Cultura e Società

Blue Jasmine 1

11/12/13

Woody Allen, USA, 2013, 98 min

commento di Amedeo Falci                                                                      

JASMINE’S BLUES

Jasmine’s blues. La depressione di Jasmine. Il perno significativo di tutti i bleu del film. “Blue Moon”- “Blue Jasmine”- “Jasmine’s blues”. E, probabilmente, il “blue blood” della protagonista, il cui sangue elitario & upper upper class non si può far imbastardire dalla vita comune.

Quarantacinquesima, o giù di lì, regia di WA, dopo anni di alti a bassi, e dopo un paio di dimenticabilissime regie (“Vicky Cristina Barcelona”, “To Rome with Love”) presumibilmente girate da un clone. Apparentemente il film si inserirebbe nel filone ‘storie di donne’ ­– “Un’ altra donna”. “Alice”, “Mariti e mogli”. E nel filone ‘etico’ – “Interiors”, “Crimini e misfatti”, “Harry a pezzi”, e soprattutto “Match point”, “Sogni e delitti”, e “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”. Apparentemente.

In realtà alle prese con due temi di enorme portata, la gravissima crisi finanziaria americana e i devastanti effetti sulle vite e sulle psicologie umane, il film non riesce fonderli in un’operazione convincente. Principalmente per la mancata armonizzazione dei vari registri utilizzati.    

La costante immersione del racconto e dei personaggi nel solito wit(z) wodyalleniano, qui davvero abbastanza déjà vu,  fatto di battute, finezze, paradossi, ironie, gags, nevroticismi amabili e divertenti, spezza, disperde e dissolve la forza del personaggio di Jasmine. Che si introduce negli inizi della narrazione come soggetto soliloquente e sofferente, sospesa sul bordo di una follia in cui ricade in pieno dopo 90 minuti di un intreccio indeciso tra umorismo e cupezza. Né giova al film il continuo e didascalico ping-pong anacronico, per cui a ogni evento di San Francisco corrisponde lo svelamento di una pregressa realtà storica newyorkese.

Sappiamo bene che WA sta, modernamente, dal lato di Balzac, e non da quello di Dickens, e che tutto questo immane crollo apocalittico finanziario e umano e sociale lo interessi solo marginalmente, tanto per giustificare l’ennesimo ritratto di una donna ‘nevrotica’. Baldwin è uno spregiudicato businessman da commedia, senza spessore di personaggio, e la working class rovinata solo un pretesto per muovere la macchina dell’ intreccio. Woody Allen come autore apolitico?

Ma il film è percorso da un respiro molto angoscioso, messo in risalto da una fotografia opaca e da un cielo chiuso. Angoscioso per il crollo delle speranze, per l’ ineluttabilità delle falsità (lei non si chiama neanche Jasmine), per l’incapacità di adattarsi, per la prolungata rinuncia a capire, per l’ inevitabilità del ripetere, per la inaccettabilità dell’ etica del lavoro. Il nostro sorriso rimane sospeso, indeciso, quasi interdetto, di fronte ad un personaggio che dovunque si muova si muove in una fastosa irrealtà delirante.

Se il ritratto di donna depressa si dipana incerto e contraddittorio, il registro etico non è meno ambiguo. Siano lontanissimi dall’aura tragica che permeava il conflitto tra i due fratelli in “Sogni e delitti”. Qui il contrasto tra Jasmine e sua sorella è pretesto comico, come nella secolare farsesca contrapposizione tra parenti ricchi e parenti poveri. È solo appena avvertibile come la falsificazione e l’inautenticità dell’universo sociale e morale della protagonista sia pervasiva e contagiosa verso il mondo dei ‘poveri ed onesti’. Ancora una volta, il disastro etico di Jasmine, che a Woody Allen interessa mettere in risalto, non è quello ‘sociale’ e ‘politico’ della sua compartecipazione, come classe sociale, alla zona grigia di collusione con l’inganno finanziario, bensì quello privatissimo ed intrapsichico della sua delazione con conseguenze rovinose a catena sui suoi affetti privati.

E se il senso del film è seguire questa inevitabilità del male, questa discesa nella perdita totale del personaggio, lo sguardo di accompagnamento di Woody sembra ambiguo, malsicuro. Lontanissimo dalle sue intense riflessioni etiche di “Match point”, “Sogni e delitti”, e “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni”. L’integrazione tra idea e scrittura, che lì era intrinseca, qui è tutta vacillante. Al punto il regista deve introdurre dei passaggi artificiali veloci e forzati per potere imprimere le giuste svolte drammatiche ad una scrittura da commedia. Come l’inopinata comparsa dell’ex-cognato, lavoratore rovinato ed adesso sbattutosi in Alaska, davanti alle gioiellerie più ricche della città, come elemento chiave per la fine dei giochi e lo scioglimento di tutti i nodi. E per permettere finalmente che Jasmine, possa arrivare a quel devastante senso di fallimento, disperazione, delirio, soliloquio edhomelessness che tutto il witzeggiamento del film ha solo ritardato. Bene, adesso il film può cominciare.

Kate Blanchett regge ovviamente tutto il film dall’alto della sua mostruosa bravura. Nei suoi vezzi da donna sofisticata con abito Chanel (l’unico probabilmente che le è rimasto), nei suoi woodyalleniani nevroticismi gestuali e linguistici. Compiacente, falsa e seducente quando basta. Meravigliosa nella sua disperazione. E assolutamente perfetta nell’ultima scena, ‘pazza’ soliloquente in panchina, dove in un apice masochistico offre impietosamente al pubblico un volto tumefatto, gonfio, alcoolico, invecchiato, disfatto.

Proprio perché lo amiamo, restiamo sempre profondamente delusi nel constatare quando e quanto Woody Allen tenti di vivere di rendita. Citando e imitando Woody Allen. E mettendo in scena le solite gags che ci lasciano l’amaro in bocca. E saltellando su sceneggiature non meditate e inaccurate. E mettendo in cantiere film su tematiche immani  e devastanti senza tuttavia la creatività e l’originalità di saperle trattare fino in fondo. Rimaniamo delusi e disorientati, terribilmente sospesi tra un sorriso ironico che stenta e una riflessione tragica  che non arriva. Attenderemo ancora.

Dicembre 2013

 

 

François Truffaut, regista che narra l’eroismo dell’uomo comune.

a cura di Fiorella Pètrì

 

Intervista a Francesca Geria

 

Francesca Geria ha iniziato la sua carriera scrivendo articoli di critica cinematografica sul Quotidiano di Messina (1995/96) e, in seguito, fino al 2011, sulla rivista on line Reporternews. Ha collaborato alla redazione del testo di letteratura Itinerari pubblicato dalla casa editrice Paravia curando la sezione concernente il rapporto tra cinema e letteratura.
E’ stata per molti anni programmatrice e consulente cinematografica della Mediateca S. Sofia e della Mediateca INCAMPUS, entrambe del Comune di Napoli. In quest’ambito ha organizzato eventi di cinema e fatto parte, con altri, della Direzione Artistica del Festival di Cortometraggi “‘O Curt “, della giuria al Napolifilmfestival e al Festival Omovies.
Un suo saggio è comparso sulla rivista Paragone Letteratura nel numero dedicato al cinema nel Febbraio-Giugno 2009. Tra le numerose presentazioni di film, ricordiamo quella in occasione della festa della donna all’Istituto francese di Napoli Le Grenoble nel 2011, del film di Marina Spada “Poesia che mi guardi” dedicato alla poetessa Antonia Pozzi.
Segue da tantissimi anni i principali festival cinematografici europei: Berlino, Cannes, Torino, Bergamo e Roma.

 

A cura di Fiorella Petrì

 

F. Petrì: del cinema, tua passione giovanile, sei riuscita a fare il fulcro del tuo lavoro nel Comune di Napoli come programmatrice cinematografica e consulente della Mediateca InCampus. Da anni, vai in giro per l’Italia e per l’Europa per seguire gli sviluppi dell’attuale cinematografia italiana e internazionale, tra le altre cose, sei anche “ispiratrice” del gruppo di studio, coordinato da Maria Stanzione, “Dentro l’immagine” che nel Centro Napoletano di Psicoanalisi si occupa del rapporto tra Cinema e Psicoanalisi. E’ proprio nel corso delle nostre riunioni che sentendoti presentare alcuni film di François Truffaut ho scoperto il tuo amore per questo regista e la profonda conoscenza che hai della sua vita e dei suoi film; film che hanno fatto la storia del cinema. Puoi raccontare del tuo ‘incontro/colpo di fulmine’ con questo Regista?

 

F. Geria: No, Truffaut non è stato un colpo di fulmine; è stato invece un amore, inizialmente un po’ lento ma duraturo, nato contemporaneamente alla mia cinefilia. Avevo scoperto quanto il cinema fosse importante per me già quando ero una ragazzina, ma, a quel tempo, questo interesse era avvolto da una nebulosa sensazione di piacere/necessità. I miei primi contatti col grande schermo furono lancinanti quanto confusi, non ero interessata alle vite dei divi e ancor meno a quelle dei registi. Mi servivo delle immagini per identificarmi nei personaggi, cercavo tra le storie quelle che mi facevano sentire meno sola e meno diversa. Ero nell’età del malessere, in piena adolescenza, tutto questo avveniva in una città come Reggio Calabria.
Dove vivevo, non arrivavano molti film. Ricordo soprattutto tanti western scelti con prepotenza da mio fratello, più grande di me, al quale ero affidata per qualche uscita pomeridiana e poi molti film comici e commerciali che mi annoiavano a morte e non mi facevano mai ridere e che vedevo insieme ai miei genitori i quali cercavano al cinema distrazione e allegria.
La scintilla della passione per la settima arte scoccò col mio trasferimento a Napoli.
I miei colpi di fulmine furono: “Niagara”, “La gatta sul tetto che scotta” e “Splendore nell’erba”.
Tutti film pregni di sentimenti forti che mi appassionavano e mi coinvolgevano su piani diversi.
Il mio interesse per Truffaut, come dicevo, nacque dopo, insieme a quella che man mano diventava cinefilia e grazie all’incontro con un gruppo di amici con i quali passavo le serate a parlare di cinema. Grazie a loro avevo scoperto che i film non iniziavano e finivano sullo schermo ma potevano continuare a vivere negli scritti di alcuni autori e nei commenti che si accavallavano tra tantissimo fumo di sigarette e bicchieri di vino e che spesso generavano animatissime discussioni, talvolta anche rotture di rapporti, tra i cultori di questo o quel film o di questo o quel regista.
Quegli anni ricchi di film e di parole hanno contribuito moltissimo a rafforzare la mia identità.
In quei giorni ho capito cosa volevo fare: occuparmi di cinema.
Ho privilegiato l’attività, se così si può chiamare, di spettatrice; ho iniziato a frequentare moltissimo le sale cinematografiche, preferibilmente da sola, avendo subito compreso che erano poche le persone capaci di restare in religioso silenzio durante una proiezione.
Solo dopo diversi anni ho avuto la possibilità di lavorare nell’ambito cinematografico.

 

F. Petrì: “Scelgo una storia perché ne sono scelto in qualche modo, perché ci sono cose, spunti che voglio trattare o mettere in ordine con me stesso…” Queste parole di un altro regista francese, Patrice Chéreau, ci fanno capire quanto la produzione artistica, in tutte le sue manifestazioni, è determinata dalla spinta interna a mettere in scena, nel tentativo di elaborarli, vissuti emotivi consci e inconsci. Quanto le storie narrate da François Truffaut ci parlano della sua vita e ci svelano i suoi traumi? Pensavo ad esempio a “I quattrocento colpi” o “Gli anni in tasca”, film che parlano di un’infanzia segnata da rifiuto e solitudine e di un’adolescenza tormentata e trasgressiva. Nei suoi film sono molto ricorrenti temi riguardanti il rapporto con la figura materna, spesso la scena è dominata da madri assenti o narcisiste e padri distratti e sfuggenti.

 

F. Geria: Penso che tutte le opere parlino dei loro autori, non solo i film, ma anche i quadri e i libri, direi che anche scegliere un ambito scientifico piuttosto che un altro può rivelare un desiderio inconscio del ricercatore, la ragione profonda di una scelta di una branca del sapere piuttosto che un’altra.
Anche nel caso di François Truffaut la sua vita si confonde con i suoi film e questo è evidentefin dai suoi primi lavori.
E’ lui stesso a dircelo quando afferma che, in fondo, nelle sue opere racconta “sempre la storia di una mancanza, di una frustrazione. In I Quattrocento colpi la mancanza della tenerezza;in “Fahrenheit 451” la mancanza di cultura; ne “Il ragazzo selvaggio” la frustrazione della conoscenza”.
I suoi film nascono sempre da una forte spinta autobiografica.
Nel film “Il ragazzo selvaggio” è anche evidente quanto la figura paterna abbia forti legami con la sua esperienza di figlio illegittimo e non desiderato.
Se nel film il ragazzo troverà nel dottor Itard chi gli insegnerà a diventare un “uomo morale”,nella sua vita il regista troverà in André Bazin, noto critico e teorico del cinema e tra i fondatori della Nouvelle Vague, il padre che lui stesso avrebbe voluto avere.
Sarà Bazin, infatti, a salvarlo dalla piccola delinquenza, a tirarlo fuori dalla prigione militare dove Truffaut era stato rinchiuso come disertore. Bazin e sua moglie lo ospiteranno a lungo nella loro casa e sarà grazie a Bazin che Truffaut inizierà a lavorare ai “Cahiers du cinéma”.
Come dubitare che il giovane Antoine Doinel, segnato da una madre assente e dal mistero della sua nascita, sia l’alter ego dell’autore?
I temi ricorrenti nei suoi film sono tanti. Anche se lui stesso affermava che “Il soggetto dei soggetti è l’amore” e anche se questo sembrerebbe essere il tema più prepotente, a un occhio più attento non ne sfuggiranno altri.
Il tema della pedagogia ad esempio, ampiamente presente in Truffaut, era un tema cui teneva molto e non è casuale che in quasi tutti i suoi film, ci sia sempre qualcuno che insegna qualcosa a qualcun altro.
Altro tema frequente è la timidezza, tutti i suoi personaggi maschili sono timidi, essendo questo un elemento molto forte del suo carattere.
Che dire poi del piacere della lettura? Quasi tutti i suoi film sono tratti da romanzi. Dal suo mondo di solitudine e sconfitte affettive il rifugio non poteva che essere la letteratura e il cinema. Lui stesso affermava che non solo potevano migliorare la vita, ma che avevano “il potere straordinario di creare una vita parallela in cui gli elementi discordanti si armonizzano”.
Possedeva moltissimi libri e, in più di un film, aveva reso omaggio ai suoi autori preferiti: ne “I 400 colpi” il protagonista costruisce un altarino in onore di Balzac, ne “La camera verde” sono presenti altri altari dedicati ai suoi maestri, ancora Balzac ed Henry James e, in “Fahrenheit 451” gli uomini- libro imparano testi a memoria per custodirli e salvarli idealmente dal rogo ordinato da chi vuole distruggere la cultura.
Ancora una nota biografica: Truffaut spesso realizzava un film per porre rimedio a un altro.Ho letto in una sua intervista che, poiché “I quattrocento colpi” era stato per la madre come una coltellata alla schiena, aveva realizzato “Jules e Jim” per dimostrarle quanto invece l’aveva capita.
Possiamo dire che quando si guardano i suoi film si finisce sempre, lentamente e senza accorgersene, per allontanarsi dal film ed entrare nel mondo del regista.

 

F. Petrì: mi sembra che stai dicendo che Truffaut nelle sue opere è impegnato in una continua conversazione interna con i suoi oggetti di amore/odio infantili; ma quale ritieni sia il fil rouge che attraversa i film di Truffaut?

 

F. Geria: Quanto detto finora, mi sembra già rispondere a questa domanda, ma aggiungerei che, secondo me, il vero fil rouge che lega tutti i suoi film, tutta la sua vita e che ne rappresenta anche tutta la sua debolezza, è il desiderio di piacere, di sedurre; di sedurre, non solo le donne, ma anche i suoi collaboratori e i suoi spettatori. Lui voleva farsi accettare e amare attraverso le sue opere.
Dal punto di vista strettamente legato alla regia, un tratto comune ai suoi film, che ho sempre apprezzato, è la sua predilezione per la ‘sprezzatura’, cioè per quella sorta d’indolente sbadataggine, tipica di chi insegue i propri pensieri senza preoccuparsi troppo di pianificare tutto, e che ritroviamo nella sua calcolata noncuranza dello stile, elemento che spesso l’ha fatto apparire a qualche critico come un regista superficiale.

 

F. Petrì: Qual è il rapporto di Truffaut con l’amore? Si dice che sia stato un gran seduttore e che si innamorasse sempre delle protagoniste dei suoi film.

 

F. Geria: Truffaut affermava che: “Dato che un amore dura poco tempo, non c’è altra soluzione per combattere la solitudine, che innamorarsi spesso” e lui, puntualmente, rispettava questa ‘regola’, soprattutto con le attrici dei suoi film a cui rimaneva comunque legato anche dopo la fine del rapporto, sia perché non amava interrompere le relazioni e sia perché ancor meno amava le separazioni. 
Il suo modello femminile era quello della donna eterna, appassionata, amava le donne che sapevano andare fino in fondo, come le protagoniste dei suoi film, Adele H, Catherine di “Jules e Jim” o Léna, la protagonista di “Tirate sul pianista”.
La pietra angolare del suo mondo è il film “L’uomo che amava le donne”.
Tolti i panni di Antoine Doinel, il regista, forse sentendosi più libero, crea Bertrand, un altro suo alter ego, un seduttore solitario, nervoso e ossessivo. Anche questo personaggio non ha conosciuto il padre ed è stato poco amato dalla madre presa dai propri intrighi amorosi. Il film narra la storia di uno scrittore alle prese con un romanzo autobiografico, un uomo che, più che sedurre le donne, desidera da loro essere amato. Non arriverà a vedere la pubblicazione del suo libro perché morirà in un incidente d’auto causato da un momento di disattenzione  mentre è intento a guardare le gambe di una donna. 
Il film inizia con la scena del suo funerale dove sono presenti tutte le donne della sua vita. Il regista, con questa scena, anticipa quello che avverrà realmente al proprio funerale.
“Nell’autunno del 1984, nel cimitero di Montmartre, le sue ex erano quasi tutte accanto a quell’urna che conteneva le sue ceneri. C’erano Catherine Deneuve, Jeanne Moreau, Jacqueline Bisset, Fanny Ardant, le meno famose e le più anonime. E c’era Madeleine Morgenstern, sua moglie, da cui era divorziato e dalla quale era tornato negli ultimi giorni di vita. Fissavano l’urna e di tanto in tanto si scambiavano sguardi, come se la morte di Truffaut le avesse riavvicinate e unite in un sodalizio… Erano legate dal rimpianto come se la passione o l’amore di anni lontani o vicini mandassero ancora bagliori. Françoise Truffaut non era un uomo che lasciava dietro di sé tristi reliquie.” (1)

 

F. Petrì: e cosa mi dici del suo rapporto con la morte?

 

F. Geria: Com’è noto Truffaut era figlio illegittimo, quindi è pensabile che abbia vissuto fortemente il senso di abbandono.

 

Dopo la nascita fu affidato a una balia e, in seguito, lasciato in custodia ai nonni. Il mestiere del nonno paterno era tagliatore di lastre di marmo, per questo è ipotizzabile che abbia avuto fin da piccolo contatto con cimiteri e con l’idea della morte.
Un po’ per questo, ma sopratutto per la sua storia personale, possiamo supporre che vissuti di assenza, di perdita, di non esistenza – tematiche depressive – fossero in lui sempre presenti.
Penso che il suo rapporto con la morte sia strettamente legato al suo concetto di donna e di amore.
La difficoltà a separarsi da una donna era la stessa che incontrava nel separarsi da chi aveva conosciuto attraverso i film o la letteratura.
Salvaguardare il rapporto con la persona un tempo amata, e immortalare i grandi del passato, che avevano saputo parlare al proprio cuore, è il tema che ritroviamo nel film “La Camera verde”.

 

F. Petrì: In che modo ritieni il Regista francese ci parli dell’eterno conflitto tra Eros e Thanatos nei suoi film?

 

F. Geria: Il fatto stesso che tendesse a innamorarsi frequentemente, anche delle sue attrici, può far pensare a una reazione a un sentimento depressivo. Innamorarsi spesso era forse un modo per sfuggire all’angoscia legata alla morte? Come se Eros fosse il tentativo reiterato di reagire all’attrazione di Thanatos.

 

F. Petrì: pensi che François Truffaut e la corrente cinematografica Nouvelle Vague, di cui faceva parte, abbiano influenzato il cinema contemporaneo e, in particolar modo, quello americano?

 

F. Geria: La Nouvelle Vague è stata la linea di demarcazione tra il cinema classico e il cinema moderno. Fu un nuovo modo di usare il cinema come strumento di rivelazione del reale. Questa nuova corrente coincideva con il gruppo della redazione dei Cahiers du cinéma ricca di nomi entrati tutti nella storia del cinema e non soltanto del cinema francese. Tra i più noti, Chabrol, Rivette, Rohmer e Godard. Truffaut era l’alfiere di questa corrente, tra quelli che più hanno contribuito a un ringiovanimento generale.
Non so quanto abbia influenzato il cinema americano, ma sono certa che sono molti i registi considerati suoi ‘figli’. Non ho prove che, ad esempio, Wong Kar-Wai, il regista cinese contemporaneo più importante, conoscesse i film di Truffaut ma mi piace pensare che, senza aver visto i suoi film, non avrebbe mai potuto fare “In the mood for love” e “2046”.
I suoi ‘figli’ sono tanti, almeno quanto i suoi ‘padri’, così come i ‘giovani turchi’ della Nouvelle Vague erano stati i suoi ‘fratelli’.

 

F. Petrì: Sappiamo che è stato di Truffaut il merito di far riscoprire e apprezzare l’opera di Hitchcock tanto in Europa quanto in America. Nel Il cinema secondo Hitchcock (2) troviamo una lunga intervista, durata ben cinquanta ore, concessa da Hitchcock a François Truffaut, nell’agosto 1962, durante la quale Hitchcock risponde a cinquecento domande, ripercorrendo in questo modo la sua intensa carriera. Sono occorsi a Truffaut quattro anni per sbobinare il materiale registrato, ordinarlo e trascriverlo. Sapresti dirmi cosa del regista inglese affascinava tanto Truffaut? E come il suo stile di regia lo abbia influenzato?

 

F. Geria: Truffaut, come ho appena detto, ha avuto molti ‘padri’, a parte Bazin di cui ho già parlato, molti sono stati i registi importanti per lui, penso a Renoir, Wells e Rossellini che definiva “il mio padre italiano ed uno dei più grandi spiriti del secolo”. Ammirava moltissimo anche Hitchcock che riteneva fosse uno dei registi più intelligenti tra quelli che vivevano in America.
Il libro d’interviste, durato appunto ben cinquanta ore, è stato un atto di giustizia verso di lui.
Pensava che, benché Hitchcock fosse un regista di successo, l’America lo avesse sottovalutato e lui volle in questo modo convincere la stampa che fosse invece il più grande regista vivente, quello che meglio aveva saputo riflettere sul cinema.
Nei film di Truffaut troviamo tracce di tutti i maestri da lui amati e stimati e, ovviamente,anche tracce hitchcockiane nonostante non abbia mai fatto né pensato di realizzare un vero thriller né si possono considerare tali “Tirate sul pianista”, “La sposa in nero” e “La mia droga si chiama Julie”.
Come scrive Malanga (3): “…nei suoi film, al di là delle evidenti citazioni del maestro, si sente l’eco della paura hitchcockiana tutte le volte che i personaggi vibrano d’amore. Hitchcock cerca di proteggersi terrificando il pubblico, Truffaut fa altrettanto seducendolo”.

 

F. Petrì: E’ stato riconosciuto a François Truffaut un vivace impegno politico durante il Maggio Francese, credi che questa sua passione trapeli nei suoi film e in quali?

 

F. Geria: Truffaut e la Nouvelle Vague, sull’onda lunga dell’esistenzialismo, hanno anticipato la rivoluzione culturale del ‘68. I giovani del ‘68 sono andati ad abbeverarsi alle esperienze dei ‘giovani turchi’. Questi avevano già rotto con i valori consolidati del cinema borghese che, anche quando si trattava di cinema eccezionale, era ai loro occhi sempre troppo manierista.
La rivoluzione e l’entusiasmo che Truffaut vedeva nei giovani avevano sollecitato una reazione al suo pessimismo caratteriale, dandogli la speranza di una nuova vita. Si è battuto soprattutto per quella che riteneva fosse la sua vera famiglia, la Cineteca di Parigi. Godard, suo sodale e compagno di formazione, lo accusò, poi, di avere rimosso il ’68, le battaglie, le contestazioni del festival di Cannes, gli ideali.
In realtà il suo impegno era tutto sul versante estetico, mentre quello di Godard si era spostato fortemente su quello politico.
“La verità – dirà Truffaut – è che tutti noi siamo più o meno anarchici di destra o di sinistra”.
La sua anarchia lo portò a preferire gli uomini alla politica, incerti, borderline, incompresi, incompleti come i suoi personaggi.
Lui sapeva parlare di cinema e d’amore, la sua ricerca intimista non è stata travolta dal ’68.
Sebbene infondesse nei suoi film temi sociali, si è dovuto, fino agli anni ’80, difendere dall’accusa di essere borghese.

 

F. Petrì: Quale messaggio, credi, quest’Autore abbia lasciato in eredità alle future generazioni di registi?

 

F. Geria: I suoi film sono ricchi di personaggi commoventi e coinvolgenti che esplorano e sviluppano il linguaggio cinematografico. Con lui è nato un nuovo rapporto tra cinema e pubblico, i suoi film hanno saputo produrre emozioni parlando un linguaggio semplice, geniale e universale. Truffaut ha messo in scena l’eroismo dell’uomo comune.
Lo spettatore, seduto nella sala buia di un cinema, guarda il film e diviene complice del narratore. Attore e spettatore si guardano come in uno specchio.
Per riassumere il messaggio di Truffaut con un’immagine, scelgo la scena finale de “I 400 colpi”: Antoine Doinel che guarda negli occhi lo spettatore.

 

F. Petrì: Grazie Francesca per aver arricchito la nostra conoscenza di Truffaut e di aver messo in risalto l’attualità e l’universalità delle storie che questo regista ci ha lasciato.

 

1. Intervista comparsa in “Io Donna” supplemento Corriere della Sera n.35, 1996.

 

2. François Truffaut (1966), Il cinema secondo Hitchcock. Il Saggiatore, Milano, 2009.

 

3. Malanga P. Tutto il cinema di Truffaut. Dalai Editore, Milano, 2008

 

Dicembre 2013

 

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