Cultura e Società

Control

11/01/12

Anton Corbijn, USA, 2007, 122 min.

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Perdere il controllo

Commento di Andrea Marzi

And she turned around and took me by the hand
And said I’ve lost control again.
Ian Curtis, She’s lost control

Anton Corbijn, conosciuto come fotografo e autore di clips per gruppi musicali (per es. i Depeche Mode, o i Nirvana), costruisce questo film a partire da Touching from a Distance, il libro scritto da Deborah, vedova di Ian Curtis, il cantante e autore dei Joy Division. Il film fra l’altro ha vinto il premio per il Miglior Film Europeo nella sezione Quinzaine des realisateurs del Festival di Cannes(1) .
Il film (o biopic, come viene chiamato il film che si ispira a biografie) racconta asciuttamente gli
gli ultimi tre anni di vita del cantante: l’incontro tra Ian e Deborah, il matrimonio, la formazione del gruppo e il tragico epilogo, focalizzandosi principalmente sulla vicenda personale di Ian e Deborah, e tralasciando altri aspetti di certo significativi della breve vicenda dei Joy Division, come le ambiguità politiche, i rapporti con il mondo del vinile e la società dello spettacolo. Corbijn ritrae in modo affascinante e crudo la parabola esistenziale del protagonista, senza velleità mistificatorie o miticheggianti (rischio molto grande per film del genere). Il suono è in presa diretta, la voce che canta è spesso quella dello stesso Sam Riley, attore straordinariamnte somigliante al suo personaggio, e cantante lui stesso, nel gruppo indie 10000 Things.

Il film quindi è molto pregevole sul piano stilistico ed artistico ed è stato molto apprezzato dalla critica: crea non raramente atmosfere che ricordano il Free cinema inglese, e in molti hanno sottolineato come risulti speculare a certi lavori di Godard (per es. in One Plus One (1968)) o di Gus Van Sant (per es. in Last Days del 2005), allontanandosi da certe celebrazioni compiaciute come per es. quella di Oliver Stone in The Doors (1991).
Non è tuttavia agevole parlare di un film così sul piano analitico, perché l’opera presenta valenze socio-antropologiche preponderanti, che lo connotano in modo deciso e ne sbilanciano la fruizione: basti pensare, per es., a come traspaia dal fraseggiare della pellicola il tramonto di certe decise ideologie, della forte tensione culturale ed emotiva tipica dei primi anni ’70, nell’aprirsi di un’epoca di maggiore incertezza sociale, di angosciato smarrimento esistenziale e di decadimento ideologico, tutte condizioni che all’epoca si fecero sentire in modo pesante anche nello stile musicale. I Joy Division, all’inizio e in sostanza soprattutto un piccolo gruppo musicale scaturente dalla profonda provincia inglese (quella che nel grigiore monocorde, post industriale e un po’ disperato pare ricordare anche la stessa di Irina Palm, ma anche certe scene di Full Monty) si inseriscono presto e certo con autorità e originalità nel filone allora sempre più imperante del punk o punk-rock (qualche critico allora sosteneva che facevano un "punk-inflected(piegato) hard-rock") per divenire rapidamente, cambiando e rallentando il ritmo convulso iniziale, pionieri del movimento musicale fine anni ’70 denominato post-punk, che cominciava a girare verso il Gothic Sound, qui da noi chiamato poi Dark. Il gruppo, a detta dei critici musicali inglesi, divenne presto il primo gruppo nel movimento post punk a utilizzare con intensità non la rabbia e l’energia, quanto l’espressività e l’umoralità nella musica, puntando verso l’ascesa del genere malinconico della alternative music degli anni ’80.Contemporanei dei Clash, lasceranno in eredità un’influenza artistica in molti gruppi successivi, dagli U2 ai Cure, dagli Interpol fino anche ai Red Hot Chilli Peppers (parola del chitarrista Frusciante).
Immersi in una tematica musicale sostanzialmente dolorosa, profondamente triste, angosciosa ma anche per certi versi terrifica, partono con ritmi frenetici e convulsi per rallentare progressivamente, e utilizzare sempre più la voce in stile baritonale di Curtis, che si ispira certo anche al suo ammirato leader dei Doors, Jim Morrison (fin troppo ammirato, forse, data la comune tragica fine).
Lanciano verso e scaturiscono da un genere musicale alternativo che nasceva parallelo, fra l’altro, alla disco-music della Febbre del Sabato Sera (proprio in quegli anni, ricordate?) e ne faceva da contraltare angosciato, sembrava denunciarne il lato falsamente ludico, intriso di promesse di godimento infinito (come le notti alcoolico-drogastiche che da allora in poi si sono impennate e hanno dilagato nel costume sociale, vera globalizzazione dello sballo, lì allo stato nascente), segnava la cartina di tornasole di un’epoca ingravescentemente post moderna e post industriale, che aveva ingranato ancora più fortemente la marcia del turbo-capitalismo, facendo albeggiare Margareth Thatcher, Ronald Reagan, e qualche turbo imprenditore anche mass mediale che per es. da noi stava facendo incetta di televisioni, poi dello Stato. A me sembra che in questa condizione di continua denuncia e sottolineatura esistenziale di un fallimento di vita e di concezione della società, in questa continua auto denuncia di uno smarrimento interiore e interrelazionale stia da sempre la qualità migliore di questo genere musicale, di per sé scarno e per certi versi semplice, suonabile senza dover per forza essere Jimi Hendrix o Jimmy Page, Ritchie Blackmore o Eric Clapton, e senza le complesse ricerche sonore e stilistiche del Progressive Rock primi anni ’70 (King Crimson, Van Der Graaf Generator, Genesis, Yes etc.) e senza le affascinanti soluzioni o contaminazioni musicali di altri generi inglesi d.o.c che avevano segnato un’epoca, come il Jazz di Ian Carr, Keith Tippett, Elton Dean e altri.
Questa drammaticità dei testi, spesso parallelizzata da interessanti atmosfere musicali, dove spesso non c’è spazio per la speranza o per il sorriso, continua tutt’oggi, nei gruppi punk o dei mille altri generi da esso derivati (leggere i testi dei System of a Down, per es.). Non è né è mai stato il mio genere musicale preferito, sinceramente, ma non è possibile disconoscere l’originalità e l’insinuante fascino delle costruzioni musicali dei Joy Division che, lo ricordiamo, sono state create da giovanissimi, quasi alle prime armi, ciò che accresce con valore aggiunto il tono di creatività e di novità. Abbiamo poco sopra detto delle influenze che procederanno da loro verso altri gruppi, e che di sicuro prendono le mosse dalle ispirazioni basilari del gruppo stesso: David Bowie, Iggy Pop, i Sex Pistols, I Velvet Underground di Lou Reed, ma anche i Doors di Jim Morrison, uno dei personaggi più amati da Curtis, come si è detto.
Ian Curtis avrebbe più o meno la mia età, ora, e posso quindi dire senza tema di essere smentito che ho vissuto direttamente tutte queste epoche culturali e musicali, prima e dopo la linea di demarcazione della precoce e prematura conclusione del ‘900, non per nulla denominato "Il secolo breve" (2). Dopo quella linea di demarcazione, la musica pop-rock ha preso una piega diversa; nel tramonto di certe "grandi narrazioni" (del Progressive Rock, come detto, e altro) ha scelto, in una parte creativa di essa, di cavalcare altri ritmi e sonorità, ha scelto la struttura della canzone più che del brano musicale olisticamente inteso, come fosse delusa, frustrata, e relegata in una dimensione più disperata e angosciosa, spesso veloce, fuggevole e talora sfuggente, come preda anche di fruizioni d’ascolto meno concentrate, meno compenetrate nel brano, anche non esenti, va onestamente riconosciuto, da accezioni più consumistiche rispetto al recentissimo passato, forse ncor più di prima denuncia e preda al contempo dell’industria musicale e del business generale, ma meno investita (in senso qui prettamente psicologico) di aspetti partecipativi sociali e politici "overt", quasi più in ritirata. Una musica senza quella più totale partecipazione del Sé (è necessaria la terminologia psicoanalitica, qui) che aveva caratterizzato gli anni precedenti e per questo delusa, intristita, angosciata, esposta a usi più consumistici ancora, forse nel sentore di una sconfitta storica(3) .
Volendo allora offrire un contributo psicoanalitico alla nostra discussione, come stimolo ai futuri interventi, sempre benvenuti, possiamo intravedere due piani di commento che sembrano calzare adeguatamente per Control.
C’è un primo piano su cui si può offrire qualche idea psicoanalitica: è quello che riguarda la vicenda terrena e mortale di Ian Curtis, la sua breve parabola esistenziale intrisa di drammaticità e di finale tragedia, un percorso verso gli inferi progressivo ed ineluttabile, inarrestabile come la sua condizione comiziale. Da ciò che si sa, si è letto, si vede nel film si può pensare, con Bion, alla drammatica rivelazione di un contenitore mentale insufficiente a tenere una crescita maturativa in tal modo impossibile da accogliere, e come rappresentata e stimolata nella realtà della vita vissuta e nel film dal tentativo di uscita da una condizione direi "infantile/adolescenziale" dell’organizzazione del gruppo musicale verso una professionalità più marcata, lanciata verso un successo abbastanza sicuro (come otterranno i New Order, dopo la sua morte) ma richiedente un impegno che appunto la mente e la personalità di Curtis non potevano soddisfare, come lui stesso ha modo di dire durante il film. La sua personalità fragile, nell’incapacità di svilupparsi in modo genuino dall’adolescenza, vi si immerge invece con le caratteristiche di un progressivo ritiro psico-sociale,assumendo questa contrazione le caratteristiche di disperazione esistenziale, così rischiose in questo periodo della vita umana.
Il tentativo di maturare d’un botto, quasi per decisione volitiva, fallisce insieme col matrimonio intempestivo e dannoso, e Ian sembra travolto da una colpa che, si intuisce, si fa sempre più persecutoria e inevitabile. Il senso di fallimento è impossibile da tollerare, l’annichilimento pare la punizione più giusta per chi non è riuscito ad essere quello che l’idealità richiedeva, o più semplicemente, quello che un’acquisizione più adeguata di identità poteva conferire, e che invece diventa progressivamente un campo interiore di desolata distruzione.
Disperso, confuso, forse istigato organicamente da un’epilessia che sappiamo spinge alle volte verso impulsività inarrestabili, forse mal curato, soprattutto per quella che si può definire in gergo tecnico una sua scarsissima compliance farmacologica, di sua responsabilità, trascurato da tutti, sottovalutato nella propria patologia dagli altri membri del gruppo, altrettanti adolescenti dalla difficile maturazione, disperatamente solo nonostante l’affetto e l’amore di persona a lui vicine, Ian sceglie di rinunciare a se stesso, alla vita, in un estremo tentativo di mostrare la propria esistenza e il proprio intrinseco valore umano: una disperata, irrimediabile richiesta di riconoscimento di esserci, forse intriso della pericolosa fantasia di palingenesi, e non esente da valenze colpevolizzanti verso gli oggetti importanti della sua vita.
Nulla sappiamo del rapporto coi genitori e con la madre, anche se il film sembra adombrare la presenza di una delle tante famiglie fratturate nel rapporto genitori/figli, gravata da un perdurante silenzio relazionale, di una relazione cioè più densa e affettivamente marcata.
Nei suoi versi, Ian talvolta si rivolge alla madre, come nella dolorosa e disperata Isolation, pervasa di avvilita incomunicabilità, di inemendabile e intrasformabile sofferenza, di speranza che, appena sorta, si intuisce devoluta al fallimento, di perdurante autobiasimo :

Madre credimi ho provato,
faccio il meglio che posso,
ma mi vergogno delle cose che mi è toccato attraversare,
mi vergogno della persona che sono.
Isolamento, isolamento
Ma se tu potessi vedere anche solo la bellezza,
queste cose che non potrei mai descrivere,
questi piaceri da ribelli distrazioni,
questa sarebbe la mia unica fortuna.

(Mother I tried please believe me,
I’m doing the best that I can.
I’m ashamed of the things I’ve been put through,
I’m ashamed of the person I am.

Isolation, isolation, isolation.

But if you could just see the beauty,
These things I could never describe,
These pleasures a wayward distraction,
This is my one lucky prize.)


Influenzato da William Burroughs e da James Ballard, ma anche da T. S. Elliott, Curtis mette nero su bianco una pregnante poetica in statu nascendi grandemente sottovalutata da tutti, specie dai membri del gruppo(4) , ma che incarna disorientamento e solitudine, speranza fallita,delusione, disperazione, autobiasimo, con insinuante depressione, bagliori di terrore e distruttività, talora una sorta di biblica apocalitticità, in una disperata ricerca di senso spesso naufragante nelle acque di una modernità perduta, o in paesaggi evocanti scenari post atomici o da horror fantascientifico, dove l’essere umano/Ian perde di senso, schiacciato da troppo peso, da troppa responsabilità, dove il fare "the best I can" non è più sufficiente, dove "si perde il controllo", e dove si è invasi ineluttabilmente dalla distruttività, la speranza decade, a poco serve pescare nel romanticismo adolescenziale per addolcire la disperazione che assume alle volte toni cimiteriali.
Curtis viene travolto senza poter sviluppare una personalità poetica evoluta e tanto solida da canalizzare dentro i testi le sue drammatiche condizioni esistenziali in modo da tentare sublimazioni e simbolizzazioni appropriate. Viene invece travolto dall’onda di ritorno dell’incapacità di contenere e creare e questo forma una sorta di miccia retroattiva che lo porta a distruzione.

Un secondo piano è invece costituito da ciò che potremmo individuare come un possibile percorso onirico creato dal regista (o, se vogliamo, dal gruppo registico, da tutti coloro cioè che contribuiscono fattivamente alla realizzazione artistica dell’opera filmica, che come sappiamo è spesso un’opera corale: basti pensare al contributo basilare del montatore), che scorre lungo le immagini e le usa per comunicare una particolare fantasia dell’artista. In questo caso mi pare che "il sogno del regista" possa procedere, per ipotesi,da una sorta di avvertimento: guarda quale disastro può accadere se le forze contenitive ed evolutive dentro la mente non riescono a funzionare in modo adeguato, se la distruttività prende il sopravvento sulla possibilità di essere verso se stessi una "madre sufficientemente buona" (per mutuare Winnicott) che sappia condurre ad evoluzione e maturazione la mente del se stesso/piccolo bambino, ed invece la lasci preda di forze ingestibili, inattribuite di senso, caotiche e magmatiche tanto da debordare inarrestabili. Come se il film fosse la rappresentazione estroflessa della mente stessa, e i personaggi fossero la rappresentazione teatrale (filmica, in realtà) degli aspetti psichici fatti carne, artisticamente e reciprocamente interagenti, dotati di parola per verbalizzare la propria natura e la propria vis dinamica. Grosso modo in quest’ottica potremmo allora cogliere Ian e anche i membri della band come quella parte del Sé del soggetto che non è in grado di dare supporto adeguato all’elaborazione di quegli aspetti della mente primitiva i quali, in formazione, non riescono così a trovare un alveo elaborativo tale da plasmare a sufficienza il talento artistico in una dimensione capace di organizzare e rappresentare in modo esteticamente compiuto quegli stessi aspetti, impedendogli quindi di esondare senza rappresentazione, senza simbolizzazione; forse nel caso specifico sarebbe più corretto dire senza una energia rappresentazionale sufficientemente costante e perdurante, coerente e solida nello spazio e nel tempo. Continuando a immaginare su questo binario interpretativo, saremmo legittimati a pensare che Corbijn abbia potuto creare un’opera artistica che sdoppia una parte del proprio Sé nella vicenda di Ian, attribuendogli le caratteristiche inevolutive, distruttive e autodemolitive che la vera storia del personaggio reale incarna, e lasciando per sé invece la capacità artistica di rappresentare, sublimare la vicenda interiore, salvandosene quindi in tal modo, prendendone le distanze attraverso l’opera artistica medesima, in un gioco che comprende soprattutto proiezione, sublimazione e reintroiezione. Sarebbero questi perciò i meccanismi psicologici profondi che ci aiuterebbero a godere del film e a partecipare in modo attivo e profondo alla vicenda di Ian.
Se l’arte è, analiticamente, lo sforzo di ridare vita agli oggetti resi orribili, brutti e morti dalla propria distruttività (come ci suggeriscono John Rickman prima, e successivamente Melanie Klein e soprattutto Hanna Segal), Curtis si è dovuto tragicamente arrendere in breve tempo a questa impossibilità, così come all’incapacità di dare costanza e durata allo sforzo di ricostruire adeguatamente il suo mondo interno, aprendo la strada al crollo su di sé di quello esterno.
Corbijn allora, attraverso il film, sembra tentare di costruire un mondo altro, un metamondo per Ian, raccontandone la triste vicenda, in modo da esternalizzare nella realtà concreta del film uno stato esistenziale e del mondo interiore sia di Ian che di sé medesimo, nella stessa produzione artistica, quasi a tentare un riscatto psichico per così dire postumo per Ian Curtis, grazie all’opera d’arte che organizza e compone ciò che è rimasto prima frammentato e distruttivo, e forse, chissà, anche per se stesso (ipotesi temeraria, certo, ma sempre possibile). Una duplice impresa come in una scatola cinese dalla pregnante suggestione per lo spettatore.
Il big bang di Ian Curtis/aspetto mentale prende così la strada non di un’esplosione creativa destinata a rimanere nel tempo (come l’indubbio talento del vero Ian faceva presagire dalla qualità dei suoi testi e delle sue interpretazioni) ma di un’esplosione autoabortiva.
Potrebbe venire in mente di citare, rimanendo in ambito cinematografico, come epitaffio alla breve parabola artistica del nostro tragico musicista, le famose parole dell’androide morente di Blade Runner, anch’egli irrisolto, inevoluto, dotato di tempo troppo breve per poter durare: "E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…E’ tempo di morire".
Ma così facendo rischieremmo di vedere solo il messaggio tragicamente regressivo di Curtis.
E’ pur vero che Ian, al contrario dell’androide che muore in qualche modo riappacificato, ci lascia in maniera tale che anche noi, come lui, possiamo ricordare con rabbia, e anche con partecipato sgomento, chi, nella "Mostra dell’atrocità" (Atrocity Exhibition), ci chiedeva di vedere davvero gli

Omicidi di massa su una scala mai vista,
e tutti coloro che ce la mettono tutta per riuscire.
(See mass murder on a scale you’ve never seen,
And all the ones who try hard to succeed.)

Ma tutti noi, proprio grazie al suo messaggio artistico, anche se breve, e a quello così suggestivo di Corbijn, possiamo invece vedere molto più in là e non dimenticare più la sua dimensione umana e la sua durevole impronta artistica.

 


Note:

 

(1 )Era quasi inevitabile che fosse Corbijn a raccontare con le immagini la storia di Ian Curtis, per diverse ragioni: innanzitutto perché il fotografo olandese aveva avuto modo di conoscere di persona i Joy Division, dal momento che si trasferì in Inghilterra dall’Olanda in quanto loro fan e poi immortalò il gruppo di Manchester, poco tempo prima del suicidio di Ian, in un famoso scatto rimasto celebre dal punto di vista iconografico. L’immagine ritrae i quattro musicisti di spalle all’interno di una galleria in discesa. Ian, sulla destra, è leggermente girato e guarda di scorcio l’obiettivo.
Sembra quasi che col film Corbijn voglia prolungare quella fotografia sul piano narratico e figurativo.(2 Il secolo breve è un saggio di Eric Hobsbawn che sostiene che il ‘900 inizia in realtà nel 1914 e si conclude nel 1991, all’indomani della caduta del muro di Berlino, con varie conseguenze sociali e politico-storiche per l’Europa e il pianeta in generale. Ma anche Franco Fortini sostiene più volte nella sua opera che il secolo appena trascorso è stato comunque un secolo breve, addirittura concludentesi intorno alla metà degli anni ’70, soglia che ha segnato l’avvento di qualcosa di diverso, nella caduta di ciò che prima era più presente e vitale, sul piano sociale, politico, artistico. Mi sento più vicino a questa concezione sul "secolo breve", retrodatandone cioè la sua precoce scomparsa , perché questo coincide molto bene con quanto accenno nel testo circa la mutazione dei generi musicali. I Joy Division esemplificano con grande determinazione quanto detto.(3 I Joy Division, si commenta da più parti, dettarono la linea ad una generazione che non aveva alcuna voglia di sorridere, mostrandole che non si era costretti a farlo neppure su un palco. (4)Morris dirà alcuni anni dopo, con imbarazzo, che è solo dopo la morte di Ian che il gruppo si è accorto che il loro autore non parlava di altri o di altro all’esterno, nei testi, ma soprattutto di se stesso, passando tuttavia inosservato.

Dicembre 2011 

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