Cultura e Società

Class Enemy

15/10/14

di Rok Bicek, Slovenia, 2014

Commento di Rossella Valdrè

“La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive”

(T. Mann, La montagna incantata)

E’ la frase centrale del riuscitissimo esordio dello sloveno Bicek, tra le molte citazioni di Mann che punteggiano il racconto. La vicenda si svolge interamente all’interno di una classe liceale, di un moderno e democratico liceo sloveno dove, come accade oggi, i ragazzi sono abituati alla negoziazione, al rapporto pressoché paritario con gli insegnanti, posseggono una loro ‘voce’ (qui, una piccola radio) con cui farsi sentire, simpatici e vitali, ma prevalentemente impreparati e approssimativi (di cosa ha scritto un Autore sanno poco o nulla), sono abituati a facili ‘sufficienze’ e gli insegnanti, giovani e tolleranti, li guardano con simpatia, la psicologa della scuola è pronta ad ascoltarli per ogni problema. La scuola del ventunesimo secolo, come ribadirà la Preside, donna ferma e a suo modo ‘giusta’, attenta soprattutto all’immagine del suo istituto all’esterno.

In seguito ad un’assenza per maternità della loro insegnante e tutor di classe, donna gentile e amorevole, arriva a sostituirla il professore di tedesco Zupan: da subito, nella caotica classe il clima muta completamente. Zupan è uomo d’altri tempi, estremamente esigente; sulle prime può apparire sadico e viene, infatti, appellato dai ragazzi come ‘nazista’, il suo volto serio, concentrato, la mascella dura e lo stesso suono inflessibile della lingua tedesca, tratteggiano ed evocano un mondo assolutamente lontano da quello in cui la classe ha vivacchiato fino ad allora. Concentrato esclusivamente su Thomas Mann (di cui percepiamo un profondo amore), li trova subito impreparati, ancorati alle sole risposte di quello che è ‘in programma’, poco capaci di sviluppare un ragionamento e idee proprie, di riflettere sulla psicologia profonda dell’autore; li coglie e li sorprende con domande imbarazzanti, a loro modo scabrose, che attraverso la letteratura giungono a farli riflettere su se stessi. Ma se l’intento è, nella sua essenza, educativamente buono, i metodi risultano alla classe insostenibili: quasi nessuno ha più la sufficienza, le loro mancanze vengono esplicitate senza mezzi termini, non si scherza, non si gioca, non ci si lascia andare con quest’uomo severo, solitario, ordinato, silenzioso, che non sorride mai, che sembra trapassarli col suo sguardo fermo, privo di concessioni.

Una delle studentesse, Sabina, la cui fragilità è evocata fin dall’inizio (lo sguardo triste, il chiedersi ‘perché viviamo?’, la passione per le sonate di Chopin), di lì a poco si suicida.

Inizia la parte più intensa, più interessante del film: lungi dal costituirne il vero tema, il suicidio di Sabina diventa il pretesto, l’occasione per fare della classe – dove si svolge, chiusa come in un rigoroso setting, l’intero sviluppo della storia – un simbolico ring, un disvelamento progressivo di conflitto, emozioni, rabbie, odio, fino a allora sopiti sotto il manto moderno del politically correct, perversione contemporanea che edulcora i vissuti e le emozioni rendendoli apparentemente maneggevoli ed equivalenti.

Inevitabile, l’odio dei ragazzi nella prima parte del film verso il professore: l’hai uccisa tu, con la tua severità, con le tue offese. In una conversazione precedente il suicidio, il professore la aveva fatta ragionare sul termine ‘fallito’, vedendola incerta sulle future scelte della vita, proprio lei che, fra tutti, con la sua musica possedeva un talento. Abbiamo così bello e pronto un primo colpevole. Ma il regista, abilmente, non ci lascia a questo mondo scissionale, tutto bianco o tutto nero, dove il male sta da una parte sola, e ci introduce via via in sottili contraddizioni. I genitori (grandi esclusi in questo film, come nella vita psichica dei ragazzi) rivelano che soffriva di essere una ragazza adottata, e intravvedono lì il peso della loro colpa (“la avremmo amata diversamente se fosse stata nostra?). I compagni, che ora nel lutto la idealizzano e la ergono a simbolo delle ingiustizie subite, si erano lasciati scappare qualche frase infelice, che solo ora, nell’aprè coup del ricordo, assurge a pretesa di senso. Si scatena la caccia al colpevole, al facile capro espiatorio nel professor Zupan e nei suoi metodi ‘nazisti’, ma come sempre in questi casi (non rari i suicidi di adolescenti anche solo per un brutto voto a scuola e, a quanto apprendo documentandomi sul film, ad alto tasso i suicidi in Slovenia), nessun capro espiatorio è sufficiente, nessuna spiegazione è esauriente, come dirà la mite psicologa, non sappiamo cosa c’è davvero nella mente delle persone. La reazione è straordinariamente, unicamente soggettiva: ciò che sotterra uno, rende più forte un altro, è una regola della vita (come in tutti i film che mi colpiscono, immediata in me un’associazione, un preciso ricordo: come preside alle medie ebbi una donna che, diversamente da Zupan, non esito a definire sadica: godeva nell’umiliare, soprattutto i più talentuosi. In qualche occasione fui una sua vittima: non mi sono suicidata, non mi passò neanche per la mente. Mi ribellavo, trasgredivo le regole. Oggi sembra preistoria, ma negli anni ’70 esistevano ancora scuole di ‘suore’ così…Chiuso l’inciso personale. Aggiungo: il vero sadismo non fortifica, indebolisce, ma il rigore forse sì…chissà se ci è passato il giovane regista).

Si scatena la ricerca del senso; intolleranti all’horror vacui della mancanza di nessi, significati plausibili causa-effetti, si scatena il furore del cercare il motivo. Che non esiste, non o sappiano. Sabina era fragile, portava in sé una ferita, che forse il professore, o altri, o le pressioni della vita (spesso i ragazzi accusano la scuola di essere “troppo pressante”) a un certo punto hanno messo in luce, spezzando un delicato equilibrio.

I contorni tra colpevoli e non cominciano a farsi sfumati, il Giusto e lo Sbagliato perdono i rigidi confini dell’inizio. La stessa figura del professore, protagonista centrale del film, da ‘nemico di classe’ acquisisce contorni più complessi, meno evidenti e stereotipi: non è propriamente sadismo il suo, non gode nell’umiliare nessuno, è rigore. La sua emblematica figura, obsoleta per gli stili di oggi, mette in gioco una riflessione tra la modernità educativa, intesa come deresponsabilizzazione e protezione ad oltranza dei giovani dai dolori della vita, e vecchia scuola, più formativa, ma meno empatica. “La scuola superiore è un privilegio, non un diritto”, dirà. Parole impopolari, oggi: trovo in quest’accento l’originalità e il coraggio del film. Se ne L’attimo fuggente (di Peter Weir, 1989), rimando evocativo inevitabile, ma ben più facile, era in primo piano il carisma narcisistico del professore, la sua seduzione sui giovani e il suicidio, sempre nel solco della fragile identità adolescenziale, poteva assumere un aspetto anche più emulativo, qui siamo all’opposto: l’austero Zupan non fa nulla per piacere, anzi, nulla per sedurre.Il suo desiderio, la sua mission, diremmo, è fare di questi giovani poco capaci di scegliere degli individui consapevoli, maturi, pietre ferme nel fiume, dirà in una metafora, che non si fanno sbattere dalla corrente, né si fanno trascinare da un tronco. Il riferimento insultante al ‘nazista’ che è facile evocare, appare dunque scorretto: Zupan non fa differenze tra l’uno e l’altro, tra immigrati o meno, a lui solo importa che si calino, con quella che dev’essere stata la sua passione, nel Tonio Krogher di Mann, che ne penetrino l’anima, e non si limitino al ‘programma’.

 “Fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza, non vuol dire semplicemente subire: è un’azione attiva, un trionfo positivo.”

                                                                                                      (T. Mann, La morte a Venezia)

Severo con i ragazzi ma anche con se stesso, Zupan è un uomo novecentesco, coerente ai limiti dell’isolamento (non sfugge l’identificazione a Thomas Mann, che in più passi elogia il valore della solitudine per il raffinamento del pensiero), tratta l’altro con lo stesso rigore con cui tratta se stesso, come l’ingenua collega di ginnastica che, nel goffo tentativo di avvicinarlo per un invito a sentire musica, viene subito messa di fronte alla sua qualunquistica incompetenza: cosa vuoi ascoltare, Mozart, Bach…? Due cose toccano, infatti, il cuore di Zupan: la grande letteratura, e la musica. Al sentire le note di quando Sabina suonava, al ricordo di quella melodia, la maschera dura del suo volto si concede una pausa, un respiro; l’immagine evoca l’ultima scena de Il pianista di Polanski (2002), quando al sentire le note al piano, il soldato della Weimar si ferma, estasiato, e salva il prigioniero.

Sottotesto evidente, ma che richiederebbe un’altra recensione, la ferita ancora aperta della storia tra sloveni e tedeschi, accennata qua e là in varie battute (“Voi sloveni, quando non vi suicidate, vi uccidete tra voi”, sentenzia un ragazzo asiatico), illuminando la metafora della classe come riflesso in piccolo di una società ancora divisa al suo interno tra fazioni opposte che risalgono alla seconda guerra mondiale, a odii non elaborati (la stessa imposizione dello studio del tedesco, il frequente ricorso alla parola ‘nazista’ che non troveremmo, se non banalizzato, in adolescenti mediterranei).

Né completi innocenti, né facili colpevoli. Nella Storia, e nel microcosmo della scuola.

Perché la frase d’inizio, “la morte di un uomo è meno affar suo di chi gli sopravvive”, ho detto essere centrale nel film? Come avrà il coraggio di scrivere in un tema, alla fine, un’appartata studentessa, Sabina quasi non la si notava, finché era viva: ora con la sua morte lei si è resa libera, ha fatto la sua scelta, bene o male, mentre chi resta sarà condannato al fantasma, a non dimenticarla più. Fine verità psicologica: sappiamo quanto odiamo i suicidi per i sensi di colpa a cui ci inchiodano. In un’ottica, dunque, intelligentemente ribaltata possiamo vedere la splendida chiusura del film, che coincide con la fine dell’anno scolastico e la gita dei ragazzi a cui, naturalmente, il serio Zupan non va: ma il suo passaggio, ostico, doloroso e antipatico, non sarà stato inutile. Forse ha favorito, più dei metodi ‘buonisti’ che tutto concedono e niente esigono, un passaggio di adultità in tutti, una presa di coscienza: l’immagine finale vede aggirarsi il fantasma di Sabina, e dalla barca che li porta in vacanza, sotto le sue note, una lunga scia bianca increspa il mare…. La scia lasciata dal prof. Zupan, la sua traccia che, come con l’amica scomparsa, porteranno dentro di loro, una voce di rottura al tran tran delle coscienze addormentate?

  “…Per essere creativi, bisogna essere morti.”

 (T. Mann, Tonio Krogher)

 

ottobre 2014

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