili identità narrabili.

Ad esempio, all’inizio del film Alex è rappresentato  da una certa auto- narrazione (ballerino di grande livello da cui le ragazze sono irresistibilmente attratte in spropositato numero, eccetera) mentre alla fine si intravede una possibile narrazione identitaria diversa.  In ogni caso, la funzione di base che permette a un vissuto o a un ricordo di integrarsi in un’ identità narrabile è che quel vissuto o quel ricordo vengano riconosciuti irrecusabilmente come i propri, come appartenenti a sé. Tuttavia il presupposto  perché il racconto fondi l’identità è che questa abbia a che fare  con quel se-stesso che ha radici in una memoria trans-personale, una memoria che mi sembra rappresenti uno stile di vita, che va al di là anche dei cambiamenti identitari possibili visto che la identità si costruisce lungo tutta una vita. 

Ed è proprio durante questo viaggio di ricerca che i due giovani, all’inizio e apparentemente così diversi, non solo scopriranno di avere radici in comune ma istituiranno anche un legame che è assieme la conseguenza  e la causa della luce che li illumina dalle cose passate. Una amicizia  che assomiglia assai a quel tipo di relazione, anzi a quel modo di essere, che Binswanger collocava accanto al modo di essere nell’amore.

La tragedia indotta dalla ferocia della aggressività sboccia in quella sorta di fiore di speranza che è l’amicizia e che dà un senso nuovo alla situazione di quella “molto rigida ricerca”.   

 

Nota (1)  Intervento dalla sala in occasione di un evento speciale di Buio in Sala per la Giornata della Memoria, Firenze, Cinema Auditorium Stensen, 23 gennaio 2010.

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