Cultura e Società

“Quello che non so di lei” di Roman Polanski. Commento di M. Antoncecchi e G. Giustino

20/03/18
"Quello che non so di lei" di Roman Polanski. Commento di M. Antoncecchi e G. Giustino

Autori: Maria Antoncecchi, Gabriella Giustino

Titolo: Quello che non so di lei

Dati sul film: Regia di Roman Polanski, Francia, 2017, 110′

Genere: Drammatico

Trama

Delphine, autrice di un romanzo di successo, sta vivendo un momento di difficoltà quando una sua ammiratrice inizialmente gentile e premurosa s’insinua nella sua vita. Il legame che si crea tra le due donne è sempre più potente e pericoloso e dà vita a una relazione dai confini sempre più sfumati costruendo un intreccio inquietante tra realtà e fantasia, verità e bugia.

 

Andare o non andare a vedere il film

Tratto dal romanzo “Da una storia vera” di Delphine De Vigan, la protagonista del film, come l’autrice del libro, ha successo con una storia autobiografica sulla madre morta suicida. È in questo particolare momento che compare Lei (Elle), una sconosciuta ammiratrice che entra nella “mente” di Delphine impossessandosi di lei. La sceneggiatura del film scritta da Polanski insieme a Delphine de Vigan e ad Oliver Assayas ruota sul tema dell’identità, tenendoci sospesi fino alla fine in un perturbante gioco di specchi.

 

La versione di due psicoanaliste

Ma chi è Delphine? È una scrittrice di fama internazionale che, dopo il suo ultimo successo, vive una crisi profonda che cogliamo attraverso il suo sguardo vuoto, celato dietro un sorriso di circostanza mentre firma gli autografi ai suoi entusiasti lettori. Delphine sa che tutti si aspettano da lei un nuovo libro, il marito, l’editore, i suoi fans, ma la sua mente è vuota come la pagina bianca del suo computer e le sue dita non trovano nulla da scrivere sulla tastiera. Una crisi d’identità che viene da lontano, come lei stessa ci dice: “Non c’è niente di interessante nella mia biografia; nel migliore dei casi non c’è nulla, nel peggiore è angosciante”. A nulla valgono quei quadernini ben riposti nell’armadio ai quali lei ha affidato, fin da bambina, i suoi pensieri e i suoi stati d’animo. Come dice il titolo del film Delphine non sa nulla di se stessa “perché scrivere la propria autobiografia quando si può ricorrere alla fiction?”. È proprio su questa traccia che una donna determinata e seduttiva s’installa nella sua mente e nella sua vita come un corpo estraneo sconosciuto ma familiare, promettendole successo e fama. Ma chi è Lei? Perché Delphine ne è conquistata? La sottile linea di demarcazione tra realtà e finzione, verità e bugia percorre tutto il film in modo molto sofisticato. Se analizzassimo da un punto di vista psicopatologico e intrapsichico la dinamica tra la protagonista e Lei (pronome IM-personale) potremmo dire che la bugia colonizza la sua mente seducendola e sottomettendola, fino a che la menzogna diventa delirio. In un vuoto d’identità preesistente “Lei” trova terreno fertile per insinuarsi subdolamente nella mente e nella vita di Delphine, prenderne il controllo, dominare tutto. Ciò che troviamo geniali sono l’intuizione del regista e la sua capacità di mettere in scena il modo in cui la protagonista collude (più o meno consapevolmente), con cui si lascia sedurre con un’arrendevolezza “sospetta” e irritante per lo spettatore. La bugia è la moneta di scambio per il successo del suo libro e del suo precario equilibrio narcisistico. Se Delphine non ha un’identità e non sente di avere una storia personale come potrebbe raccontare la sua biografia ?

Il furto d’identità tra le due donne è reciproco, la sottomissione compiacente avviene in una dinamica sado-masochistica; Delphine racconta di una biografia che sembra non esistere e, in questo gioco perverso, sancisce un patto con “Satana-Lei” rischiando di auto-annientarsi. Sfiora la morte ma, infine, si salva e si ricompatta in un falso assetto vincente. Infine potremmo chiederci chi ruba che cosa e a chi. Il furto e la menzogna prima o poi chiedono conto e tutto si riproduce in un circolo vizioso senza fine.

La “verità è cibo per la mente” diceva Bion: la bugia può essere una protezione, una difesa utile per la sopravvivenza di un Sé narcisisticamente fragile. Se la bugia però diventa menzogna delirante è un buio della mente, un oggetto anti-vitale, un -K che porta alla coazione a ripetere senza vie d’uscita.

                

Bibliografia

Baranger W., Baranger M.(1963) Malafede, Identità e Onnipotenza. In La Situazione psicoanalitica come campo bipersonale, Milano, Cortina 1990.

Bion W. (1970) Attenzione e interpretazione. Armando, Roma, 1973.

Capozzi, P. (2002). Bugia e tossicomania. Letto al Centro Milanese di Psicoanalisi.

Giustino G. (2013). L’impostore, in Rivista di Psicoanalisi, 2013/1:130, Borla Roma.

Giustino G. (2016) Alcune riflessioni sulla natura della bugia. Letto al Centro Milanese di Psicoanalisi .

Mattana, G. (2012) La trasformazione dell’identità fra bugia e delirio in  Rivista di Psicoanalisi, 58:587-604, Borla, Roma.

Meltzer, D. (1982) Un’indagine sulle bugie: loro genesi e relazione con l’allucinazione. Quaderni di psicoterapia inf. , 13, 187-196.

Winnicott, D. W. (1960). La distorsione dell’Io in rapporto al vero e al falso Sé In: AAVV Il pensiero di Donald W. Winnicott. Armando,Roma, 2007.

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La zona d’interesse" di J. Glazer. Recensione di P. Ferri

Leggi tutto

“Past lives” di C. Song. Recensione di M. G. Gallo

Leggi tutto